Benedetto XVI e la pena di morte

Capitolo tratto dal libro di Francesco D’Alpa Il “sì” cattolico alla pena di morte, Catania, Laiko.it 2008, ISBN-13 9788895357058. Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione alla riproduzione del testo.

Dopo le prese di posizione di Giovanni Paolo II, sempre più orientato in senso abolizionista, la cristianità si attende che il suo successore proceda nella stessa direzione. Ma Benedetto XVI, se pure ha contribuito personalmente alla stesura di molti documenti di Giovanni Paolo II, non ne ha probabilmente le medesime convinzioni etiche.

Lo dimostra chiaramente il Memorandum per la conferenza episcopale degli Stati Uniti, occasionato dalla candidatura alle elezioni di politici cattolici che fanno campagna sistematica per l’aborto, un documento “riservato” ma ben noto, da lui scritto nel 2004.

In questo documento vige un assoluto dogmatismo sui temi dell’aborto e dell’eutanasia, che vengono riproposti nello spirito (e con puntuali citazioni) dell’Evangelium vitae, mentre la posizione sulla pena di morte è sottoposta alle ragioni e convenienze politiche.

Si ponga attenzione infatti al contrasto fra i riferimenti all’Evangeliun vitae:

 

«I cristiani “sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male […] Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede” (n. 74)

 

e le personali considerazioni:

 

«Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull’applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la santa comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell’applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia».

 

Si osservi bene come, secondo Ratzinger, un cattolico sia moralmente colpevole, e dunque non può ricevere la comunione, non solo se pratica l’aborto, ma perfino se vota per un candidato abortista proprio per sostenere la sua scelta, mentre è assolutamente ininfluente se egli vota per un candidato favorevole alla pena di morte; ma non solo, neanche al boia viene evidentemente preclusa la comunione.

 

«A parte il giudizio di ciascuno sulla propria dignità a presentarsi a ricevere la santa eucaristia, il ministro della santa comunione può trovarsi nella situazione in cui deve rifiutare di distribuire la santa comunione a qualcuno, come nei casi di scomunica dichiarata, di interdetto dichiarato, o di persistenza ostinata in un peccato grave manifesto.
Riguardo al peccato grave dell’aborto o dell’eutanasia, quando la formale cooperazione di una persona diventa manifesta (da intendersi, nel caso di un politico cattolico, il suo far sistematica campagna e il votare per leggi permissive sull’aborto e l’eutanasia), il suo pastore dovrebbe incontrarlo, istruirlo sull’insegnamento della Chiesa, informarlo che non si deve presentare per la santa comunione fino a che non avrà posto termine all’oggettiva situazione di peccato, e avvertirlo che altrimenti gli sarà negata l’eucaristia».

 

Il contrasto con l’ultimo Giovanni Paolo II è stridente. In luogo delle esitazioni del pontefice in carica, il prefetto Ratzinger esibisce un più che palese relativismo morale.

Ma divenuto papa, il cardinale si fa più prudente, e si accoda al suo predecessore.

Così, il Compendio del Catechismo, redatto sotto la sua direzione, e pubblicato nel 2005 ribadisce sostanzialmente quanto scritto nel Catechismo del 1992 e nell’Editio Tipica del 1997.

 

«[466] Perché la vita umana va rispettata? Perché è sacra. Fin dal suo inizio essa comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. A nessuno è lecito distruggere direttamente un essere umano innocente, essendo ciò gravemente contrario alla dignità della persona e alla santità del Creatore: “Non far morire l’innocente e il giusto” (Esodo 23,7)».
«[467] Perché la legittima difesa delle persone e delle società non va contro tale norma? Perché con la legittima difesa si attua la scelta di difendersi e si valorizza il diritto alla vita, propria o altrui, e non la scelta di uccidere. La legittima difesa, per chi ha responsabilità della vita altrui, può essere anche un grave dovere. Tuttavia, essa non deve comportare un uso della violenza maggiore del necessario».
«[468] A che serve una pena? Una pena, inflitta da una legittima autorità pubblica, ha lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa, di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, di contribuire alla correzione del colpevole».
«[469] Quale pena si può infliggere? La pena inflitta deve essere proporzionata alla gravità del delitto. Oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Evangelium vitae). Quando i mezzi incruenti sono sufficienti, l’autorità si limiterà a questi mezzi, perché questi corrispondono meglio alle condizioni concrete del bene comune, sono più conformi alla dignità della persona e non tolgono definitivamente al colpevole la possibilità di redimersi».
«[470] Che cosa proibisce il quinto Comandamento? Il quinto Comandamento proibisce come gravemente contrari alla legge morale:
  • l’omicidio diretto e volontario, e la cooperazione ad esso;
  • l’aborto diretto, voluto come fine o come mezzo, nonché la cooperazione ad esso, pena la scomunica, perché l’essere umano, fin dal suo concepimento, va rispettato e protetto in modo assoluto nella sua integrità;
  • l’eutanasia diretta, che consiste nel mettere fine, con un atto o l’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte;
  • il suicidio e la cooperazione volontaria ad esso, in quanto è un’offesa grave al giusto amore di Dio, di sé e del prossimo: quanto alla responsabilità, essa può essere aggravata in ragione dello scandalo o attenuata da particolari disturbi psichici o da gravi timori».
«[472] Perché la società deve proteggere ogni embrione? Il diritto inalienabile alla vita di ogni individuo umano, fin dal suo concepimento, è un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione. Quando lo Stato non mette la sua forza al servizio dei diritti di tutti e in particolare dei più deboli, tra i quali i concepiti ancora non nati, vengono minati i fondamenti stessi di uno Stato di diritto».

 

Queste posizioni, a ben vedere, si allontanano comunque dalla tradizione cristiana, per la quale la vita materiale non è affatto un valore assoluto, tanto è vero che la si può sacrificare perfino per difendere la verginità (come ad esempio dimostra il giudizio ecclesiastico nel caso di Maria Goretti).

La prima importante uscita pubblica di Benedetto XVI sul tema della pena di morte potrebbe essere quella del 1° gennaio 2006, in occasione del suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace. Ma le attese sono decisamente disilluse.

Nell’illustrare il tema prescelto, Benedetto XVI elenca infatti, quali ostacoli da superare nella costruzione di un mondo più giusto: violenza, guerre, terrorismo, nichilismo, fanatismo religioso, spese militari, scenari di morte. Quindi sostiene:

 

«la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal suo Fondatore, non si stanca di proclamare dappertutto il “Vangelo della pace”. Animata com’è dalla salda consapevolezza di rendere un indispensabile servizio a quanti si dedicano a promuovere la pace, essa ricorda a tutti che, per essere autentica e duratura, la pace dev’essere costruita sulla roccia della verità di Dio e della verità dell’uomo».

 

Dunque, nessun chiaro accenno alla pena di morte; similmente, in una successiva occasione, il 30 marzo 2006, allorché egli incontra una delegazione degli europarlamentari del Partito Popolare Europeo, cui indica come «principî non negoziabili» in politica

 

la «protezione della vita in ogni suo stadio, dal concepimento fino alla morte naturale», la difesa «della naturale struttura della famiglia quale unione tra un uomo e una donna basata sul matrimonio» e la «protezione del diritto dei genitori a educare i figli».

 

Le moratorie continuano ad andare bene, invece, e vengono plaudite, quando proclamate in casa d’altri.

Il 26 giugno 2006, ad esempio, Benedetto XVI riceve in udienza il Presidente della Repubblica delle Filippine, Gloria Macapagal-Arroyo. Al termine dell’incontro, J. Navarro-Valls dichiara in Sala Stampa:

 

«Nel corso del cordiale colloquio, il Presidente ha illustrato al Santo Padre la nuova legge che abolisce la pena di morte, firmata proprio sabato scorso, festa di S. Giovanni Battista. […] Il Presidente ha infine notato come i valori cristiani, in cui si riconosce la maggioranza dei Filippini, trovino espressione e sostegno anche nella legislazione dello Stato».

 

Abbastanza ipocritamente, la Santa sede si propone invece come decisamente avversa in linea di principio alla pena di morte in occasione della condanna di tre cattolici in Indonesia. Così, il 23 settembre 2006, un comunicato della Sala Stampa afferma:

 

