di Carlo Bernardini.
Quattro ballate op. 10
Forse la composizione dal contenuto più quietamente drammatico mai scritta, quasi a manifestare tutta la più intima bravura del compositore, è quell’opera 10 di Johannes Brahms, che consta di quattro ballate apparentemente autonome, in realtà legate tra loro da una malinconia melodica che solo la consapevolezza della solitudine può dare. Alla n. 3, che Brahms chiama Intermezzo (chissà perché), l’inizio è fatto di tre accordi staccati, suonati forte nel registro grave, la distanza dalla realtà diventa progressivamente sempre più marcata, così che si va verso spazi più consoni ai sogni e ai pensieri alla deriva che alle preoccupazioni quotidiane. Si apre, lì, uno spazio immenso di tentazioni ideali, la musica sembra dettata da alcunché di non fisico, non umano; e la mente deve fare ricorso ai suoi più volgari compagni di corpo, al mancorrente dei sensi, per non perdersi in quei vaneggiamenti che hanno avuto un così nefasto potere illusorio nella storia degli uomini. Eppure, questo non è l’effetto di una droga, ma solo di segni, di suoni che il cervello trasforma con tutta la sua capacità in esagerazioni esaltanti, in piccoli delirî, in turbamenti, del tutto normalmente, spontaneamente. Per razionale che uno sia, non si sottrae a questa o a ogni altra suggestione di questa natura, non può ricusare un’estasi orfica che gli venga offerta con tanto garbo e sapienza compositiva: quella che Schumann aveva trovato “stranamente nuova”, confidandosi con l’autore.
Ora, qui ha ben scarsa importanza il fatto che la prima di queste composizioni dell’op. 10 s’ispiri alle parole ben note di un componimento poetico scozzese, Edward, che è poi Il re degli elfi, lo Erlkönig di Goethe. La parola è un’arma da taglio, che ferisce l’immaginazione sicché in essa restino cicatrici, cordoli di memoria. La musica pura è invece un gas nervino, che addormenta la ragione, la ragionevolezza, l’annega in un mare di dolcezza, la stordisce duraturamente: la musica crea nostalgia e si fa desiderare, ancora e ancora. Naturalmente, quando è musica, quando si rivolge a quella parte di noi che ha bisogno di sentirsi accarezzare dal di dentro, trascinare verso le più insospettate evocazioni, riconoscersi in una immagine di se che si sta creando mentre il suono agisce. E, così come esistono testi letterari di imperdonabile volgarità, inaccostabili a ogni lirica sapiente, a ogni narrazione densa di significati, così esiste “musica” che è meglio non ascoltare affatto, come è meglio non avere incubi, ossessioni, sensi di colpa o altri tormenti. Ma la via per percepire la purezza della musica è una sola: la pazienza dell’ascolto, l’accettazione della struttura complessa dei suoni, il rifiuto dell’immediatezza che è solo di certe ripetitività, di certi ritmi della musica volgare.
Oggi, Brahms è per me un pretesto. Non l’ho scelto con leggerezza: se è solo un pretesto, lo è che più pertinente non potrebbe essere. Perché vorrei mettermi sulla strada di dire con parole ciò che sappiamo essere impossibile esprimere con parole. Un po’ come la musica, appunto, che non merita discorsi ma se stessa, disvelata, unica, indescrivibile se non facendo vibrare l’aria intorno a noi, quell’aria in cui si perde, nota dopo nota, inghiottita dallo spazio, eppure lasciando una scia che non è l’eco dell’ultimo suono, ma qualcosa di più grande, più profondo, più prezioso, più desiderabile. Sto per parlare della solitudine e della morte e di come alcuni esseri umani ancora riescano a farne circostanze naturali nelle quali il dolore e l’abbandono, pure intenso e a volte insopportabile, vengono tuttavia coperti dalla pudica coscienza della transitorietà della vita, senza disperati appelli e invocazioni a ciò che non è.
