Le proposte editoriali che affrontano il fenomeno religioso sono sempre più stereotipate, sia quelle realizzate da autori cattolici (i libri su padre Pio, per esempio, o le sedicenti ‘conversioni’ di personaggi mai allontanatisi dalla fede), sia che siano state elaborate in ambienti laici o anticlericali (su tutte le ‘definitive’ ricostruzioni della vita di Gesù). Anche in questo caso sembra che sia rigidamente applicata una sorta di regola aurea del mondo culturale: affidarsi ai soliti argomenti, in modo che editore e autore non corrano alcun rischio di prendere cantonate. Un pessimo segnale: se homo sapiens si fosse sempre comportato così, al giorno d’oggi non saprebbe probabilmente nemmeno conservare il fuoco.
Lo studio del rapporto tra economia e religione è uno di quegli sforzi che vengono regolarmente schivati come la peste: non esiste molta documentazione, non esiste nemmeno una diffusa competenza. Chi lo affronta lo fa a proprio rischio e pericolo: il tentativo intrapreso da Philippe Simonnot, giornalista economico e direttore dell’Observatoire des religions, è dunque da salutare con favore.
L’occhio che l’autore pone sulla fede è quello dell’economista che esamina il funzionamento (o per meglio dire il rendimento) delle organizzazioni religiose con gli stessi metodi con cui l’analista di borsa studia i bilanci societari. L’approccio in sé non è nuovo, quantomeno in ambito sociologico, ma a differenza della teoria del mercato religioso e della scelta razionale formulata da Stark e Finke qui non siamo in presenza di un tentativo apologetico di ribadire in modo nuovo la superiorità del cristianesimo, ritenuto capace di presentare un’offerta migliore sul mercato della fede (ritenuto contraddistinto da una domanda costante), quanto piuttosto a uno sforzo di comprendere quanto, al contrario, i meccanismi di funzionamento delle religioni dipendano da schemi economici.
Non a caso Simonnot comincia il libro citando Adam Smith, secondo cui il prezzo del prodotto è più elevato e la sua qualità minore se non c’è concorrenza religiosa: ogni monopolio, sia pure religioso, ha dunque bisogno dello Stato per conservarsi. L’affermazione può sembrare quasi un’ovvietà, tanto sono gli esempi che la suffragano, ma è indispensabile premetterla a ogni riflessione, perché la storia religiosa del mondo è in realtà caratterizzata da rarissimi periodi di concorrenza, da una domanda nient’affatto costante (e per di più calante in regime di ‘libero mercato’) e, invece, dall’universale istituzione di monopoli pubblici: «nella storia, ogni monopolio religioso si è appoggiato all’autorità pubblica, oppure se ne è appropriato». Constatazione coraggiosa, di questi tempi, anche se poi l’autore sembra considerare con un occhio diverso il decisivo sostegno costantiniano alla nascita del primo vero monopolio religioso, quella Chiesa cristiana che si impose a suon di decreti imperiali.
Come ogni impresa, scrive l’autore, anche ogni religione ha una tendenza più o meno spiccata alla monopolizzazione. Poiché l’efficacia della pratica religiosa non è né verificabile né falsificabile, le comunità di fede beneficia soprattutto dell’effetto di rete: «il valore che un consumatore attribuisce a un bene dipende dal numero di utenti di questo bene». E il monoteismo anche da questo punto di vista è, come la stessa etimologia evidenzia, la forma religiosa più attrezzata, specialmente quello proselitista che uniforma e centralizza la pratica religiosa: «a un dio unico deve essere dedicato un unico culto in un unico luogo».
La trattazione dei tre più noti monoteismi costituisce dunque la parte preponderante del saggio. Quello ebraico (che peraltro è fortemente debitore del mazdeismo) costituisce, a detta di Simonnot, una sorta di paradigma: nessun altro tempio dell’antichità ha raggiunto il livello di ricchezza di quello di Gerusalemme, «perché nessun altro era in condizione di monopolio al servizio di un unico dio», e dunque «si capisce che i monoteismi che riusciranno a entrare nel ‘mercato’ religioso saranno fortemente impressionati da questo business model, ma dovranno prima recuperare l’eredità di Abramo». Cosa che faranno senza problemi: per rendersi credibili sul mercato della fede si presenteranno, come ogni altra religione, facendo contemporaneamente ricorso all’antichità e alla novità del messaggio di ‘verità’: due errori argomentativi che, come ben sanno i maestri di retorica, hanno però un’efficacia senza pari.
Il cristianesimo, e in particolare la Chiesa cattolica, affineranno dunque il modello ebraico: la legislazione canonica introdurrà strumenti, quali il divieto di adozione, la durissima limitazione dei matrimoni tra lontani consanguinei e l’istituzione di orfanotrofi, che aggiungendosi alla fortissima incentivazione della castità andranno a ridurre fortemente i beni trasferiti da una generazione all’altra, favorendo il trasferimento di enormi risorse economiche alla Chiesa stessa: «una fecondità ricondotta al minimum minimorum moltiplicava la probabilità di coppie che muoiono senza eredi e allo stesso tempo la probabilità di donazioni o di lasciti alla Chiesa». Non solo: «essa poteva trovare una fonte apprezzabile di rendita monetizzando dispense alle proibizioni da lei stessa definite». In tal modo è stata forse messa a repentaglio la stessa sopravvivenza demografica del continente europeo, ma si è permesso al papato di essere per lungo tempo la maggiore potenza finanziaria del mondo.
L’economia dell’islam è trattata più brevemente: l’accento è posto soprattutto sulla ricerca delle ragioni della sua ascesa, di cui un po’ a sorpresa si mettono in discussione le diverse tappe della conquista araba, quasi che la costruzione di un passato idealizzato debba essere un prerequisito indispensabile per ogni religione che si rispetti. L’islam, privo di un’autorità centralizzatrice, troverà comunque nel califfato un punto unificante (Simonnot vede in Abd al-Malik il sovrano che, sul finire del VII secolo, darà all’islam la fisionomia attuale). Anche in questo caso una decima imposta ai fedeli, la zakat, sotto la veste di un’elemosina rituale consentirà la gestione di cospicue somme di denaro per fini religiosi.
L’autore, se da un lato esprime il suo apprezzamento per «il ruolo propriamente capitalista di tanti papi, vescovi, abati», capaci di investire i propri patrimoni «nel modo più razionale», dall’altro riconosce che le tre religioni svolgono un «ruolo predatorio», rappresentando un freno allo sviluppo economico. Discutibili appaiono i brevi accenni alla laicità, definita una «pseudoreligione» a disposizione dello stato per fare concorrenza alle religioni ‘vere’: in realtà è proprio la laicità ad assicurare la concorrenza tra le religioni, per quanto c’è molto da dubitare (statistiche alla mano) che tale concorrenza sia benefica per la religione in generale
In conclusione, un libro ‘scientifico’ che non piacerà agli anticlericali vecchio stampo, ma che può costituire un utilissimo strumento di lavoro per chi intende studiare criticamente il fenomeno religioso. Documentato ed erudito, è anche un originale contributo per la comprensione della genesi del monoteismo.
Raffaele Carcano
marzo 2010