di Emilio Rosini, Venezia
Secondo l’art. 2 del suo Statuto l’UAAR si prefigge lo scopo di «riaffermare la completa laicità dello Stato», e il significato di questa affermazione, tanto chiaro a prima vista, non lo è se lo si considera con attenzione. Mi propongo di discutere qualche problema d’interpretazione e di affrontare quello di alcuni possibili contenuti dell’azione collettiva intesa a realizzare lo scopo. La scarsità del tempo disponibile mi costringerà a farlo in modo approssimativo, lacunoso e poco argomentato. La laicità dello Stato è un principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano, vale a dire che è uno di quei principi che hanno una valenza superiore a quella d’altre norme di rango costituzionale. Lo ha affermato esplicitamente la Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 203 del 1989. Si tratta di riaffermarlo, di difenderlo e svilupparlo. Ma che cosa significa precisamente il principio di laicità dello Stato? Questo è il primo problema. Anzi, che cosa intendiamo che significhi? Questo è, credo, il problema. La risposta che probabilmente alla maggior parte di noi sembra appropriata è che l’ordinamento giuridico statuale, di uno Stato laico, siccome regola i rapporti fra le persone, si disinteressa di tutto ciò che riguarda le loro opinioni ed i loro gusti religiosi o filosofici o letterari o artistici o sportivi, limitandosi a riconoscere a tutti i cittadini il diritto di manifestarli e di costituire organizzazioni intese a coltivarli: chiese, società filosofiche, circoli letterari, esposizioni di pittura o di scultura, festival musicali, club di tifosi, tutti regolati e tutelati dal diritto comune.
La Corte costituzionale dà al principio di laicità un significato diverso. Nella sentenza n. 203 del 1989, la prima che lo ha riconosciuto attribuendogli il valore di principio supremo, si legge: «Il principio di laicità … implica non l’indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale» intendendosi per libertà di religione, insieme col divieto di discriminazioni per motivi di religione, la libertà di non professare alcuna religione. In successive sentenze il principio di laicità è stato utilizzato a tutela della libertà di coscienza, un concetto di oscurissima definizione, ma valorizzato per evitare «conflitti di lealtà fra doveri di cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni» non solo agli obbiettori al servizio militare, ma anche ai non credenti cui si richieda un certo tipo di giuramento (sentenza n. 149 del 1995).
Mai, che io sappia, la Corte costituzionale ha inteso il principio di laicità nel senso che ho suggerito in principio, quello della irrilevanza dei motivi religiosi quanto alla disciplina dei comportamenti e degli atti e negozi giuridici (che è la funzione del diritto). In questa prospettiva il «sentimento religioso» non dovrebbe essere considerato (con l’incriminazione della bestemmia, del vilipendio, delle turbative di cerimonie ecc., questioni di cui la Corte costituzionale s’è interessata per tutelare nello stesso modo tutti i sentimenti religiosi) non dovrebbe essere considerato, diversamente da tutti gli altri sentimenti. In fondo, fischi a cantanti adorati, giudizi irriguardosi nel confronti della squadra calcistica locale ecc., possono ferire sentimenti vivissimi, ma finora non s’è pensato di scoraggiarli con sanzioni penali.
Forse non ha tutti i torti chi sostiene che in realtà la Repubblica italiana non è uno Stato laico, e non per i comportamenti dei suoi apparati amministrativi e per la mancanza di senso civico da parte dei suoi governanti, ma proprio perché la Costituzione italiana dà alle religioni (negli artt. 7 e 8) una esplicita rilevanza, e vieta (nell’art. 20) aggravi fiscali specifici per gli enti religiosi mentre non vieta discriminazioni a loro favore e dunque deroghe al principio di uguaglianza a sfavore degli altri contribuenti; e solo attraverso una complessa operazione interpretativa può leggersi nell’art. 19, che si riferisce solo alle fedi religiose, la tutela costituzionale anche dell’ateismo (sin dalla sentenza n. 117 del 1979). Sicché se la laicità dello Stato s’è affermata come principio supremo dell’ordinamento lo si deve, piuttosto che al compromesso costituzionale, a quella fonte extralegislativa che è la cultura giuridica. Che è una fonte forte ma periclitante, perché la destra politica è sempre incline ad appoggiare la Chiesa per averne l’appoggio e perché non è diverso il comportamento della sinistra, come dimostra da ultimo l’atteggiamento compunto di Antonio Bassolino davanti al cardinale Giordano in speranzosa attesa della liquefazione del sangue di San Gennaro. Del resto, il troppo diffuso consenso alle norme sulle obbiezioni di coscienza, fondate essenzialmente su veri o simulati convincimenti religiosi, a favore dei giovani insofferenti del servizio militare e dei medici e infermieri antiabortisti - norme sicuramente lesive del principio di uguaglianza fra i cittadini oltre che dell’asserito principio di laicità - dimostra quanto anche nella sinistra l’opportunismo superi il senso dello Stato.
A questi atteggiamenti dell’opinione pubblica si deve probabilmente il mancato sviluppo da parte della Corte costituzionale del principio di lalcità dello Stato. Che se è un principio «supremo», che su ogni altro ha «priorità assoluta e carattere fondante» (sentenza n. 149 del 1995), dovrebbe superare tanto la costituzionalizzazione del regime concordatario quanto quella dei regimi paraconcordatari dell’art. 8 della Costituzione. Ma la Corte costituzionale non se l’è sentita di trarre questa logica conseguenza dall’affermata priorità del principio di laicità. E come potrebbe dichiarare incostituzionale il diritto speciale delle intese, che fra l’altro legittima regimi fiscali differenziati, se persino l’UAAR lo accetta implicitamente quando chiede di concludere anch’essa una intesa con lo Stato? La «riaffermazione nella concreta situazione italiana della completa laicità dello Stato», come dice di proporsi lo statuto dell’UAAR, richiede anzitutto una coerenza di comportamento da parte nostra e l’onesta ricerca di idee chiare.
La laicità dello Stato, piuttosto che proteggere le coscienze (troppo fragili, mi pare) da eventuali conflitti deontologici, serve a garantire la democrazia e l’uguaglianza dei cittadini e perciò deve essere realizzata, piuttosto che trattando l’ateismo come fosse una fede, riconducendo il fenomeno religioso nel sistema del diritto comune, con l’esclusione anzitutto di tutele specifiche sul piano del Diritto penale; laddove invece il principio di laicità è stato utilizzato dalla Corte costituzionale, convinta che esso non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, ma comporta equidistanza ed imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose, è stato utilizzato il principio di laicità così inteso, per estendere la tutela penale a tutte le divinità concepite e concepibili, senza considerarne le conseguenze sul piano dell’applicazione giudiziaria e della conflittualità sociale in una situazione, che la Costituzione repubblicana non poteva prevedere nel dicembre del 1947, di un pullulare di religioni e confessioni e credenze le più disparate. Soltanto la dea Ragione resta senza tutela, e vorrò vedere come se la caverà la Corte costituzionale di fronte ad un’intesa che preveda l’infibulazione delle bambine.
Se il principio di laicità viene inteso altrimenti che come protezione delle coscienze, se viene inteso come un profilo del carattere democratico dello Stato, che vieta al pluralismo di tradursi in un rifiuto della comune uguale soggezione alla legge ed in uno sfarinamento della solidarietà sociale, allora la richiesta di non avere nelle scuole crocifissi o altri simboli religiosi (una richiesta che non dovrebbe scandalizzare nessuno perché si tratta, di tornare alla situazione dei primi decenni del ventesimo secolo, prima che il fascismo imponesse il crocifisso nelle scuole e negli uffici pubblici) potrebbe essere agita da ogni cittadino e non soltanto dai genitori degli scolari, perché è un fondamentale interesse pubblico, un valore essenziale alla convivenza civile che in questo modo si fa valere. Se ho tenuto questo mio intervento sul piano giuridico non è perché ignori che i risultati veramente duraturi si ottengono con azioni intese ad incidere sulla cultura del Paese, ma perché queste azioni per essere efficaci debbono estrinsecarsi in comportamenti piuttosto che in discorsi, e le azioni giudiziarie sono comportamenti idonei a veicolare efficacemente le idee. Anche perché possono essere reiterate in modo diffuso, in modo cioè da assumere l’aspetto, e l’efficacia persuasiva, di una guerriglia (che, s’intende, va coordinata e guidata).
Per esempio, la richiesta di togliere i crocifissi dalle scuole va rivolta ai presidi piuttosto che al Ministero della pubblica istruzione, benché approdi, almeno nell’attuale situazione normativa, all’annullamento di norme statali, perché in questo modo si costringono molti giudici a pronunciarsi, e non ci manca il modo per pubblicizzare e discutere i giudizi. Quanto alla richiesta di non avere simboli religiosi nel seggi elettorali, non va rivolta al Ministero dell’interno, che non ha competenze in materia, ma ai presidenti dei seggi con la minaccia di invalidare i risultati delle elezioni, e lo si può fare senza troppe difficoltà e costi, perché in materia elettorale è prevista l’azione popolare.
Qui si tratta di tecniche da affidare all’intendenza, cioè alla segreteria. Mi pare però che il Congresso potrebbe dedicare a questi problemi qualche cenno di attenzione.
(Relazione tenuta dall’autore al 4° Congresso Nazionale dell’UAAR, Firenze, Palazzo dei Congressi, il 17 novembre 2001).