Viviamo in fuga. Nessuno è fermo alla sua condizione. Il passato, dell’individuo e del mondo, è per tutti una macchina temporale a spinta, un enorme respingente verso il futuro, ineluttabile come una frana o una valanga, schiacciante come un compressore. Qui non sto confondendo il tempo misurato, che cambia per numeri crescenti e consecutivi, con il carico di memorie e di lezioni che ognuno di noi ha avuto dacché è uscito di tutela. La fuga è fuga da ciò che è indesiderabile perché lo abbiamo già patito o forse semplicemente perché è già stato. Ma nell’istante in cui la mente si volta dall’indietro all’avanti, istante che si ripete come il solco sulla punta dell’aratro, istante in cui si rinnova l’incessante bisogno di decidere, ecco che un sentimento bagna il presente e lo fa uguale ai presenti già stati e che verranno: la solitudine, che avrà la sua apoteosi nella morte.
Non è ver che sia la morte…
La verità termodinamica incute terrore biologico. La morte è banalmente ma inesorabilmente irreversibile: e noi abbiamo paura dell’irreversibilità. Perciò, non facciamo che speculare su resurrezioni, reincarnazioni e apparizioni. Sull’anima, che non subisce discontinuità entropiche. Cristo è Dio nel momento in cui si ammette che sia risorto, in carne e ossa. Un fantasma non basterebbe, e nemmeno qualcuno che richiamasse l’attenzione su di sé, dichiarandosi “posseduto” dal defunto. Assai prima dei trapianti di organi, sono stati inventati gli incontrollabili trapianti di anima, sempre riusciti senza rigetto. Naturalmente, se l’anima di un religioso s’installasse nel mio corpo accanto alla mia presente, il botto sarebbe inevitabile. Il trapianto d’anima è un po’ l’equivalente dell’installazione di un virus (anima) in un computer, da parte di un hacker (funzionario della religione): operazione, dunque, del tutto artificiale. Che si fa mediante parole, cioè senza supporti materiali (tubicini, bisturi, aghi, siliconi, anestetici e così via), rimpiazzando il passato di una persona – di una mente, dovrei dire – con un passato retorico che sovverte le percezioni, le immediatezze, le faticose intuizioni. Ciò che è improbabile diventa segno di un’“attenzione” rivolta alla persona, ciò che è suggestivo diventa un mistero nascosto al bordo della realtà, ciò che non si può pretendere diventa un premio da meritare; etc.
Il paradosso del pensiero sulla morte è questo: invece d’impegnarsi nell’ignorarla, la vuole esorcizzare. Ogni pensiero sulla morte ha questa folle pretesa: recuperare l’anima (?) da qualche al di là dove, in linea di principio, starebbe bene, sì, come anima; ma, vuoi mettere il corpo? Se l’anima fosse la parte migliore di noi, quella che davvero ci rappresenta, e se fosse immortale, staremmo davvero tanto in ansia per il corpo? «Crepa!», diremmo alle persone più care: «così almeno ci resta l’anima che è più bella, più rappresentativa e più economica». Ecco, chi non si uccide o non uccide i propri cari ha subodorato la fregatura. L’anima, potrebbe non esserci. Potremmo essere costretti ad accontentarci del corpo. Corpaccione volgare, con tutti i suoi acciacchi, escrementi, bisogni, corpaccione che ci dà tanti pensieri, che commette i peccati, che richiede spese ingenti. C’è qualcosa che non va, nella logica dell’anima: chi l’ha inventata per garantirci un qualche turismo extracorporeo non ha pensato che potrebbe essere un’idea cretina, a cui solo i cretini abboccherebbero.
Ecco, i cretini e l’anima: un bel tema. Un laico è corporeo, non può trasformarsi in un cretino che vagheggia una cosa insensata come l’anima. Anche se molti laici vorrebbero lasciare traccia di sé, qualcosa che di loro resti dopo la morte nel ricordo degli uomini. Ma questo non è sopravvivere: il laico sa bene che quando lui non sarà più, non parteciperà alla “festa del ricordo”. Dunque, lasciare una traccia, una memoria di sé, è importante quando si è ancora vivi. Allevia la solitudine del laico vivo, la rompe addirittura. L’anima eterna è quella di un cretino qualsiasi, la memoria duratura è quella di un laico che ha avuto molti estimatori e amici. Più in là di così, non si può andare. Perciò, a che serve avere paura della morte?
