«Illegittimità costituzionale del giuramento davanti a Dio»
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
avv. Leonetto AMADEI, Presidente
prof. Edoardo VOLTERRA, Giudice
prof. Guido ASTUTI, Giudice
dott. Michele ROSSANO, Giudice
prof. Antonino DE STEFANO, Giudice
prof. Leopoldo ELIA, Giudice
prof. Guglielmo ROEHRSSEN, Giudice
avv. Oronzo REALE, Giudice
dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI, Giudice
avv. Alberto MALAGUGINI, Giudice
prof. Livio PALADIN, Giudice
dott. Arnaldo MACCARONE, Giudice
prof. Antonio LA PERGOLA, Giudice
prof. Virgilio ANDRIOLI, Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 366, cpv., del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 25 novembre 1976 dal pretore di Torino, nel procedimento penale a carico di Branca Paolo ed altro, iscritta al n. 346 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 265 del 28 settembre 1977;
nella camera di consiglio del 5 aprile 1979 il Giudice relatore Leopoldo Elia.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
- Nonostante il pretore di Torino abbia indicato nell’art. 366, secondo comma, del codice penale, la norma impugnata, dallo stesso dispositivo dell’ordinanza di rimessione si rileva che la questione di legittimità sollevata investe direttamente l’art. 251 del codice di procedura civile, secondo comma: infatti l’art. 366, cpv., del codice penale è denunziato «nella parte in cui, rinviando al giuramento previsto dall’art. 251 del codice di procedura civile, richiama le espressioni relative al significato religioso dell’atto ed alla responsabilità che con esso si assume davanti a Dio». Inoltre dal contesto dell’ordinanza emerge con chiarezza che la disposizione più direttamente investita (in quanto la sua eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale condiziona, attraverso il ridimensionamento del precetto contenuto nell’art. 366, secondo comma, codice penale, l’esito del giudizio) è proprio l’art. 251, codice di procedura civile, nel suo secondo comma, e cioè in relazione alle espressioni di carattere religioso incluse nella formula del giuramento. E pure da rilevare che la questione sollevata attiene soltanto al rifiuto di giurare «con quella specifica formula» e non già al rifiuto di prestare giuramento «con qualsiasi formula ed in qualsiasi modo» (sentenza n. 85 del 1963). Mentre rimangono al di fuori del presente giudizio sia la formula del giuramento decisorio (ex art. 238, codice di procedura civile), evidentemente non ricollegabile al rifiuto di uffici legalmente dovuti, sia le formule dei giuramenti che, non costituendo atti da qualificare obbligatori, rappresentano piuttosto condiciones juris per l’assunzione di pubblici uffici.
- Nel merito la questione è fondata. Allorché questa Corte la risolse in senso negativo con la sentenza n. 58 del 1960, un punto fondamentale della motivazione verteva sulla natura del giuramento: affermandosi che «nel sistema adottato dal legislatore italiano, il giuramento non ha quel carattere prevalente di religiosità che si vorrebbe ad esso attribuire». Ora, essendo il carattere del giuramento qualificato in via primaria dal contenuto della formula proposta a chi è tenuto a pronunziarlo, non si può negare che una parte delle espressioni previste a questo fine dall’art. 251 del codice di procedura civile e dall’art. 449, secondo comma, del codice di procedura penale, sottoposto allora all’esame della Corte, rivesta un significato sicuramente religioso. Il richiamo alla responsabilità che il testimone assume davanti a Dio non ha certo carattere confessionista o confessionale - nel senso di essere ricollegabile ad una specifica confessione (cattolica, protestante e così via) - ma nel linguaggio comune evoca un impegno di veridicità da assumere nei confronti di un Essere soprannaturale e supremo, di natura trascendente, dotato di quella onnipotenza e onniscienza, messe in rilievo in una delle formule, quella con asseverazione religiosa, adottata nell’ordinamento processuale della Repubblica federale tedesca: infine, di un Dio che legge nel cuore dell’uomo e giudica i suoi comportamenti.
- La sentenza n. 58 del 1960 partiva inoltre dalla premessa che, anche a voler raffrontare la fattispecie prevista nell’art. 449, secondo comma, del codice di procedura penale, al parametro dell’art. 19 della Costituzione, «la situazione del non credente fosse fuori della previsione dell’art. 449» e dello stesso art. 19 Cost., giacché «l’ateismo comincia dove finisce la vita religiosa». Ma l’opinione prevalente fa ormai rientrare la tutela della c.d. libertà di coscienza dei non credenti in quella della più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’art. 19, il quale garantirebbe altresì (analogamente a quanto avviene per altre libertà: ad es. gli articoli 18 e 21 Cost.) la corrispondente libertà “negativa”. Ma anche chi ricomprende la libertà di opinione religiosa del non credente in quella di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. (norma parimenti richiamata come parametro di giudizio nell’ordinanza del pretore di Torino) perviene poi alle stesse conclusioni pratiche, e cioè che il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo, non assumendo rilievo le caratteristiche proprie di quest’ultimo sul piano teorico.
- La libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa, non è rispettata sol perché l’ordinamento statuale non impone a chicchessia atti di culto (anche a voler escludere - sent. n. 85 del 1963 - che la prestazione del giuramento si risolva in atto di culto in senso proprio); la libertà è violata, infatti, anche quando sia imposto al soggetto il compimento di atti con significato religioso.
- In effetti, come è stato sostenuto in dottrina, il risultato da raggiungere consiste nello spronare il credente verso la verità, senza ferire in nulla lo scrupolo del non credente.
- Compete al legislatore decidere in quali fattispecie rafforzare il significato del giuramento con un appello rivolto a chi è tenuto a prestarlo perché si ispiri ai valori che più onora nell’intimo della sua coscienza e, dunque, a quelli religiosi ed etici; a patto che resti illesa la libertà di coscienza di tutti coloro che devono giurare.
Né si può dire che il carattere religioso dell’atto viene meno perché ciò che si richiede è la semplice consapevolezza intellettuale di valori evocati e di responsabilità ad essi riferite; valori, non condivisi dall’ateo, che ispirano una parte della formula. In realtà il momento conoscitivo, o meglio, della consapevolezza in tanto può essere ragionevolmente richiamato in quanto presupponga quell’adesione anche di natura volitiva in che consiste propriamente la fede nella Divinità. Altrimenti, se non credesse in Dio, non si vede quale responsabilità e verso chi potrebbe assumere il soggetto tenuto a giurare. È vero che la formula dell’art. 251 del codice di procedura civile non è ricalcata su quella del giuramento previsto dal canone 1316 del codice di diritto canonico, nella quale si invoca Dio a testimone della verità di ciò che si afferma: ma il risultato finale, a impegno assunto, non è dissimile da quello previsto nel successivo canone 1317, giacché il giurante è tenuto a mantenere la sua promessa di veridicità anche per aver contratto un obbligo di natura religiosa.
Perciò non importa soffermarsi sulla prevalenza (o sulla residualità) del carattere religioso della formula e, di riflesso, del giuramento: è sufficiente prendere atto che, in una sua parte, la formula ha significato religioso.
Si tratta dunque di accertare se la formula di giuramento prevista dall’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile tutela in egual modo la libertà del credente e del non credente. E a nulla rileva, nell’ordinamento costituzionale odierno, l’osservazione del Guardasigilli dell’epoca (relazione al progetto di codice di procedura penale del 1929), che motivava tra l’altro le disposizioni sulla formula di giuramento con l’inciso «gli atei rappresentando una microscopica e trascurabile minoranza»; in realtà gli artt. 19 e 21 Cost. tutelano innanzitutto l’opinione religiosa propria della persona, essendo indifferente che essa si iscriva o meno in quella di una minoranza.
Con la formula di giuramento prevista dall’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, il testimone non credente subisce una lesione della sua libertà di coscienza da due punti di vista, distinti ma collegati: in primo luogo egli si manifesta credente di fronte al giudice ed in generale a tutti i presenti mentre credente non è; inoltre, la sua convinzione di non credente comporta, più che una intenzione ed un proposito di non vincolarsi verso la Divinità, una necessità di ridurre, ma in interiore homine, il contenuto normale della formula per ciò che concerne l’obbligo di natura religiosa. Tale riduzione è molto vicina ad una riserva mentale indotta («atto interiore imposto»: sent. n. 58 del 1960) e dà luogo ad una non assunzione di impegno nell’intimo della coscienza, che rimane del tutto irrilevante dal punto di vista del diritto. I tentativi di dare rilievo giuridico a questa auto-esenzione dall’impegno di veridicità, nei confronti di un essere divino cui non si crede, non appaiono invero convincenti.
