di Luigi Tosti*, Rimini
I reati di «vilipendio alla religione di Stato e ai culti ammessi» sono compatibili con la Costituzione Italiana?
Un’interessante eccezione di incostituzionalità è stata recentemente sollevata dinanzi ai Tribunali di Roma e dell’Aquila in alcuni processi contro Adel Smith per il delitto di “vilipendio” della religione cattolica. Con questa eccezione si è chiesto che la Corte Costituzionale annulli la norma che punisce le offese alla religione di Stato (così, anacronisticamente, viene ancora appellata dal codice Rocco la religione cattolica) e ai “culti ammessi”: e questo perché quella stessa norma non punisce, invece, le offese indirizzate contro l’ateismo, l’agnosticismo o contro i “culti non ammessi” o ritenuti oramai “desueti”. Questa disparità di trattamento è, a mio avviso, assai evidente e priva di giustificazione, in quanto la Carta Costituzionale italiana sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3) e l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge (art. 8). Non a caso, traendo lo spunto da queste norme, la Corte Costituzionale e la Cassazione hanno sempre affermato la pari dignità di qualsiasi ideologia religiosa, sia essa positiva o negativa. Anche l’ateismo e l’agnosticismo, dunque, meritano la stessa tutela costituzionale che viene accordata alle ideologie religiose “positive”.
Se questo è - come innegabilmente è - il quadro normativo, appare ben chiaro che esiste, attualmente, una sperequazione palese: solo l’onore della “religione di Stato” e dei “culti ammessi” viene infatti tutelato attraverso i reati di vilipendio, previsti dagli artt. 402-406 del codice penale, mentre le “ideologie agnostiche e atee” e i culti non ammessi non ricevono alcuna tutela e, quindi, possono essere fatti oggetto, impunemente, di offese. I “credenti” possono, ad esempio, “vilipendere” e dileggiare l’ateismo e l’agnosticismo con l’espressione “porco ateismo” o “porco ateo”, senza incorrere in alcuna sanzione penale: viceversa, chi bestemmia contro Dio o contro Allah incappa in un reato.
I cattolici possono impunemente offendere gli atei e gli scienziati che propugnano la teoria di Darwin, bollando le loro opinioni con epiteti ingiuriosi, mentre chi è dell’opinione opposta non può, se non vuole incappare nelle ire della singolare legge penale italiana, ripagare con le stesse espressioni le «credenze dei cattolici, quali l’idea di Dio, i dogmi della Chiesa, la creazione dell’universo da parte di Dio, i suoi sacramenti, i suoi riti e via dicendo». Alla Chiesa è consentito “vilipendere” tutto ciò che va contro le “sue” credenze dogmatiche (che si sono magari rivelate come delle grandiose “bufale”!) mentre agli scienziati, agli atei e agli antropologi, che ritengono che tutte le religioni sono il frutto dell’ignoranza (incapacità di rispondere a determinate domande) e della paura (di non sopravvivere alla morte), è vietato “vilipendere” le “credenze delle religioni” con la stessa virulenza critica. Questo dubbio di incostituzionalità appare a mio avviso fondato anche con riferimento alla sperequazione che esiste nei confronti dei “culti non ammessi” e dei culti delle “Divinità” che - secondo le presuntuosissime opinioni della Chiesa cattolica - sarebbero da ritenere «false e bugiarde».
C’è da chiedersi, infatti, per quale astruso motivo l’offesa arrecata alla religione cattolica o ad altra religione debba essere punita come reato, mentre l’offesa arrecata a un “culto non ammesso” o a un culto che non sia più “particolarmente di moda” non debba incappare nella stessa sanzione penale. C’è da chiedersi, per esempio, perché l’invettiva “porco Dio” debba subire le ire del giudice penale, mentre i cattolici possano impunemente e tranquillamente proferire le bestemmie “porco Zeus”, “porco Bacco”, “porca Giunone”, “porco Odino”, “porco Iside”, “porco Osiride”, “porco Quetzalcòatl”, “porco Mictlantecuhtli” (che perlopiù suonano come gratuite offese all’onore dei suini) e possano anche offendere questi “dèi” antagonisti, bollandoli tranquillamente e pubblicamente come «dèi pagani, falsi e bugiardi», senza che nessun Pubblico Ministero della Repubblica si prenda la briga di perseguire in sede penale simili comportamenti oltraggiosi: a chi scrive non consta, invero, che gli “Dèi” egizi, greci e romani siano stati assoggettati, come i cibi e le bevande, a “scadenze di validità”.
Va segnalato che queste assurde sperequazioni tra le ideologie di chi crede e quelle di chi non crede sono un anacronistico retaggio dei tempi in cui non esisteva alcuna libertà di pensiero e di ideologia religiosa, bensì una “sola” religione - per l’appunto quella Cattolica - che veniva imposta ai cittadini, come Unica Vera Fonte di Verità, con la forza, col terrore e con la minaccia di sanzioni pesantissime: chi osava pensarla in modo diverso - cioè gli atei, gli agnostici, gli eretici e gli apostati - subiva pene allucinanti, sino ad ardere, invero “poco cristianamente”, sui roghi.
Il diritto romano della Repubblica, al contrario, non conosceva delitti di religione veri e propri e le ingiurie contro la divinità erano lasciate, semmai, alla “diretta” vendetta della divinità offesa. Peraltro, nell’epoca più gloriosa di Roma non vi era una sola religione, ma tante quante le nazionalità riunite sotto l’aquila latina. Fu questa larga tolleranza in materia religiosa che assicurò all’Impero romano una lunga egemonia. Soltanto quando il cristianesimo divenne religione di Stato (anno 379) sorse, purtroppo, il crimen lesae majestatis divinae, nel quale era compresa la bestemmia, considerata come il primo e il più grave dei delitti. Il cristianesimo venne allora protetto direttamente e severe sanzioni furono sancite per l’eresia e l’apostasia e, successivamente, anche per la professione del paganesimo. Queste barbare incriminazioni ebbero largo incremento nel Medioevo: gli eretici erano generalmente destinati al rogo, e alla pena di morte si aggiungeva la confisca dei beni. Gravissime pene erano sancite contro il “sortilegio” e la “magia nera” e frequentemente si puniva anche la violazione del digiuno quaresimale, l’inosservanza alla scomunica, il turbamento e l’irriverenza durante le funzioni religiose. La bestemmia era addirittura colpita con la galera, la fustigazione, il taglio o la perforazione della lingua e talvolta persino con la morte.
Non resta oggi che auspicarsi che un qualche giudice di questa Repubblica, sensibile ai rilievi di incostituzionalità che sono stati prospettati, investa la Consulta perché finalmente si pronunci sulla compatibilità degli anacronistici reati di “vilipendio delle religioni” del codice fascista Rocco con i principî di eguaglianza e pari dignità di qualsiasi ideologia religiosa, positiva o negativa che sia.
(*) Giudice del Tribunale di Camerino.