Chi ha bisogno delle cause finali?

di Telmo Pievani.

Una sponda rischiosa per il dibattito sul disegno intelligente riguarda la nozione di “finalità” in natura. L’impressione è che recentemente alcune riflessioni filosofiche al riguardo abbiano dato fiato alle strumentalizzazioni dei neocreazionisti, il cui errore di fondo è quello di non distinguere le caratteristiche dell’apparente “progetto naturale” esibito dagli organismi nei loro adattamenti da quelle di un presunto “progetto intelligente”. La creatività impersonale della selezione naturale consiste in un meccanismo cumulativo, e non soltanto in un filtro negativo, che insieme ad altri fattori naturali permette di assemblare strutture apparentemente molto improbabili e ben “progettate per” i loro compiti di sopravvivenza e riproduzione attuali, attraverso una lunga sequenza di passi intermedi dotati di uno specifico vantaggio adattativo.

La comparsa di quel “per” non manca tuttavia di suscitare discussioni. In che senso le strutture naturali sono “progettate per” la sopravvivenza? Stiamo parlando di cause finali? Non è forse questo uno degli obiettivi dei neocreazionisti, reintrodurre una finalità nell’operato della natura? La spiegazione evoluzionistica, come hanno insegnato maestri del pensiero biologico quali Ernst Mayr e Francisco Ayala, contempla fra le sue peculiarità rispetto alle scienze fisiche quella di aver reintrodotto, con piena dignità e rigore di analisi, le cause “teleonomiche” nello statuto di una ricerca scientifica empiricamente verificabile. Un evoluzionista deve chiedersi non soltanto il “come”, ma anche il “perché” della presenza di un certo tratto adattativo, e deve darsi una risposta all’interno di classi di cause naturali. Riprendendo la quadripartizione aristotelica, ciò significa che forse è necessario ricorrere non soltanto a cause materiali, cioè la sostanza biochimica del vivente, e a cause efficienti, la selezione naturale operante su varianti genetiche, ma anche a cause formali (perché una tigre è una tigre e genera altre tigri?) e a cause finali (a che cosa servono gli occhi?). Attorno a questa quarta categoria, però, cominciano i problemi.

Innanzitutto è bene distinguere non soltanto un “progetto naturale”, o meglio un’apparenza di progetto come quella generata dalla selezione naturale, da un qualsiasi progetto “intelligente”, ma anche distinguere quest’ultimo, che sia cosciente o non cosciente, da un progetto “finalizzato”. Sono due questioni distinte: rimanendo nel campo del comportamento umano, vi può essere un progetto intelligente senza alcuna finalità o intenzione; viceversa, è possibile che un progetto sia finalizzato anche se non è frutto di una mente cosciente. Io posso coscientemente produrre una stringa di simboli casuale, senza significato; al contrario, posso produrre una frase significante senza alcuna finalità cosciente, in modo automatico.

Ma che dire degli organismi e delle specie, cioè i protagonisti dell’evoluzione? In che senso possiamo parlare di cause finali? Ma soprattutto, è utile reintrodurle? Alcuni studiosi, forse troppo attenti all’informazione contenuta nei congegni molecolari della vita e troppo poco al suo carattere evolutivo, associano l’idea di causa finale al “programma genetico” contenuto in ogni cellula di un organismo. In tal modo confondono, come sanno bene i biologi evolutivi dello sviluppo, le cause finali con le cause formali: una tigre è una tigre, e genera tigri, in virtù del codice genetico e dei meccanismi di sviluppo propri di quella specie; i suoi tratti adattativi trovano in quei meccanismi la loro causa formale, non finale. Nell’ovulo fecondato di una tigre ci sono le istruzioni per fare una tigre e non un castoro, nell’architettura dei geni hox c’è il “progetto” di una mosca o di un leone, d’accordo, ma già in Aristotele ciò era inteso, in primo luogo, come una causa interna e non esterna (quindi era già escluso il progettista), e in secondo luogo come l’essenza fisica e formale di quella specie. Quindi non come un progetto da realizzare (da parte di chi?) un’intenzione, uno scopo, ma come un percorso vincolato e intrinseco di cambiamenti di sviluppo che conduce a un esito che deve essere il più fedele possibile per garantire la continuità generazionale necessaria all’evoluzione.

Da qui la distinzione fondamentale fra la “teleonomia” dello sviluppo e qualsiasi principio “teleologico”. Le lavatrici hanno “programmi” che una mente intelligente ha introdotto in loro finalisticamente, gli organismi no, e Aristotele, a differenza di alcuni contemporanei, lo aveva capito benissimo quando scriveva che negli organismi le cause finali e le cause formali coincidono, poiché le prime sono determinate dalla natura interna della materia organica. Dire che in quell’ovulo fecondato c’è una “tigre in potenza” è cosa però leggermente diversa dal dire che vi è la causa finale del diventare tigre. Diversamente si cade nel preformismo di ritorno e nella confusione di Paley fra artefatti e organismi.

