di Francesco D’Alpa.
L’anima cristiana di Francesco D’Alpa, franco@neuroweb.it
Cos’è l’anima cristiana e da dove viene? Ai cristiani sembra palese che la Bibbia sia il libro dell’anima, di cui affermerebbe la spiritualità, l’immortalità e il destino soprannaturale. Ma l’Antico Testamento, nella sua maggior parte, e particolarmente nelle sezioni più antiche, si occupa piuttosto di promesse temporali: acquisto di una terra, discendenza numerosa, vittoria sui nemici. Al tempo di Mosè, di Giosuè o dei Giudici, gli ebrei si preoccupavano dell’organizzazione della propria società e della felicità terrena promessa a Noè con l’alleanza; prosperità e longevità erano i premi più attesi da Dio. L’idea che in questi testi fosse sottinteso un destino ultraterreno è una presunzione del Cristianesimo. Il libro dell’Ecclesiaste, per esempio, testimonia piuttosto chiaramente quanto mancasse un’idea di vita eterna e quanto non si pensasse a un destino mortale diverso fra gli uomini e il resto dei viventi. Solo tardivamente si cominciò, all’interno del giudaismo, a concepire una vaga idea di un principio relativamente impersonale, l’anima, che alla morte passava nello sheôl, l’oscura fossa degli inferi, il triste regno delle ombre.
Dopo il contatto con la cultura greca, furono invece introdotti il concetto di un’anima personale e della sua immortalità e l’idea d’un destino privilegiato dell’uomo rispetto agli altri viventi. Non a caso il libro della Sapienza, che è scritto in greco e che accoglie i termini greci psiché e pneûma, piuttosto che i meno precisi termini ebraici nèfeš (“respiro”) e rùah (“spirito”), parla chiaramente di immortalità condizionale, di vita come periodo di prove, di premio finale per i giusti. Comunque, una volta accolta l’idea di un aldilà, non per questo esso differiva dall’aldiqua terreno; giacché anche gli ebrei (come i babilonesi, gli egiziani o gli assiri) non sapevano immaginare un’esistenza diversa dall’attuale. La stessa predicazione di Cristo non apporterà sostanziali cambiamenti alle ipotesi correnti sulla possibile sopravvivenza. Il tema dell’anima e del suo peculiare destino diviene invece pressante nel primo cristianesimo, in quel periodo di profonda crisi sociale in cui i culti misterici fanno proseliti con la promessa di un aldilà che vinca le imperfezioni e le miserie terrene e la morte stessa. Ma nonostante ciò, nemmeno il Credo di Nicea (anno 325) contiene ancora accenni alla risurrezione, che compaiono invece nel Credo di Costantinopoli (anno 381): “risurrezione” del corpo, comunque, e non piuttosto “ricongiunzione” dell’anima con il corpo: giacché l’anima non viene per nulla presupposta, allo stesso modo in cui non lo era nell’Antico Testamento. Dunque anima e vita eterna non sono due concetti interconnessi.
Contro ogni evidenza documentaria, secondo gli apologeti cattolici, l’uomo ha sempre creduto alla vita eterna, o comunque a una qualche forma di sopravvivenza; e le idee dei filosofi precristiani testimonierebbero che sia la spiritualità sia l’immortalità dell’anima sono verità naturali accessibili alla ragione, anche a prescindere dalla rivelazione. Ma le Scritture non sono fonte autonoma di tali concetti, che non si trovano originariamente nella cultura ebraica e che furono introdotti solo in seguito, per contaminazione con la filosofia greca e con quelle orientali. E, anche secondo gli insegnamenti di Gesù, è dubbio se la vita eterna promessa corrisponda a una sopravvivenza e liberazione dell’anima o non piuttosto, più concretamente, a un qualche prolungamento o ripresa della vita terrena. Secondo la catechesi, Gesù raccomanda di salvare la propria anima; ma in realtà, quando parla di “vita eterna”, sembra proporre al più un concetto non troppo dissimile da quello desumibile dall’Antico Testamento: sopravvivenza o resurrezione dell’uomo come tale.
Il cristianesimo originale non possiede neanche una precisa concezione dell’essere umano: in esso dominano il concetto di fede (o fedeltà) verso il padre celeste, e temi morali: il senso del peccato (e della colpa), la consapevolezza dell’errore che porta al pentimento (o alla conversione) e il proposito di non sbagliare più. Rispetto al mondo greco e romano, prevale l’irrazionalità; a differenza dallo stoicismo, la virtù è frutto della volontà piuttosto che della ragione. Nei primi due secoli, i plagî dalla filosofia greca riguardo alla problematica dell’anima saranno alla fine così rilevanti che più tardi molti cristiani, per giustificarne la presenza, sosterranno (in particolare Giustino) che i greci erano, senza saperlo, dei cristiani imperfetti; ovvero che essi avevano colto qualcosa del Verbo divino disseminato nel mondo e avevano perfino tratto alcuni concetti dalle opere di Mosè.
Con il Vangelo di Giovanni (fine del primo secolo), entrano definitivamente nel cristianesimo due concetti fondamentali di derivazione platonica: il Lógos e la sopravvivenza individuale (“vita eterna”), che subentrano a quelli tradizionali ebraici di “spirito” e di “regno di Dio”. I padri della Chiesa attingono ormai a piene mani dalla cultura classica: usano le metafore di Platone (le “ali dell’anima”; il corpo come abito, prigione o tomba dell’anima) e spacciano per insegnamenti delle Scritture i concetti di Plotino. