di Gianni Grana*
Permettetemi di rifarmi alla mia versificazione ateistica, più particolarmente a diomorto, sotto-intitolato ideo-patologia della negazione, che è tutto percorso dall’idea-pathos del suicidio, non come risoluzione disperata ma come possibile scelta estrema, come pura possibilità che si affaccia continuamente, in una teorica aspra «liberazione» dal pregiudizio ateistico, che è pure una condizione esistenziale di perdita radicale, come una intima rivoluzione copernicana, che comporta - nella nuova prospettiva ateistica - una inevitabile perdita di senso, della vita come destino individuale e della vita come valore e destinazione generale, tra due casualità naturali - nascita e morte - entrambe costrittive e non libere, non suscettibili di scelta. Scontata per il soggetto l’impossibilità di scegliere la vita nascendo, ecco prendere corpo, per l’uomo adulto affrancato dai divieti clericali, e solo di fronte a se stesso e al mondo in cui si trova a operare, la responsabilità come libera scelta di vivere o non vivere. La scelta responsabile anche di non vivere, di decidere della propria morte che è un evento naturale o accidentale certo, senza subire censure sociali e senza condanne istituzionali. Anche questa per me è la conquista di un diritto umano, da riconoscersi allo stesso titolo di altri diritti, anche perché è inutile negarlo di fronte a una realtà di fatto che vede, in numero sempre crescente, centinaia di migliaia di suicidi dichiarati in tutto il mondo civilizzato, e molti di più tentati o indichiarati o incontrollati, e sia pure dovuti alle più diverse mozioni e risoluzioni.
Tutti sappiamo quale forsennata opposizione esercita specialmente la chiesa cattolica, in difesa retorica della sacralità della «vita», frenando come sempre la crescita responsabile dell’uomo, dei suoi diritti comuni e delle sue responsabilità personali e sociali. Ma questo è argomento difficile e controverso, per le resistenze culturali di eredità «cristiana» che trova anche tra laici e laicisti, diffuse come può riscontrarsi a proposito della stessa eutanasia come pratica clinica. Che è certo tema di largo interesse pubblico, e richiede ovvie cautele giuridiche a scanso di possibili violenze e abusi, ma che deve essere affrontato spregiudicatamente, ancora una volta per legittimare e regolare legalmente una prassi eutanasica che di fatto si dice esista da tempo immemorabile, dissimulata ma diffusa, in ospedali e cliniche. Quando all’inizio dell’anno - lo ricordate - l’eutanasia medica è stata limitatamente legalizzata in Olanda, si sono avute ripercussioni diverse anche in Italia, spesso ostili anche in campo laico. Per esempio, su Avvenimenti, una tipica rivista ecumenica di compagni e cattolici più o meno eterodossi, Miriam Massari esprimeva solite contorte riserve «cristiane» - si badi - non sul diritto di uccidere l’ammalato di malattia letale, ma sul diritto di decidere della propria morte in casi estremi, con assistenza clinica.
Ambiguamente scriveva, affermando che quella legalizzazione dell’eutanasia nientemeno «blocca la crescita dell’umanità»: «Io vorrei decidere per la mia morte, in caso perdessi la mia sana voglia di vivere, ma vorrei farlo nella certezza che il mio diritto a vivere sia stato rispettato. Altrimenti diventa un togliersi di mezzo, un togliere il disturbo». E io dico: come dovrebbe garantirsi il diritto a vivere, per esempio tenendomi in vita vegetale, cristianamente martoriato a ogni costo?, e se io semplicemente volessi davvero togliere il disturbo, perché non potrei, perché dovrebbe essermi impedito dalla legislazione cristiana vigente e dai suoi fedeli? La risposta qui scaturisce anzitutto da una dichiarata sfiducia negli scienziati e nei legislatori, notoriamente spericolatissimi assassini, e nella sfiducia generale «nella maturità collettiva dell’umanità», che è sempre il pretesto-alibi per ogni imposizione autoritaria, delle istituzioni vigilanti sulla maturità dell’uomo. Inevitabile poi l’invito cristiano all’accettazione del dolore: «Stiamo costruendo» - segue la lamentazione della Massari - «una società in cui non v’è posto per l’umano e quel che sappiamo fare è solo eliminare ciò che intralcia … fa pena. Il dolore è un valore in sé, serve alla crescita dell’individuo e senza crescita non c’è futuro».
Ecco la tradizionale cultura cristiana, più o meno secolarizzata, che sacralizza la Vita dono di Dio, il Dolore prova del Signore cristiano, che ama i poveri e i sofferenti e perciò «manda» il dolore che «forma» l’uomo e cementa la società, in una sola illusoria fede etico-religiosa e civile. Sanno tutti quanta morte abbia generato nei secoli questa sacralizzazione istituzionalizzata e perlopiù mistificata della Vita come «valore in sé», fino al grottesco atroce della condanna penale per il suicidio mancato. Si potrebbe opporre proprio all’idolatria militante del valore della Vita e del Dolore l’indifferenza per gli eccidi reali, come nella canizza anti-abortista, che ora si riaccende, la difesa della vita fetale indifferente al dolore e alla vita delle madri, l’ottica fideista della nascita futura - la vita in gestazione - anteposta a quella attuale del penoso presente. Perché tanti sofismi di richiamo alla «riflessione» rivolti a chi, in posizione di avanguardia estremamente minoritaria, si adopera con mille cautele mediche e giuridiche a garantire, con il diritto opinabile alla vita generata dal caso, anche il diritto a darsi la morte, alla interruzione volontaria della pena di malvivere o convivere, nella degradazione del corpo o semplicemente alla rinunzia a sopravviversi?
