Se fosse lecito prendere in prestito un termine dal glossario heideggeriano per definire questo volume, non c’è dubbio che quello più consono sarebbe “rammemorante”. Ci fa bene questo libro e ci rinfresca la memoria, perché l’aspirazione a una “scuola laica” è un monito perenne e un nodo irrisolto fino ai tempi nostri e perché, tra i padri nobili della Patria, Salvemini merita un posto di tutto rispetto.
Un pensiero, il suo, che appare sotto questa luce tutt’altro che vetusto e, grazie alla certosina ricostruzione di Pecora che appronta un testo ben strutturato e ricco di avvenimenti e di duelli “a distanza”, ci riporta a un’epoca in cui il dibattito si snodava su un piano fortemente ideologico e personalistico, considerando il livello di interlocutori che si chiamavano Gentile o Einaudi piuttosto che Giolitti (che Salvemini apostrofava amabilmente quale “ministro della malavita”).
Per altri versi, le istanze di una scuola veramente laica tuttora disattese, fanno ergere la prospettiva salveminiana in tutta la sua intrinseca ricchezza di pietra miliare in un contesto, come quello dell’istituzione scolastica, che ha sempre conservato la pregnanza di territorio, non solo simbolico, di egemonia culturale. La modernità e l’attualità dello storico-educatore appare così smagliante che scorrendo molti dei suoi discorsi in queste pagine, astraendone le suggestioni cogenti e coeve, potremmo tranquillamente ascriverne la cittadinanza in un editoriale domenicale di un quotidiano dei giorni nostri.
Ma andiamo al cuore del problema: chi erano (o forse dovremmo dire chi sono?) i clericali contro cui Gaetano Salvemini tuonava? Null’altro che quanti negavano (e negano) alla scuola un requisito costitutivo (oltre che costituzionale): l’indipendenza “da tutte le chiese e da tutti i partiti”, come precisava il Nostro in un celebre discorso davanti alla Federazione degli insegnanti della Scuola Media, a Napoli nel settembre del 1907, riportato da Pecora. Parole profetiche, se si pensa al pactum sceleris che qualche anno più tardi verrà sancito tra il Regime Fascista e la Chiesa Cattolica.
Salvemini era però un appassionato che sapeva evitare di trascendere nel vischioso terreno del fanatismo e se ostentò con chiarezza la sua ferma opposizione a ogni unilateralismo di stampo clericale che immaginava una scuola interamente confessionale, al contempo osteggiò un altro unilateralismo, questa volta di estrazione liberal-massonica-giacobinista, che assegnava allo Stato il monopolio educativo. Formidabile temperamento che, prima o poi, transita inesorabilmente nel vicolo del “solo contro tutti”, una sensazione che Salvemini ebbe sulla sua pelle. Nulla però lo allontanò da quella tenace e pervicace fissazione ovvero che la scuola sia fatta prima di tutto da insegnanti che devono coniugare preparazione e indipendenza per poter educare gli alunni ad “attitudini critiche e razionali”.
L’impeccabile ricostruzione di Gaetano Pecora ci restituisce Salvemini uomo e pensatore in tutta la sua vibrante vis oratoria; un signorotto che non le mandava certo a dire e che pagò sempre di persona, persino (in epoca fascista) con l’esilio, le sue urticanti idee liberali e il suo più generale liberalismo. Dietro a tanta passione si intravede chiaramente un grande afflato etico, una lezione perenne. Peccato che siamo ancora su latitudini utopiche a dispetto di tanta acqua passata sotto i ponti (e parecchi straripamenti). Nessuna scuola veramente libera finché non sarà veramente laica. Ecco in sintesi il vaticinio salveminiano. Contro i clericali di ogni tempo.
Stefano Marullo
gennaio 2016