Però, all’anima ci hanno pensato in tanti. Catalogarli “cretini” in massa non è forse generoso. Illudersi d’avere un’anima è molto tipico del pensiero umano, tutto teso a scrollarsi di dosso l’evidenza della realtà, la sua dura e incessante lezione di limitatezza. Il fatto è che l’anima è usata come fedina penale: se hai commesso peccati, li porti segnati nella coscienza, cioè nell’anima. Così che, quando l’angelo Israfel suonerà la tromba del giudizio, l’ufficio giudiziario celeste ti chiederà il documento e ti punirà di conseguenza. Che cosa importi, a quel punto, ciò che hai fatto con il corpo, ai corpi, è il caso di dire «solo dio lo sa». Tutta acqua passata: la logica mi viene a mancare. Capirei un dio che punisce all’istante, contestualmente, a scopo educativo: è più realistico Giove con i suoi fulmini che non un dio che si riserva di punire in differita, per giunta, le anime, sebbene si vociferi di resurrezione della carne (il che appare impreciso: come, con che corpo si risorgerebbe?).
La paura della morte non si allontana facilmente: «dobbiamo un gallo ad Asclepio», un bel pensiero, che vorremmo avere ma, lì, al momento, non avremo. Poi, sarà troppo tardi. La morte è un’occasione letteraria. È la matrice di tutti i discorsi edificanti. Sarebbe bello fare un prontuario: Frasi memorabili da dire in punto di morte. Essere l’esperto, il consulente di chi vuole morire con una bella sentenza sulla bocca. Originale, naturalmente. Del tipo: «A non rivederci più», oppure «Uffa». Ma la gente non gradisce roba di questo genere. Théophile de Viau, il pensatore libertino, morì il primo giorno di settembre del 1626, «come una bestia», ma con il commento: Theophilus, ut vixit, ita mortus est, sine sensu religionis et pietatis. La verità, in qualche modo, resiste ai più efferati giudizî umani.
Multos absolvemus, si coeperimus ante iudicare quam irasci (Seneca, Dialoghi, «Della collera», III, 29)
Dice William James: «La differenza che, nell’ambito dei “fatti” naturali la maggior parte di noi indicherebbe come la prima diversità dovuta all’esistenza di un Dio sarebbe, credo, l’immortalità personale. La religione, infatti, per la grande maggioranza della nostra razza significa immortalità e nient’altro… Non ho detto niente nelle mie lezioni sull’immortalità o sulla fede a questo riguardo, perché per me è un punto secondario». Più avanti, James dice che «per la vita pratica, in ogni caso, la possibilità di salvezza è sufficiente. Nessun aspetto della vita umana è più caratteristico della sua propensione a vivere su una possibilità». Giusto, ben detto. Ma James, il pragmatista, dice che non c’è la benché minima evidenza di sopravvivenza dopo la morte. Il suo modo di argomentare è così misurato che, assecondando Seneca, lo giudico senza irritarmi.
Ma un problema mi germoglia in testa: se James sostiene che il sentimento religioso è un genere di comfort e, come tale, ha eccellenti effetti terapeutici sulla psiche turbata (soprattutto) dal pensiero della morte, la curia non si scandalizza. Eppure, dire che l’effetto consolatorio è benefico ha lo stesso effetto del dire che la religione ha origine da un’alterazione mentale; che l’alterazione preceda la fede o l’accompagni, poco importa. Si tratta pur sempre di un’associazione tra una patologia e la divinità, ovvero: niente patologia, niente divinità. Più volte mi è capitato di sostenere pubblicamente che la religiosità è un disturbo mentale, per giunta grave; ma con esiti disastrosi: non riesco nemmeno a portare avanti il discorso in un ambiente amichevole. «Per la gente comune religione, qualunque siano i significati speciali che possa avere, significa sempre uno stato mentale serio». James dice questo nella seconda lezione, dopo avere parlato (nella prima) di Religione e neurologia.
