«Mi propongo il fine specifico di demolire le pretese intellettuali e morali avanzate dal cristianesimo nelle sue forme più radicali»: questo è l’ambizioso obbiettivo che si è posto Sam Harris, giù autore di La fine della fede. Obbiettivo sicuramente non nuovo: ma realizzato in una forma, quella sì, originale. L’autore si è infatti indirizzato alla nazione dove l’integralismo cristiano ha riscosso più successo, gli USA, e lo ha fatto scrivendo un libro che si rivolge espressamente, quasi in ogni sua pagina, a un lettore cristiano, invitandolo a riflettere (a ragionare) sui contenuti del suo cristianesimo e sulle conseguenze che la fede cristiana comporta non solo a livello politico, ma anche sociale, culturale, economico.
Obbiettivo raggiunto? Si può se non altro affermare che il tentativo non è stato inutile: Lettera a una nazione cristiana è diventato un best-seller, quantomeno negli USA, tanto da giungere ai primi posti delle classifiche di saggistica. Harris è diventato così un’icona del New Atheism, al pari di Dawkins, Hitchens e Dennett, nonché un protagonista degli accesi dibattiti pro/contro la fede che si accendono oltreoceano. Da noi, il libro esce purtroppo con quasi due anni di ritardo e senza particolare enfasi: il mercato editoriale si rivela evidentemente interessato all’ateismo, ma solo come fenomeno di nicchia.
E pensare che il libro non è affatto male. Anzi. Non si limita a elencare le questioni (che sono purtroppo sempre quelle), ma le affronta con una capacità argomentativa brillante, capace di spingere il lettore a rifletterci sopra: predica anche a chi non la pensa come lui, ma fornisce a chi la pensa come lui razionali argomenti di “predicazione”. Il problema è comunque il solito: quanto funzionano gli argomenti razionali con persone irrazionali?
Ce lo chiediamo perché, ad esempio, l’inconsistenza della Bibbia dovrebbe apparire palese sia da un punto di vista di credibilità delle affermazioni contenuti, sia di coerenza testuale, sia ancora di bontà della morale che propone. La Bibbia è un libro “banale”, e anche i Dieci comandamenti, ci ricorda Harris, contengono soprattutto regole universalmente valide non solo in tutte le società, ma persino tra i primati più evoluti. Gli scimpanzé non hanno bisogno di consultare il Deuteronomio per darsi regole di convivenza non troppo diverse dalle nostre: del resto, «se pensi che il cristianesimo sia l’espressione d’amore e compassione più diretta e pura del mondo, non sai molto sulle altre religioni che esistono sulla Terra», ricorda Harris, proponendo un confronto con il giainismo. Il problema è che non ne sanno molto nemmeno i cristiani, che a larga maggioranza non conoscono il contenuto dei testi sacri su cui improntano (chissà quanto consapevolmente, chissà quanto profondamente) la propria esistenza. Come potrebbero farlo, se larga parte dell’Antico Testamento trabocca di una violenza che trova analogie solo in certa letteratura pulp? Sono cristiani perché la società è cristiana, e solo perché la socializzazione impone che anche i suoi componenti siano cristiani.
Forse che la concezione di Dio è più sostenibile? Anche il libro di Harris rimarca l’irresolubilità della teodicea: «Da qualche parte del mondo un uomo ha rapito una bambina. Ben presto la stuprerà, la torturerà e la ucciderà. [Statisticamente] i genitori di quella bambina – proprio come te – credono che un Dio onnipotente e pieno d’amore vegli su di loro e sulla loro famiglia». A New Orleans tante persone affogarono lentamente, mentre invocavano un Signore che non giunse a salvarli: ha senso tutto questo? Ha senso combattere l’interruzione di gravidanza, quando, a ragione dell’alta incidenza di aborti spontanei, Dio, se esiste, può essere considerato «l’abortista più prolifico in assoluto»? Razionalmente no. Ma non ha senso chiedere razionalità alle religioni: ha semmai senso invitare i loro rappresentanti più in vista a evitare ogni rivendicazione di razionalità.
I leader confessionali, e anche i loro “pii” tirapiedi politici, dovrebbero pure evitare di rivendicare la capacità delle religioni di rendere moralmente irreprensibili le comunità che le fanno proprie: Harris è veramente implacabile nel ricordare come gli Stati caratterizzati da maggior delinquenza, ignoranza, maschilismo siano anche quelli con la maggior diffusione della fede. I messaggi più ostili che l’autore ha ricevuto gli sono stati, guarda caso, inviati dai credenti più convinti (e a noi dell’UAAR accade lo stesso): messaggi di autentico odio in nome di una religione d’amore. Ancora una volta: inutile chiedere coerenza a chi non ne ha. Prendiamone atto una volta per tutte, anche se i diretti interessati non lo faranno.
Creazionismo, estremismo islamico, prolife: tanti sono gli attacchi alla ragione, tali da costituire «una vera e propria emergenza sia morale che intellettuale». Non è un problema che riguarda solo gli atei, anche perchè “ateismo”, secondo Harris, è parola che nemmeno dovrebbe esistere, così come «nessuno ha bisogno di identificarsi come “non-astrologo” o “non-alchimista”». È invece un problema di sopravvivenza della stessa specie, messa a rischio da fondamentalisti che vedrebbero probabilmente con favore l’esplodere di un’atomica su qualche grande metropoli, interpretato come compimento di quanto previsto dalle Scritture prima dell’Armageddon.
Come scrive Richard Dawkins nella prefazione, «l’unica superpotenza del mondo sta per cadere nelle mani di elettori che credono che l’intero universo sia comparso dopo l’addomesticamento del cane da parte dell’uomo». Forse gli USA riusciranno, nel 2008, a darsi un presidente non fondamentalista. Se ciò accadrà, sarà forse anche grazie all’accorato appello alla ragione lanciato da Sam Harris.
Raffaele Carcano
Aprile 2008