«La Santa Sede ha appreso con vivo rammarico la notizia dell’avvenuta esecuzione dei Sigg.ri Fabianus Tibo, Dominggus da Silva e Marinus Riwu, ritenuti responsabili delle violenze di Poso, in Indonesia, nel 2000.
Al riguardo, la Segreteria di Stato è intervenuta ripetutamente presso le Autorità indonesiane per chiedere, a nome del Santo Padre, un gesto di clemenza in favore dei tre condannati. Oltre al telegramma reso pubblico il 12 agosto u.s., l’Em.mo Cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano ha inviato al Capo dello Stato, SE Susilo Bambang Yudhoyono, due lettere, in data rispettivamente del 5 dicembre 2005 e del 7 marzo 2006. Altri passi sono stati compiuti attraverso l’Ambasciata dell’Indonesia presso la Santa Sede il 13 dicembre 2005, il 14 febbraio e il 20 settembre 2006.
Collocandosi su un piano strettamente umanitario, ispirato alla nota posizione della Chiesa cattolica sulla pena di morte, e tenendo ben presenti le particolarità del doloroso caso, la Santa Sede, con i suoi interventi, ha inteso non da ultimo contribuire agli sforzi in favore del processo di riconciliazione in Indonesia e alla tradizionale pacifica convivenza fra gli appartenenti alle diverse religioni, che si auspica continuerà a contraddistinguere quel grande Paese».

 

La problematica riaffiora nel messaggio papale in occasione della celebrazione della Giornata mondiale della pace del 2007 (1° gennaio):

 

«Ho voluto che in occasione della Giornata Mondiale della Pace la comune attenzione si concentrasse sul tema: Persona umana, cuore della pace. Sono infatti convinto che rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni.
Il dovere del rispetto per la dignità di ogni essere umano, nella cui natura si rispecchia l’immagine del Creatore, comporta come conseguenza che della persona non si possa disporre a piacimento. Chi gode di maggiore potere politico, tecnologico, economico, non può avvalersene per violare i diritti degli altri meno fortunati. È infatti sul rispetto dei diritti di tutti che si fonda la pace. Consapevole di ciò, la Chiesa si fa paladina dei diritti fondamentali di ogni persona. In particolare, essa rivendica il rispetto della vita e della libertà religiosa di ciascuno. Il rispetto del diritto alla vita in ogni sua fase stabilisce un punto fermo di decisiva importanza: la vita è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità. Ugualmente, l’affermazione del diritto alla libertà religiosa pone l’essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all’arbitrio dell’uomo. Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell’uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell’uomo in quanto tale».
«È comprensibile che le visioni dell’uomo varino nelle diverse culture. Ciò che invece non si può ammettere è che vengano coltivate concezioni antropologiche che rechino in sé stesse il germe della contrapposizione e della violenza. In ugual modo inaccettabili sono concezioni di Dio che stimolino all’insofferenza verso i propri simili e al ricorso alla violenza nei loro confronti. È questo un punto da ribadire con chiarezza: una guerra in nome di Dio non è mai accettabile! Quando una certa concezione di Dio è all’origine di fatti criminosi, è segno che tale concezione si è già trasformata in ideologia».

 

Ma quali sono le minacce alla vita e alla pace?

 

«conflitti armati […] terrorismo […] svariate forme di violenza […] fame […] aborto […] sperimentazione sugli embrioni […] eutanasia […] difficoltà che tanto i cristiani quanto i seguaci di altre religioni incontrano spesso nel professare pubblicamente e liberamente le proprie convinzioni religiose […] le disuguaglianze nell’accesso a beni essenziali, come il cibo, l’acqua, la casa, la salute; dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna nell’esercizio dei diritti umani fondamentali […] non sufficiente considerazione per la condizione femminile […] atteggiamento irrispettoso verso l’ambiente […] la distruzione dell’ambiente, un suo uso improprio o egoistico e l’accaparramento violento delle risorse della terra […] concezioni antropologiche che rechino in se stesse il germe della contrapposizione e della violenza […] concezioni di Dio che stimolino all’insofferenza verso i propri simili e al ricorso alla violenza nei loro confronti […] indifferenza per ciò che costituisce la vera natura dell’uomo […] inedite modalità di violenza […] la volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari».

 

In un così corposo elenco non viene affatto menzionata la pena di morte. Non la si può ovviamente considerare semplice dimenticanza. Lo nota certamente la stampa cattolica, che aggiusta il tiro. Così su Avvenire del 31 dicembre 2006, a commento del messaggio, si legge:

 

«Quando il Papa sottolinea che “la Chiesa si fa paladina dei diritti fondamentali di ogni persona” ha dalla sua parte la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che proclama che “la dignità dei membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” […] La consapevolezza di vita e pace come “dono e compito” deve portare a espellere, una volta per tutte, “pena di morte” e “guerra” dal vocabolario della promozione umana. Poiché il Diritto internazionale dei diritti umani, nella sua corretta interpretazione, assume il valore assoluto della vita umana quale suo principio fondativo, né va asserita, in punto di diritto e in punto di morale, la superiorità rispetto a qualsiasi altro capitolo di Diritto, compreso il “Diritto internazionale umanitario” al cui fondamento sta, non la vita umana, ma la sovranità degli Stati. Ringraziamo ancora una volta la Provvidenza per aver seminato questi talenti nella storia, che oggi urge far fruttare con un impegno tanto più convinto quanto più frequenti sono gli attentati alla vita».