Tuttavia, il fatto che James riesca a parlare dell’argomento è già un passo avanti. Il sospetto è soltanto quello che l’opportunismo cristiano si spinga a tollerare qualunque spunto pur che si parli di fede e si concluda non escludendo la possibilità che dio esista. L’infezione, direi a mio modo, accetta qualunque veicolo di trasmissione. E qui di nuovo devo fare molta fatica a trattenere l’ira, perché questi non sono i modi che accompagnano la propagazione delle idee, ma sono i modi in cui si afferma un potere. Conditi delle più vane e indecenti promesse: «vivrai in eterno, con l’anima, che è la parte migliore di te». La trappola per i gonzi scatta così.
Certo, la parola “gonzi” può essere eccessiva. Ci sono gonzi che non sembrano affatto tali. È difficile dire in che modo avviene la transizione da non-gonzo a gonzo, di uno che non ha dato segni e a un certo punto mostra d’esserlo. Prendiamo il caso di Emanuel Swedenborg, per restare vicino al nostro James: il padre di William James, Henry Sr., era un ammiratore, un seguace di Swedenborg. Ebbene, Swedenborg cincischia con l’anima mentre si occupa di teologia, finché un bel giorno non “vede” dio (a Londra, nella primavera del 1745); e dio gli ordina di commentare la Bibbia e gli dà accesso al mondo degli spiriti. Alcuni studiosi dicono che è difficile non tenerlo per matto; e portano a testimonianza di ciò un suo Libro dei sogni – Drömboken, pubblicato a Stoccolma nel 1759 – che contiene i sogni e le visioni di un uomo visibilmente eccitato e irrequieto; disturbato, insomma. Ma già si capiva che qualcosa di grave stesse accadendo, dalla stesura (1745) di De cultu et amore Dei. Non si può forse congetturare, su un caso così lampante, che la religiosità fosse mero frutto di pazzia? E che senso avrebbe rovesciare i termini, e dire che la pazzia di Swedenborg fosse effetto della sua religiosità? Cosa dovremmo fare, scrivere su ogni testo mistico: «nuoce gravemente alla salute»?
La ricerca di consolazioni per la paura di morire si può effettuare in tanti modi. Per il laico, può non essere necessaria. Ma forse questo richiede un equilibrio che non appartiene alla natura umana così com’è. Gli animali reagiscono al pericolo: sanno che potrebbero morire? Percepiscono la morte di un loro simile? Dubito che vadano al di là del pericolo e del dolore: sanno che possono essere mangiati, che un animale morto non si muove e cambia odore; ma la morte è una nozione astratta che entra nella sfera speculativa attraverso una complessa rappresentazione del futuro. E il futuro è una categoria umana. Gli animali, in buona salute, sono spontaneamente ottimisti. La malattia li deprime, perché sentono l’affievolimento delle forze; in quel caso, gli animali domestici trasformano l’ottimismo in fiducia nel padrone: questa transizione mima benissimo l’insorgere drammatico della religiosità umana in situazioni di pericolo. Ma non dice nulla sulla possibilità che la fede sia vera; anzi, non fa altro che sottolinearne il carattere di patologia. Cioè ancora: la disperazione e il dolore portano a desiderare un dio, a chiedere protezione. E chi può credere che i nostri desideri abbiano il potere di materializzare ciò che desideriamo? Solo uno che sta uscendo di senno, o è già uscito, in un modo tutto particolare: la religiosità.
Il laico, solo come ogni altro ma non ossessionato dalla solitudine, né propenso a riempirla rimuginando sulla morte, difficilmente spenderà il suo tempo nell’enigmistica dell’esistenza di dio. E tuttavia, può esercitarsi in un problema logico, a quello speculare: l’impossibilità di dimostrare la non-esistenza. A un laico sembrerà ragionevole pensare che una prova dell’indimostrabilità della non-esistenza non autorizzi nessuno a concludere per l’esistenza, non dico come affermazione, ma semplicemente come astratta possibilità. Meglio di tutto, un nodo antinomico: «non si può dimostrare (non esiste la prova del…) la non esistenza di ciò che non esiste. Insomma, se questa prova non esiste, non lo sapremo mai, ma nel senso che la non esistenza della prova appartiene alla classe delle cose che non esistono; questo non tocca la prova in sé, perché non è di essa che si sta parlando, ma della sua non esistenza. Dunque, siamo a qualcosa di doppiamente paradossale: se frughiamo nella classe delle cose che non esistono, allo scopo di accertarci che non esiste la prova che ciò che non esiste effettivamente non esiste, la classe non può che apparirci vuota. Se la classe contiene se stessa come elemento (concetto predicabile) non può che essere vuota; ma allora come fa a contenere se stessa? Se dobbiamo accettare per buone le prove ontologiche, perché non accettare del pari quelle che negano la possibilità di determinare la “necessità” di una conseguenza logica? E perché, in assenza di ogni metodologia per provare la non esistenza non dev’essere concesso di cancellare dalla propria mente una “soluzione” che appare banale, gratuita e frutto di vaneggiamento? Perché non dovrebbe essere permesso di curare adeguatamente una persona cara che appaia all’improvviso preda di devianze fideistiche?».