Si è detto che dall’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile (come pure dall’art. 449, secondo comma, del codice di procedura penale) discende soltanto l’invito a giurare, mentre l’obbligo o la costrizione nascono dall’art. 366 del codice penale e garantiscono solamente l’impegno di veridicità. Ma la formulazione e lo spirito di quest’ultimo precetto non confortano questa opinione perché la previsione del reato e delle pene si connettono al rifiuto di prestare il giuramento «richiesto», e cioè quello caratterizzato da una formula parzialmente sacrale. Si è anche sostenuto che, essendo valido il giuramento prestato dal testimone con una formula che non contiene menzione del vincolo religioso, sarebbe sufficiente che il testimone non credente (ed anche quello credente, ove lo voglia) espunga con apposita dichiarazione il riferimento alla Divinità, dopo che la formula è stata letta per intero e prima della prestazione del giuramento; ma, anche accettata la premessa relativa alla validità dell’atto così realizzato, rimane quantomeno dubbio che la disciplina relativa alla conservazione degli effetti dei singoli atti possa riflettersi direttamente su quella dei comportamenti del giudice e del testimone; tra l’altro non è affatto sicuro che la «facoltà» di espungere, con apposita dichiarazione, il riferimento alla Divinità, possa conciliarsi con la natura formale dell’atto. Inoltre, l’ipotesi prospettata desta perplessità perché il suo realizzarsi potrebbe pregiudicare, in qualche modo, quel «diritto a non rivelare le proprie convinzioni», cui ebbe a fare riferimento questa Corte nella sent. n. 12 del 1972 (punto 2 del considerato in diritto). Comunque, l’indicazione dottrinale, cui si è da ultimo fatto cenno, non ha trovato riscontri nella giurisprudenza, che, in tema di rifiuto del giuramento, motivato per il carattere religioso della formula, è pervenuta a non applicare l’art. 366, primo comma, del codice penale, utilizzando i disposti degli artt. 51 e 384 del codice penale relativi a talune cause di non punibilità. La riprova che la questione (in apparenza modesta, attinente com’è a mere formule) mantiene un suo rilievo è fornita non soltanto dal riproporsi, a quasi un ventennio di distanza, della questione di legittimità costituzionale, ma dalla diffusa consapevolezza, nella dottrina e nella giurisprudenza, che in taluni casi l’imposizione della formula di giuramento prevista nei codici di rito (ma non nelle ipotesi ex artt. 193 del codice di procedura civile e 161 disposizioni di attuazione del codice di procedura civile) provoca turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle convinzioni del non credente.
Del resto il diritto comparato - specie per ciò che riguarda i paesi più sensibili alla tutela dei diritti umani dimostra che la legislazione e la giurisprudenza (ed in primo luogo quella costituzionale) hanno fornito varie soluzioni al problema (formule di giuramento diversificate, formule prive di riferimenti alla Divinità, dichiarazioni simili alla promessa solenne prevista per il periodo di prova dei vincitori dei nostri concorsi statali). E non è senza significato che la legge 30 giugno 1876, n. 3184, mentre toglieva il ritualismo di carattere confessionistico dei giuramenti, non laicizzava, come pure si è ritenuto, le formule di questi atti ma prescriveva che nell’ammonizione del giudice ai testimoni o ai periti, prima della prestazione del giuramento, si attirasse l’attenzione «sul vincolo religioso che i credenti contraggono dinanzi a Dio».
