La pubblicazione di questo testo ha avuto una vasta eco nel mondo culturale italiano e internazionale. Anche monsignor Ravasi è sceso in campo per parlarne, ricordando su Avvenire che «la Bibbia presenta una storia profetica, una storia narrata per il suo valore di segno, una storia fortemente interpretata». Dopo secoli caratterizzati da dibattiti, anche furiosi, sull’interpretazione da dare ai passi più controversi (spesso piegati a supportare le convinzioni teologiche e ideologiche dei contendenti), il libro di Finkelstein e Silberman sposta tuttavia l’attenzione sui riscontri archeologici degli avvenimenti narrati all’interno della Bibbia.
I due autori, infatti, non hanno alle spalle importanti studi esegetici, bensì un curriculum di tutto rispetto maturato in campo archeologico (Finkelstein è, tra l’altro, condirettore degli scavi di Tel Meghiddo, fondamentali per chiarire i primordi politico-religiosi di Israele). Scopo dichiarato dell’opera: fornire «una dimostrazione archeologica e storica convincente di una nuova interpretazione della nascita dell’antico Israele» e, conseguentemente, del testo che, accolto dal cristianesimo, è diventato il libro più influente nella storia dell’umanità.
Obbiettivo raggiunto? In effetti le ipotesi preannunciate si rivelano interessanti e giustificano il clamore suscitato dalla pubblicazione. Le vicende a noi più note del racconto vetero-testamentario (le storie dei patriarchi, Mosè e l’esodo dall’Egitto, Giosuè e la conquista di Canaan, la monarchia di Davide e Salomone) non trovano riscontro nelle recenti ricerche archeologiche, volte soprattutto a ricostruire le condizioni materiali di vita degli abitanti della Palestina nei periodi storici in cui, secondo la Bibbia, tali vicende avrebbero avuto luogo. Il mancato ritrovamento di ossa di cammelli adulti anteriori al VII secolo a.C., ad esempio, vanifica la descrizione delle sontuose carovane appartenenti ad Abramo ed ai suoi figli; così come l’assenza di tracce di esseri umani nella penisola del Sinai nel tardo bronzo smentisce l’esodo e l’ancora arretrata realtà sociale di Gerusalemme e delle zone limitrofe durante la prima età del ferro collide con l’immagine del ricco stato unitario governato da Davide e Salomone intorno al 1000 a.C.
Le tracce di Mosè finisce quindi per ribaltare alcune convinzioni consolidate. Gli israeliti non sarebbero un popolo venuto da fuori a conquistare Canaan, bensì la sua componente nomade, definitivamente sedentarizzatasi sull’altopiano e differenziatasi religiosamente: la scomparsa di resti di ossa di maiale coincide infatti cronologicamente con la prima attestazione del nome «Israele». E, come ulteriore conseguenza, il monoteismo di questo popolo non sarebbe stato originario e sottoposto a ricorrenti tentativi di introdurre altre divinità, ma sarebbe stato viceversa imposto (non senza contrasti) da una riforma religiosa intesa a supportare le ambizioni politiche del regno di Giuda, e in particolare del suo re Giosia (639-609 a.C.).
In questo monarca gli autori intravedono, forse con troppa insistenza, la matrice su cui sarebbero stati elaborati anche i personaggi di Mosè, di Giosuè e di Davide. E nel valutare l’attendibilità della geografia del vicino Oriente, così come è tratteggiata all’interno del racconto biblico, con eccessiva convinzione ne riconducono l’elaborazione esclusivamente all’epoca in cui regnò, finendo quindi per dimenticare i risultati ultimi della ricerca esegetica, in gran parte concorde nel ritenere tale racconto il frutto di una costante riplasmazione durata diversi secoli.
A parte questo, il testo rappresenta anche un’ottima occasione per ripercorrere la storia dell’archeologia in quella piccola parte del pianeta che ne ha segnato la storia e che, ancora oggi, ne è al centro dell’attenzione. Un saggio, dunque, il cui approccio innovativo dona nuova linfa ad una discussione che ha tutta l’aria di non voler terminare nel giro di qualche secolo.
Raffaele Carcano,
Aprile 2003.