Questa riedizione dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che non ci si trovava affatto di fronte a un instant book. Ce lo confermano anche il documentario, la mostra e il lavoro teatrale che in questi anni l’opera ha ispirato. Sbaglierebbe ancora chi si aspettasse un saggio incentrato sulla coraggiosa battaglia dell’autore sul fine vita che pure l’ha reso meritoriamente noto al grande pubblico. La stesura del testo, che resta in qualche modo felicemente incompiuto, si ferma invece prima di questo estremo impegno. È piuttosto un vario inno alla vita in tutta la sua carnalità, un’esplosione dei sensi, talvolta anche chimicamente corretti, spaziante dai colori del cielo agli odori dei corpi, dai sapori dei sessi alle armonie cosmiche e alle melodie cantabili, come quelle di Dylan che ne accompagneranno anche gli ultimi istanti.
È la testimonianza di una instancabile rivolta contro il dolore e l’assurdo, alimentata da una fiduciosa ricerca di sempre nuove esperienze e relazioni.
Tutto l’opposto dell’autocommiserazione rassegnata e della mistica della sofferenza in cui una certa pietistica ipocrisia emargina i destini con i quali preferisce non fare onestamente i conti. Dio in verità non manca: «Questo Dio nazista, maltusiano e impietoso mi ha incatenato con la distrofia muscolare facioscapolomerale … Anche Gesù ha preferito resuscitare un morto piuttosto che guarire un distrofico … Aspetti ansioso che da un momento all’altro il cielo si squarci e un triangolo al neon con un occhio al centro ti illumini … Un Dio che si è fatto cadere l’asso dalla manica e continua a rinviare all’infinito il momento in cui il mondo avrà un senso … Ascolto i gemiti osceni del Dio che si masturba annoiato nei suoi cieli empirei, sono bagnato dallo scroscio del divino sperma contro il nero nulla del vuoto primordiale».
Nelle intenzioni è un “romanzo” autobiografico ideato dopo l’imprevisto collegamento al ventilatore automatico, per cui la vocazione narrativa sembrerebbe nascere quasi per caso e per necessità, ma lo stesso si potrebbe dire di alcune delle maggiori testimonianze letterarie sulle grandi tragedie collettive del Novecento. Di fatto è un rapsodico flusso di coscienza che si cristallizza in quadri incentrati su cruciali epifanie, disincantate riflessioni, accensioni liriche, ucronici destini paralleli e scampoli di memorie spicciole. Ne emerge una cultura alta e vasta, a dispetto dell’interruzione degli studi regolari cui l’autore fu costretto dalla malattia, impiegata con consapevolezza e senza soggezione, spesso in ironico dialogo con richiami popolari e persino triviali, un dialogo spiazzante, insofferente di qualsiasi forma di perbenismo.
Lo stile è forse assimilabile a quello della Beat Generation, con una personalissima capacità di “creare sempre legami sorprendenti” (così il nipote Lioce, curatore del libro, nei preziosi apparati che lo corredano), che è poi, secondo Leopardi e prima ancora secondo i teorici barocchi dell’ingegno, la più autentica virtù poetica. Ma il posto dell’opera nella storia e nell’empireo delle arti lo lasciamo volentieri decidere ai letterati. Qui importa invitare alla lettura chiunque voglia conoscere la statura, aliena da ogni forma di retorica, di questo protagonista dei nostri tempi, cancellando quell’immagine di lugubre apologeta della sconfitta e della morte in cui ha falsamente preteso di ritrarlo la propaganda più becera.
Non si crucci allora Mina, la cara vedova, se quanti blaterano professionalmente di dignità dell’uomo, di difesa della vita e della libertà rendono poi onore ai Mussolini e ai Pinochet, ai De Pedis e ai Riina per negarlo invece a Welby. La sua memoria non ha bisogno di vacui convenevoli. Piergiorgio continua a vivere comunque e molto meglio senza di loro.
Andrea Atzeni
da L’Ateo n. 117