Di ciò si era data carico anche la precedente giurisprudenza di questa Corte (cit. sent. 58 del 1960 e ord. n. 15 del 1961) quando aveva sì affermato la inscindibilità della formula del giuramento ex art. 449 del codice di procedura penale - il solenne atto confermativo del giurante riferendosi a tutto quanto detto dal presidente o dal pretore - ma aveva altresì ritenuto che le espressioni di carattere religioso vanno intese come un richiamo alla responsabilità assunta dal credente, e da lui solo, al cospetto di Dio; e si è aggiunto in dottrina che in tanto l’individuo è invitato col giuramento a ribadire pubblicamente e solennemente la sua fede nell’esistenza di Dio e della legge divina in quanto egli sia un credente.
Queste considerazioni, ferma la premessa della inscindibilità della formula e della responsabilità in essa evocata che si determina allorché il testimone pronuncia l’espressione «Lo giuro», alludono ad un dato senza dubbio esistente: la compresenza nella formula di valori distinti, anche se non alternativi, richiamati sia nell’ammonizione del giudice che nella formula da lui pronunziata. Altro è l’importanza religiosa del giuramento, collegata alla responsabilità da assumere davanti a Dio, altro è l’importanza morale dell’atto, connessa alla responsabilità da contrarre davanti agli uomini: ciò ha consentito di valorizzare (con il risultato di escludere il contrasto con la Costituzione di questa normativa) la autoesenzione dall’impegno di carattere religioso da parte del non credente. Peraltro è da ribadire come la distinzione o, meglio, la scindibilità dei valori richiamati nella formula sia, a tutt’oggi, di natura puramente psicologica, realizzandosi nella coscienza del non credente. Ma dal punto di vista giuridico (e cioè nelle manifestazioni esteriori che sono le sole a contare come esercizio della libertà di coscienza) la separabilità dei valori e dei vincoli è affatto virtuale, o meglio potenziale, mancando nelle formule di ammonizione e di giuramento gli elementi semantici e concettuali idonei a renderla reale ed attuale. Fanno difetto, ad esempio, le espressioni limitative del vincolo religioso che si sono menzionate come caratteristiche della legge 30 giugno 1876.
Da ultimo, le disposizioni che prevedono la prestazione del giuramento con la formula prescritta nell’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, sono viziate, per ciò che concerne i testimoni non credenti, da sicura contraddittorietà perché contrasta con la ratio dell’istituto costringere qualcuno a giurare al fine di vincolarlo nei confronti di un essere di cui disconosce l’esistenza.
Tale risultato costituzionalmente corretto non si consegue, tuttavia, con l’uso delle formule di ammonizione e di giuramento previste nell’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, per i motivi già esposti. In particolare, esse si pongono in contrasto con l’art. 19 Cost. in quanto il legislatore non ha provveduto a limitare ai credenti l’impegno di veridicità contratto dinanzi a Dio. Di conseguenza deve dichiararsi la illegittimità costituzionale dell’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non è contenuto l’inciso «se credente»; dopo le parole «Il giudice istruttore ammonisce il testimone sulla importanza religiosa…» e dopo le parole «consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio…». Va inoltre considerato che dalla presente declaratoria di illegittimità costituzionale consegue, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, identica declaratoria, per la stessa parte e nei medesimi termini, degli artt. 316, secondo comma, 329, primo comma, e 449, secondo comma, del codice di procedura penale; e la declaratoria deve estendersi anche all’art. 142, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non è contenuto l’inciso «se credente» dopo le parole «del vincolo religioso che con esso contrae davanti a Dio». A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 251, secondo comma, del codice di procedura civile e 316, secondo comma, 329, primo comma, e 449, secondo comma, del codice di procedura penale, deve ritenersi superata, in questa sede, ogni questione proposta in ordine all’articolo 366, secondo comma, del codice penale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
LA CORTE COSTITUZIONALE
- dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui, dopo le parole «il giudice istruttore ammonisce il testimone sulla importanza religiosa…» e dopo le parole «consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio…» non è contenuto l’inciso «se credente».
- dichiara, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale, nella stessa parte e nei medesimi termini di cui alla lett. a) di questo dispositivo, degli artt. 316, secondo comma, 329, primo comma, e 449, secondo comma, del codice di procedura penale;
- dichiara, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale dell’art. 142, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui, dopo le parole «del vincolo religioso che con esso contrae dinanzi a Dio…» non è contenuto l’inciso «se credente».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 ottobre 1979.