Ma rispetto ad Aristotele noi sappiamo anche qualcosa in più e di diverso, e cioè che quei programmi genetici sono il frutto di una selezione naturale operante su variazioni casuali. Ne deriva una difficoltà per un secondo possibile utilizzo del concetto di causa finale nell’evoluzione, ovvero quello associato alla funzione o utilità attuale di una struttura. Il fatto che un occhio serva per vedere, una gamba per camminare e un dente per masticare, implica che essi si siano sviluppati “per” svolgere quella funzione? Ricordiamo infatti che la causa finale di Aristotele richiede, in modo stringente, che l’esito del processo abbia “causato” il suo inizio: senza quel fine o quella funzione, non esisterebbe l’oggetto. Se io, progettista intelligente, ho in mente di unire le due sponde di un fiume, costruisco un ponte, non una casa. Possiamo dire lo stesso del fatto che un occhio, dal punto di vista della specie, trova la sua “causa finale” nella funzione del vedere?

A onor del vero, alcuni evoluzionisti pensano di sì, ma i dubbi sono molti e principalmente connessi a due evidenze. La prima è che quella funzione è stata raggiunta grazie a un accumulo di vantaggi intermedi portati, ciascuno, da mutazioni genetiche del tutto contingenti rispetto al loro esito adattativo. Come può una serie di eventi casuali essere mossa da una causa finale? Il singolo vantaggio che, di passo in passo, favorisce una mutazione fa parte della causa efficiente (il meccanismo della selezione naturale), non di una presunta causa finale. Che dire poi, e questa è la seconda evidenza problematica, di tutti i casi in cui l’utilità attuale di un organo non corrisponde affatto alla sua origine storica? Se le ali non si sono affatto sviluppate “per” il volo come lo conosciamo oggi e gli arti non sono comparsi in concomitanza con la camminata sulla terra ferma, come ritengono molti paleontologi, in che senso possiamo dire che il volo è la causa finale delle ali e il camminare è la causa finale degli arti dei tetrapodi?

Forse ciò che chiamiamo “fine” è in realtà un effetto collaterale, illusorio, dell’utilità attuale. Solo se prescindiamo dalla storia naturale di un tratto e dal suo sviluppo nell’individuo possiamo asserire che sì, hic et nunc, un occhio ha in sé la “causa finale” di vedere. Ma la sua reintroduzione in questi termini di puro senso comune non è di alcuna utilità per un’analisi evoluzionistica. Come ha mostrato efficacemente uno dei maggiori esperti a livello internazionale di biologia dello sviluppo, Alessandro Minelli, l’evo-devo ci insegna a rendere conto di ciascuno dei processi che intervengono nello sviluppo attraverso una doppia lente interpretativa: quella della logica intrinseca di quel processo nel momento in cui si realizza durante lo sviluppo, e non “in previsione” del suo esito futuro; e quella del possibile significato adattativo di quel processo quando è comparso nella storia evolutiva della specie. Pensare che un uovo o un seme siano adulti in potenza ci impedisce di formulare domande corrette sul piano scientifico, esattamente come pensare che gli unicellulari siano comparsi “in vista” dell’arrivo dei pluricellulari.

A costo che qualche storico della scienza nostalgico del finalismo si senta orfano, si farebbe nondimeno una felice opera di chiarezza se si convenisse sul fatto che stando alle evidenze empiriche e logiche un principio teleologico in natura non sussiste né a livello di storia naturale su larga scala, né a livello di filogenesi dei tratti di una specie, né a livello dello sviluppo di ciascun individuo di una specie di generazione in generazione. Non ci ritroveremmo, per questo, in balia del puro caso, ma nelle braccia di una spiegazione naturalistica potente che sa render conto dell’apparente progetto degli organismi senza ricorrere ad alcuna causa finale.

Infine, molti biologi sospettano oggi che la stessa metafora del codice genetico come “programma” informazionale sia fuorviante. Se avessero ragione, vorrebbe dire che non esiste nemmeno la base materiale da cui era partito il ragionamento dei difensori di una causa finale inscritta nello sviluppo. Lo sguardo tarato sul tempo profondo, tipico dell’evoluzionista, vede il genoma come un sistema molecolare di codificazione efficiente ma ridondante, con arcipelaghi di significato dentro un oceano di triplette, pieno di sequenze egoiste e autoreferenziali, chiaramente il frutto di tentativi ed errori, di rimaneggiamenti e riorganizzazioni, di un’esplorazione stocastica, senza alcuna corrispondenza lineare fra le dimensioni del codice e le complessità degli organismi che ne derivano. Pessimo, come programma informatico. Pessimo, come prodotto di un progetto intelligente.

L’autore

Telmo Pievani insegna Filosofia della Scienza all’Università di Milano-Bicocca. Il testo qui riprodotto è tratto dal suo recentissimo libro Creazione senza Dio (Torino, Einaudi 2006, pp. 120-125) il cui editore ringraziamo per l’autorizzazione alla pubblicazione. Tra gli altri libri di questo autore ricordiamo Homo sapiens e altre catastrofi (2002) e La teoria dell’evoluzione (2006).