Chi conosce Fernando Savater sa che tutte le sue opere sono profondamente intrise d’incredulità: tuttavia, la Vita eterna è la prima opera del filosofo spagnolo interamente dedicata al tema della fede (e dell’assenza della fede).
Questo libro non sembra nascere sulla scia dei grandi successi editoriali miscredenti degli ultimi anni: ma per noi che ce ne occupiamo, in pianta stabile o quasi, il confronto diventa quasi automatico. In cosa si differenzia il punto di vista di Savater, rispetto per esempio a un Onfray o a un Dawkins?
Il fil rouge che caratterizza questo libro è messo in evidenza fin dal titolo: il rapporto tra credenti e non credenti (tra creduli e increduli) è analizzato soprattutto dal punto di vista del rapporto con la morte, che Savater ritiene essere il principale motore della credenza nel soprannaturale. Secondo questa impostazione, l’immortalità costituirebbe un’illusione troppo seducente, tale che l’unica ragionevole funzione della religione risiederebbe proprio nel confortare gli atterriti esseri umani, unici animali consci della propria finitudine, e pertanto costretti a vivere nel «lutto permanente per la propria scomparsa».
Non so fino a che punto quest’interpretazione sia veritiera, anche perché (da ateo) non so fino a che punto i credenti trovino nella religione un reale conforto: il loro comportamento durante i riti funebri sembrerebbe suggerire il contrario. D’altra parte, lo stesso Savater deve riconoscere l’influenza delle istituzioni religiose e dei comportamenti sociali indotti da una affiliazione che, in gran parte del mondo, continua a essere una scelta obbligata. «Nessuno farebbe esperienze religiose» – afferma – «se prima non sapesse che esiste una religione che reclama fede e adesione». Non siamo ancora in grado di sapere quanto “naturale” sia il sentimento religioso: possiamo però sostenere con certezza che ogni sua manifestazione pubblica è sempre stata condizionata dal tipo di società in cui ha avuto luogo.
In ogni caso, le centinaia di milioni di non credenti che oggi conducono una vita serena su un pianeta piccolo e marginale costituiscono un’enorme sfida alla costruzione teologica di un aldilà consolatorio: le religioni possono peraltro costituire anche una fonte di stress per i propri fedeli, chiamati a conformarsi a dogmi spesso irragionevoli. «Vita buona o vita eterna?», si chiede provocatoriamente il filosofo: la risposta, scontata per chi non crede, trova supporto nella constatazione che, ormai, «è la religione a cercare il sostegno dell’etica, non il contrario». E lo può trovare solo perché l’affermazione dei diritti umani permette alle gerarchie ecclesiastiche di rivendicare come propri valori che solo qualche decennio fa combattevano aspramente. Solo l’influenza che esercitano (laddove la esercitano) sull’opinione pubblica, grazie all’atteggiamento accondiscendente di ceti politici alla disperata ricerca di consenso, può tuttavia permettere loro di farlo: si rende pertanto necessario ribadire come «i “nostri valori” democratici e occidentali non sono quelli tutelati dalla teocrazia vaticana, bensì i valori sintetizzati nel concetti di laicità istituzionale».
Il discorso, ovviamente, potrebbe essere esteso a tutti i gruppi integralisti, che nella battaglia antilaica trovano l’unico interesse sovraordinato che possa unirli: «Quelli che si “scontrano” religiosamente nel mondo nel quale viviamo, a volte con terribili risultati, sono esattamente gli stessi che trovano un motivo di “alleanza” solo nella battaglia contro gli scettici razionalisti che aspirano a vivere in società democratiche in cui le credenze trascendenti siano un diritto di ciascuno, ma non un obbligo per tutti». E combattono questa battaglia adottando proprio quelle «rivendicazioni emancipatorie che avevano combattuto quando occupavano una posizione di dominio».
L’aspirazione a vivere in una società laica, tuttavia, può essere vanificata non solo da un ritorno all’epoca delle religioni di Stato, ma anche dalla pericolosa opzione multiculturalista che sembra aver fatto breccia anche in settori politici insospettabili: scambiare le comunità religiose per parti sociali non solo non è una novità (l’avevano già fatto gli ottomani), ma costituisce una pericolosissima eccezione ai principî democratici che, in una società compiutamente democratica, dovrebbero essere praticati anche all’interno di ogni compagine che aspiri, in quanto gruppo, a determinare il futuro di una comunità plurale.
L’autore giunge a bollare questa prospettiva come «politeocrazia», e per questo motivo non risparmia durissimi attacchi agli esponenti più in vista del comunitarismo e, su un versante più marcatamente filosofico, ai postmodernisti. Va detto che le critiche, per quanto più morbide, non risparmiano nemmeno Dawkins e il rischio di uno «scientismo riduzionista che liquida come superstizioni senza senso non solo le religioni, ma perfino le stesse inquietudini umane dalle quali esse derivano». Non si può negare, a ogni buon conto, che le religioni sono un’indubbia fonte di stress (quando non di pericolo) per molti non credenti: la tesi non è dunque sempre errata, ma andrebbe semmai circostanziata.
Il libro spazia anche su altri argomenti, dal concetto di Dio alla teodicea, e costituisce, come tanti altri libri di Savater, uno stimolante generatore di riflessioni: godiamoci piaceri come questo, almeno finché la libertà di espressione non sarà castrata dalla necessità di preservare dottrine che, evidentemente, non riescono a proteggersi da sole con l’aiuto della loro onnipotente divinità.
Raffaele Carcano
Marzo 2008