«La rivolta verso il proprio ambiente significa spesso vergogna del proprio ambiente» (Czeslav Milosz, La mente prigioniera)
Non nascondo di vergognarmi molto del mondo in cui vivo: li vedo, nelle cerimonie, matrimoni o funerali per esempio, certi miei amici che si segnano, s’inginocchiano, fanno comunioni, piegano il capo pensosi e contriti, stanno ad ascoltare senza batter ciglio un prete che dice (ripete) sciocchezze. E sì che appena poche ore prima hanno rimproverato un collega in Facoltà per l’inconsistenza dei suoi argomenti, hanno riso di uno che esorcizzava i problemi del quotidiano con proverbi o motti di spirito. E ora, questo essere tonacato e in abiti variopinti che cantilena formule e gira la manovella della pianola del rito ne attira l’attenzione come se ogni senso critico fosse spento in loro. Ecco di cosa mi vergogno. Essere pronti a reagire aggressivamente alle presunte sciocchezze di un collega, senza segni d’indulgenza, senza cenni di voler riflettere su perché l’interlocutore dice ciò che dice; e riconoscere invece l’autorità al prete che rassicura sul fatto che il morto è già in tavola al banchetto di dio e sta meglio dei vivi o che garantisce che dio starà sempre con gli sposi (imbarazzante…).
C’è una resistenza strenua allo scetticismo laico. La cosa più incredibile è che sia esclusa per definizione la possibilità di dialogo. La famosa discussione radiofonica del 1948, alla BBC inglese (terzo programma) tra Bertrand Russell e padre F.C. Coplestone S.J. su L’esistenza di dio è un buonissimo esempio di dialogo tra sordi, dove però il sordo incurabile è il gesuita. Anche la celebre enciclica papale Fides et ratio di Giovanni Paolo II è di incredibile concezione. Se la ragione ammette la fede, è fatta: come può negare che la verità rivelata sia superiore alle conoscenze umane derivanti, appunto, dal solo uso dell’intelligenza? (cito a braccio, perché la rilettura dell’enciclica mi annoia profondamente; ma basterà pensare che il Cap. III, s’intitola «Intelligo ut credam»). Mi vergogno di accettare che tanti diano credito a questi religiosi che spostano l’attenzione dall’autonomia delle intelligenze individuali alla possibilità che quelle intelligenze si rimettano a una dottrina rinunciando a chiedersi se ha senso farlo, sul piano razionale. Per questo sono anticlericale, prima che laico, perché gli agenti della chiesa sono per me corruttori al pari degli spacciatori di droga, specie quando si rivolgono ai più giovani. Io so, ho visto, ho sperimentato l’irreversibilità degli effetti che molti hanno subìto per un’esposizione precoce alle regole dettate dagli ecclesiastici. So che i preti non hanno più bisogno di chiedere il permesso a nessuno per spacciare la loro mercanzia, che sono stati autorizzati dallo Stato con norme “concordatarie”, che godono non già di semplice impunità ma, addirittura, di ostentate indulgenze mondane, mass-mediali: chiunque si professi, oggi, anticlericale, è fuori moda, anacronistico, intollerante (ohibò!); va emarginato. Il fatto è che nessuno fa caso alle nuove scale di valori: uomini, sempre in testa, donne, in ascesa, gay, con alti e bassi, extracomunitari e nomadi, ai margini della società civile, anticlericali, in coda a tutti. Ebbene, io voglio affermarlo, per i motivi detti sopra: sono anticlericale. La mia solitudine non mi pesa, perché penso come un laico e mi arrabbio come un anticlericale; il pensiero della morte non mi spaventa, perché non mi aspetto nulla fuori dei limiti del corpo, nello spazio e nel