L’invito a riflettere oltre i pregiudizi confessionali e senza isterismi moralistici, andrebbe rivolto al compatto conformismo culturale della nostra cittadella cattolica, la più arretrata al centro dell’Europa cristiana, in vista del III millennio cristiano. Quali serie motivazioni etico-giuridiche possono realmente opporsi al diritto civile della propria scelta di non-vita - come pura anticipazione, si noti, di un evento certo e sempre sospeso - se non una astratta imperatività legale, e insomma la violenza istituzionale del dovere cristiano di patire, di subire fino in fondo l’ingiuria non più tollerabile di una esistenza ingrata? Che cosa c’entra questo con i problemi e l’impegno socio-economico di rendere più vivibile la vita quotidiana, che implicano altre responsabilità generali, e non scalfiscono (o non dovrebbero) il diritto di disporre della propria vita?
Faccio osservare che l’analogia con l’aborto è quasi perfetta: qui la donna fa giustamente valere il proprio diritto (pure discutibilmente esclusivo) di procurare la morte del feto che è già vita in atto - biologicamente, oltre che nella comune accezione «cristiana» - solo per sua autonoma scelta. Su cui possono incidere motivazioni diverse, difficoltà economiche o immaturità personale, impreparazione agli oneri e alle responsabilità relative, ecc.; o soltanto il rifiuto puro e semplice di affrontarli. Ma è noto che su queste motivazioni personalissime, nella polemica genericamente «femminista», prevale sempre «il diritto» - come si dice retoricamente - «di decidere sulla propria pelle». Così che facilmente, in questo caso, gli anti-abortisti (cattolici e non) possono obiettare che in realtà decidono sulla pelle altrui, perché è vero - non possiamo nascondercelo - anche il feto è biologicamente un individuo «vivente». Ma le donne abortiste e noi consensualmente rivendichiamo ugualmente il diritto della donna a «decidere» se partorire o meno («con dolore»), e di rigettare per esempio un feto (un figlio) malformato, o di sopravvivere - se vuole - al rischio di una nascita che attenti alla sua vita. E questo diritto garantito, sia pure da una legge compromissoria, pretendiamo sia sancito e tutelato con assistenza pubblica, medico-legale, ecc.
Bene, con quale coerenza poi, queste medesime donne e noi stessi con loro dovremmo inibirci il diritto di decidere in ogni momento della nostra vita, senza alcuna sanzione pubblica e anzi con assistenza medico-legale garantita, in una società secolare avanzata? È un passaggio etico-giuridico obbligato, che prescinde dalle motivazioni personali qualunque siano, anche la banale disperazione, e a cui non si potrà sfuggire in un futuro meno pregiudicato, come è tuttora in questo paese di universale prestigio pontificio, da enormi poteri d’inibizioni e repressioni concordatarie. Che, come sempre, nella profusa retorica della Vita nasconde producendole innumerevoli morti clandestine, dagli aborti procurati ai suicidi procurati, molte decine di migliaia ogni anno per arido calcolo statistico. Infiniti drammi quotidiani del dolore comune qui attorno a noi, che si consumano nella semi-legalità pubblica e nella illegalità privata, in mezzo alla stessa «indifferenza» che si teme per eventi luttuosi più lontani, guerre, stupri di massa e genocidî sparsi in tutto il «mondo civile». Il grande mondo così nobilmente rappresentato dall’ONU, organismo supremo di difesa del diritto, delle libertà offese e delle vite minacciate, risiedente a New York centro dell’impero cristiano-occidentale, incarna nel suo sistema sempre in armi i valori di Libertà e Democrazia, a fondamento etico-politico e religioso della sacra Vita.
* Testo del libero contributo inviato al 2° Congresso Nazionale dell’UAAR, tenutosi a Bologna il 26 novembre 1995.
Gianni Grana (Sannicandro Garganico, FG 1/7/1924 - Roma 1/10/2001) è stato autore, oltre a una grande quantità di articoli e saggi critici su riviste e giornali, anche di Lecturae Dantis, monografie critiche e ha curato collane di letteratura italiana: I contemporanei (6 volumi, 1963-1974), I critici (5 volumi, 1969), Novecento (10 volumi, 1979).
Ha pubblicato inoltre i seguenti libri: John Dewey e la metodologia americana (Libreria Editrice Ricerche, Roma 1955), Curzio Malaparte (Marzorati, Milano 1961), Profili e letture di contemporanei (Marzorati, Milano 1962), L. Pietrobono e l’allegorismo dantesco (SEI, Torino 1962), L’iper(dis)funzione critica (Marzorati, Milano 1979), Diomorto (Roma, 1980), «I Viceré» e la patologia del reale (Marzorati, Milano 1982), La «rivoluzione fascista» (Marzorati, Milano 1985), Novecento: Le avanguardie letterarie (3 volumi, Marzorati, Milano 1986), Frane e spirali del sapere (Marzorati, Milano 1987), Malaparte scrittore d’Europa (Marzorati, Milano 1991), Babele e il silenzio: genio «orfico» di Emilio Villa (Marzorati, Milano 1991), Realismo e avanguardia dall’800 al ’900 (Marzorati, Milano 1992), Novecento: Realismo e avanguardia (Marzorati, Milano 1993), Diomorto - uomovivo/uomomorto (Setup Edizioni, Roma 1994), L’invenzione di Dio (4 volumi, Setup Edizioni, Roma 2000-2002).
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