Il nuovo libro di Chiara Lalli è una sorta di storia dell’obiezione di coscienza in Italia. Non costituisce però un racconto evenemenziale: ciò che principalmente interessa l’autrice è semmai documentare il cambiamento che è intervenuto da quando se ne è cominciato a parlare, al tempo in cui si riferiva quasi esclusivamente alla renitenza alla leva.
Il libro comincia infatti soffermandosi a lungo sull’obiezione al servizio militare, intervistando protagonisti di quelle battaglie quali l’anarchico Agostino Manni, che ricorda come si sia trovato solo in cella con altri dieci testimoni di Geova. Sono gli unici, a detta di Lalli, che possono essere definiti «veri» obiettori di coscienza, perché «si sono opposti a un obbligo (la leva) e hanno pagato il prezzo per la loro opposizione (il carcere)». In casi come i loro, nota, «la libertà di scelta altrui non è minacciata dalla decisione dell’obiettore genuino, se non in un senso debole per cui ogni nostra azione riguarda anche gli altri», per cui «il conflitto non è tra un singolo e l’altro, ma tra un singolo e l’obbligo di rispettare un divieto o un ordine la cui violazione non lede il diritto di qualcuno in senso forte».
A partire dal 1972, con l’introduzione del servizio civile, il concetto cambia però di significato, perlomeno all’interno della giurisprudenza. L’obiezione di coscienza diventa un diritto positivo. La legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza consacrerà questa nuova interpretazione e cambierà il corso della storia dell’obiezione di coscienza nella penisola: da simbolo forte di opposizione al potere diventerà addirittura uno strumento per raggiungerlo. Osserva giustamente Lalli che, a pensarci, «fa impressione che si usi lo stesso termine quando si parla, oggi, dei medici che non vogliono eseguire le interruzioni di gravidanza o prescrivere un farmaco, e li si immagina seduti alla loro scrivania mentre spiegano che la coscienza impedisce loro di agire. Non pagano nulla e non rischiano nulla». Al punto che, quando «la rivendicazione ci appare giusta, dovremmo chiamarla in modo diverso quando la legge la permette: libertà, opzione, facoltà». «Un’espressione della libertà individuale».
Ma, nello stesso tempo, anche un congegno che può essere usato, «senza troppi complimenti, come un ariete per contrapporsi a diritti individuali sanciti dalla legge». Individui contro individui, medici obiettori contro donne che chiedono un servizio previsto dalla legge. «La manipolazione del suo significato è compiuta: l’obiezione di coscienza è spesso brandita come arma contro l’esercizio delle singole volontà»: «un destino buffo per uno strumento dal sapore liberale e libertario, più affine all’individualismo e alla disobbedienza civile che all’autoritarismo e al moralismo legale».
Il risultato è che ora abbiamo ora una legge che trova enormi difficoltà a essere effettivamente applicata e medici che, lungi dal rischiare il carcere, spesso ottengono riconoscimenti e fanno addirittura carriera, come nella Lombardia del ciellino Formigoni. La percentuale di obiettori tende costantemente ad aumentare, perché è «una scelta facile e indolore» che rende ormai carta straccia «la libera scelta iniziale (diventare ginecologi e lavorare nel pubblico), che vincola l’individuo a doveri e non solo a diritti professionali e privilegi».
Tutto questo in nome dell’obiezione di coscienza e della libertà di religione. O meglio: di una sola confessione religiosa. Perché nessuno, nemmeno i cattolici, accetterebbe, «come doveroso rispetto per le differenze, che un testimone di Geova non facesse una trasfusione a un paziente», o che «un ristoratore si rifiutasse di servire un pasto a una donna non sposata perché la considera impura o svergognata». O, ancora, che un autista di tram chiudesse le porte in faccia a qualcuno perché sta andando in un luogo che non approva. E invece accettiamo supinamente che le cliniche si riempiano di medici ipocriti.
Le disavventure da incubo a cui possono andare incontro le donne in un ospedale pubblico sono ormai talmente ordinarie che non fanno nemmeno più notizia. Eppure il grimaldello dell’obiezione può, se possibile, rendere ancora peggiore la società: già introdotto nella legge 40 sulla fecondazione artificiale, stanno ora cercando di estenderlo anche ai farmacisti in relazione alla contraccezione d’emergenza. Senza dimenticare i sindaci, come Alfredo Celeste di Sedriano, in provincia di Milano, che in nome di Dio (e della dottrina cattolica) si rifiutano di celebrare matrimoni civili. E senza dimenticare che una legge repressiva sul testamento biologico è ormai alle porte.
Si ascolta sovente la domanda: «Non vorrete mica trasformare i medici in meri esecutori?». No, risponde Lalli, «ma non vorremmo nemmeno essere trasformati in burattini nelle mani di un medico, o di un farmacista che crede che avere rapporti sessuali non a scopo riproduttivo sia un peccato e non vuole venderci un contraccettivo». Mancava un testo che fosse una riflessione a 360 gradi sull’obiezione e sull’uso strumentale che ne viene ormai fatto. C’è chi dice no colma finalmente questo vuoto.
Raffaele Carcano
Ottobre 2011