È davvero un’“anatomia” del capolavoro di Darwin quella che Telmo Pievani presenta in questo testo: non una semplice “dissezione”, poiché non si limita a una lettura analitica ma fa emergere la struttura concettuale e argomentativa portante dell’Origine delle specie; tantomeno un’“autopsia”, visto che l’opera risulta tuttora ben viva, “ancora oggi un’agenda aperta sul futuro”. Il libro è un invito e una splendida guida alla lettura dell’opera di Darwin, sostenuta da un intelligente lavoro di confronto tra le diverse edizioni e da una meticolosa indagine storica e linguistica.
L’introduzione e il primo capitolo danno conto dell’intricata genesi dell’opera: dai Taccuini in cui prende forma l’idea della discendenza con modificazioni e si delinea un solido metodo scientifico che non è né “ingenuo induttivismo” né “deduttivismo speculativo”, alla corrispondenza con cui Darwin sonda l’effetto delle sue “idee pericolose” (in primo luogo quelle relative all’origine dell’uomo, “qualcosa che potrebbe rivoltare l’intera metafisica”); dallo Sketch del 1842, primo abbozzo della teoria in cui per la prima volta compare il termine “selezione naturale”, all’Essay del 1844, scritto già cospicuo “che Darwin è risoluto a mantenere segreto, tanto da corredarlo di una lettera per la moglie, da aprire solo in caso di morte improvvisa, contenente le disposizioni su come pubblicare postuma la sua opera”. E poi il lungo e tormentato lavoro di stesura dell’Origine, che subisce “un’accelerazione non voluta” per la vicenda del manoscritto di Alfred Russel Wallace che presentava un modello di evoluzione assai simile – Lyell risolverà la situazione escogitando “la soluzione più saggia”, ossia invitando Darwin e Wallace ad annunciare congiuntamente le loro scoperte.
I capitoli successivi mostrano la peculiare struttura dell’Origine delle specie, opera “scritta alla rovescia”: Darwin evita infatti di presentare l’evoluzione come un “grande racconto” di progresso biologico (come avevano fatto Chambers e Spencer), ma rifugge anche l’esposizione tradizionale che fa precedere i dati osservativi alla formulazione della spiegazione. “Subito la novità teorica […], poi la difesa dalle obiezioni, e infine la panoplia delle evidenze: non una massa di fatti prima e poi un’ipotesi esplicativa fra tante altre”. In questo modo, secondo Pievani, Darwin “sembra voler scongiurare un’evenienza puntuale: che il lettore possa sì accettare l’evoluzione come un insieme di dati di fatto, ma non la sua spiegazione causale centrale, cioè la selezione naturale”. Evidentemente a Darwin premeva mettere in primo piano la teoria, ossia l’impianto esplicativo, della cui portata “rivoluzionaria” era ben consapevole: non solo e non tanto per l’impatto sulle idee e sulle credenze tradizionali, quanto soprattutto per l’effetto innovativo sul futuro della pratica scientifica. Scrive infatti nell’Origine: “Quando le opinioni esposte da me in questo volume, e da Wallace, o quando opinioni analoghe sull’origine delle specie saranno generalmente ammesse, possiamo prevedere che vi sarà una considerevole rivoluzione nella storia naturale”.
Il nocciolo della teoria di Darwin si impernia sui concetti di variazione, ereditabilità delle variazioni favorevoli, scarsità delle risorse e conseguente lotta per la vita, selezione naturale. La variazione risulta esuberante al punto da rendere incerta la stessa nozione di specie: le specie non sono che “varietà fortemente marcate”, di cui è vano cercare l’“essenza” – il punto è molto importante perché in questo modo Darwin rovescia i presupposti del “pensiero essenzialista” allora dominante per inaugurare quello che Ernst Mayr definirà “pensiero popolazionale”. E la variazione è casuale: in senso epistemologico, in quanto non ne conosciamo le cause; ma anche in senso antilamarckiano, in quanto le modificazioni non emergono perché sono utili ma “emergono e basta” e costituiscono a posteriori il materiale grezzo con cui viene costruita la vita. L’ereditabilità delle nuove varianti rappresenta un presupposto cruciale della teoria, particolarmente arduo da affrontare senza la conoscenza della genetica – come spiega Pievani, i lavori di Gregor Mendel degli stessi anni passarono inosservati e non attirarono l’attenzione di Darwin. Il capitolo quinto dell’Origine “è un saggio su come un sagace naturalista di metà Ottocento – tra errori, pregiudizi infondati e buone intuizioni osservative – poteva ragionare sulle ‘leggi’ della variazione senza conoscere minimamente la genetica”. L’ereditabilità delle variazioni rimane comunque per Darwin un dato osservativo, “il combustibile del cambiamento” che alimenta senza sosta il processo plasmante della selezione naturale. Lotta per la vita e selezione naturale – precisa Pievani – non sono sinonimi: la prima rappresenta il contesto ecologico che fornisce alla selezione la possibilità di operare, in modo sempre contingente data la complessità delle relazioni ambientali. Se analoghe pressioni selettive possono dar luogo ad adattamenti simili per “convergenza”, ogni percorso evolutivo risulta unico e irreversibile.
Particolarmente interessante l’ultimo capitolo del libro, dedicato al “pluralismo darwiniano”. Pievani premette che “il programma di ricerca darwiniano ha ricevuto, nel secolo e mezzo che ci separa dalla pubblicazione di Origine delle specie, conferme sperimentali provenienti da tutte le scienze della vita ed è oggi la pietra angolare del pensiero biologico”. Ovviamente, come ogni programma scientifico fecondo, ha dovuto affrontare profonde riforme a causa “del vastissimo e radicale arricchimento della sua base empirica, in particolare nei campi della genetica, della biologia dello sviluppo e dell’ecologia. A tal proposito è importante notare che, rispetto ad alcuni ‘indurimenti’ teorici a senso unico degli epigoni novecenteschi, l’originale formulazione della teoria darwiniana presenta un particolarismo esplicativo su base probabilistica che si rivela di forte attualità”.
Uno di tali “indurimenti” era costituito dall’adattazionismo della Sintesi Moderna, radicalmente criticato e definito “panglossiano” da Gould e dai suoi collaboratori. Darwin, tuttavia, scrive testualmente nell’introduzione dell’Origine che “la selezione naturale è stata il più importante, ma non l’esclusivo mezzo della modificazione”. In effetti, la considerazione dei caratteri non-adattativi è molto importante nella sua elaborazione – si tratta di evidenze cruciali per desumere la discendenza comune di specie diverse. Darwin considera inoltre i fenomeni della cooptazione funzionale (ciò che oggi sulla scorta di Gould e Lewontin chiamiamo exaptation), della perdita secondaria e della variazione correlata.
Nel complesso, “si tratta di una visione complessiva dell’evoluzione e delle sue strategie di cambiamento di notevole modernità anche rispetto alle conoscenze attuali, improntata com’è all’interazione tra forze interne ed esterne, all’intreccio di fattori molteplici, non soltanto selettivi”. Molto opportunamente Pievani nota come tale pluralismo esplicativo non rappresenti una mera tattica argomentativa ma un’essenziale strategia teorica: “selezione naturale e discendenza comune possono davvero stare insieme solo se: 1) ipotizziamo […] che la selezione naturale non sia onnipotente, ma abbia bisogno di altre cause del cambiamento, e 2) diamo alla teoria evoluzionistica una veste pluralista, con più ritmi e più livelli possibili di cambiamento”.
Maria Turchetto
Maggio 2013