 

Come ben si nota, “pena di morte” compare in virgolettato, come “guerra”, e dunque si fa intendere come pronunciata dal papa; cosa non vera. È curioso notare anche come, per l’articolista, la «Provvidenza» abbia parlato agli Stati attraverso la storia e non mediante le scritture o la tradizione cristiana (che ben sappiamo orientate in ben altra direzione)!

Il 3 febbraio 2007 si conclude a Parigi il Terzo congresso mondiale contro la pena di morte e il papa si mostra pronto ad accodarsi al movimento abolizionista, pretendendo addirittura di divenirne (al di fuori del magistero) il campione.

Infatti invia un messaggio in cui si sostiene, come viene riferito, che

 

«la pena di morte non è soltanto un attentato alla vita, ma anche un’offesa alla dignità umana […] Per Benedetto XVI, gli Stati hanno a disposizione mezzi “più” efficaci (della pena capitale) per impedire i delitti rendendo colui che ha commesso un’offesa incapace di fare il male senza togliergli definitivamente la possibilità di riscattarsi» (ANSA-AFP, 3/2/2007).

 

Ma il messaggio è solo di facciata. Infatti, tanto per non ingenerare fraintendimenti, quello che non dice il papa lo chiariscono altri in sua vece. Dunque l’8 febbraio 2007, in Vaticano, durante la conferenza stampa a margine dell’incontro del Papa con i vescovi amici del Movimento dei Focolari, il card. Ennio Antonelli, dopo avere indicato che

 

«l’abolizione della pena di morte è conforme al Vangelo e la Chiesa lavora con perseveranza in questo senso».

 

precisa, quasi a smorzare eccessivi entusiasmi, che la condanna alla pena di morte non può essere intesa come un dogma. Infatti

 

«La Chiesa ritiene che l’uccisione diretta di un innocente sia sempre un delitto. Ma non si sente di dire teoricamente che la pena di morte per gravissimi delitti e in alcune circostanze sia in contraddizione con il Vangelo […] È nella linea del Vangelo – ha ripetuto Antonelli – lavorare perché non ci sia la pena di morte, ma bisogna essere prudenti e non assumere posizioni totalitarie» (AGI, 8/2/2007).

 

Per chi ancora non l’avesse capito, o si ostinasse a pensarla diversamente, in linea di principio, da molti secoli in qua, non è in realtà cambiato nulla.

Ma la Chiesa vuol fare credere che così non è, e puntualmente torna a mescolare le carte. Per cui, appena pochi giorni dopo, il febbraio 2007, la Pontificia Accademia per la vita presenta una sua riflessione, firmata da mons. Elio Sgreccia, in cui si sostiene:

 

«Quello della difesa della vita e del diritto alla vita per ogni essere umano, durante il corso della sua esistenza terrena, dal momento del concepimento fino alla morte naturale, è il primo dei valori sociali posti alla base della società stessa. […] Che la società nel suo insieme, anche globalmente considerata, abbia bisogno di un risveglio in ordine a questo valore delle coscienze, non necessita di dimostrazione […] ci sono battaglie sacrosante per salvare la vita dalla pena di morte e salvaguardare il diritto alla vita anche per coloro che hanno commesso gravi delitti, mentre si autorizza la morte degli innocenti con leggi della cui esistenza ancora non riusciamo ad arrossire. Si vede che l’emotività o gli interessi politici sostituiscono la coscienza vera. Una ragione in più perché la coscienza dei singoli e delle comunità sia liberata da queste contraddizioni e da queste distonie. La coscienza morale non può essere una variabile socio-psicologica, specialmente quando i valori sono quelli fondamentali, perché la coscienza anche quando ha una vibrazione intuitiva o preconscia si nutre e si chiarifica sempre come un giudizio della ragione, emesso sul valore oggettivo delle nostre azioni. La coscienza è voce del cuore, ma di un cuore percorso dalla luce della verità».

 

Rieccoci dunque alla lezione e alla strategia di Giovanni Paolo II: cavalcare l’onda emotiva del movimento abolizionista non come obiettivo in sé, ma solo per sostenere con maggior forza argomentativa la battaglia contro l’aborto; salvo poi a ripiegare, in quanto alla pena di morte, sulle posizioni del Catechismo del 1997.

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