tempo. Ma voglio la libertà d’opinione: così come si può condannare la guerra, o la mafia, o la massoneria, si deve poter esprimere il proprio sentimento socialmente e intellettualmente avverso per una categoria, i preti, che vive a nostre spese e forza tutti gli spazi privati della cittadinanza. Mi piacerebbe chiamare il 113 quando un prete mi arriva in casa all’ora di pranzo e pretende di benedire: no, mi tocca cacciarlo da me. «Non siamo credenti», gli dico, e non ho mai oltrepassato quel limite incalzando: «come si permette di pensare che siamo credenti? Si vergogni!». Orgoglio laico, certamente, ma c’è persino il rischio che quello si senta toccato da un tentativo di martirio, così che mi sembra più conveniente lasciare lì le cose finché non gira i tacchi e posso richiudere la porta e tornare a tavola. Non si chiama il 113 per un semplice seccatore, ma, ai miei occhi, quel prete è molto di più, è come quelli che vanno in giro a segnare le case dei nemici. Pensate a quanto godrebbe se io – e può sempre succedere, perché il cervello, nonostante sia stato progettato da dio, a loro dire, dà di volta per motivi tecnici quando meno te lo aspetti – se dunque io mi mettessi a piagnucolare che mi è venuta fede, così, un bel giorno. Ma i rimbambiti organici, che più non interessano come esseri pensanti, glieli lascio volentieri, quand’anche si trattasse di me stesso. Quello che oggi posso anticipare con tutte le mie forze è: attenzione! Se dico che mi è venuta fede, vuol dire che il cervello mi si è guastato: ormai, sono abbastanza vecchio per annunciarlo. Alla vecchiaia si attribuisce tutto con disinvoltura, ma sempre con connotati negativi: calo dell’eros, calo della memoria a breve, ripetitività, perdita della forza fisica, ecc.; il rimbambimento fideistico dovrebbe forse fare eccezione e apparire come una rinascita spirituale? Ma via! Un poco di serietà non guasterebbe, ed è per il recupero di questa serietà che sono anticlericale, oltreché laico. Sono arrogante? E che dovrei dire di un filosofo come Thomas Hobbes, che amava citare «Lo stolto ha detto nel suo cuore: Dio non esiste», e voleva che gli atei fossero perseguibili. Come quell’orrendo Calvino che, nella Defensio ortodoxae fidei diceva senza perifrasi che si ha il diritto di uccidere gli eretici (che sono pur sempre religiosi, a modo loro).
«C’è un grave difetto nella morale di Cristo: egli predicava l’Inferno» (Bertrand Russell, Perché non sono cristiano)
Certo, il problema morale coinvolge molto laici e religiosi. I religiosi, sono molto sicuri di sé. La qualità morale della vita è dettata da dio. Non uccidono, perché dio non vuole. Però… Perché dio non vuole che si desideri la donna d’altri? Ibsen sosteneva che i cattolici erano contro ogni forma “biologica” di felicità: sessuofobi, non solo contrari al piacere fisico, ma addirittura propensi al dolore in quanto redenzione. Il cattolicesimo è biologicamente mostruoso; accetta l’autoflagellazione e le privazioni offerte a dio, auspica la castità e inibisce i pensieri licenziosi (“la donna d’altri”: che sarà mai il desiderio se non un pensiero? Naturalmente, il divieto è quanto mai maschilista: il simmetrico non è nemmeno adombrato, forse perché l’asessuato partner è parola moderna, postcristiana). In conclusione: voglio morire serenamente, senza soffrire, senza rituali di predisposizione al decesso e, possibilmente, se non reca troppo disturbo, non in solitudine. Amo la vita e so che ha un limite: non voglio raggiungerlo accompagnato da un prete.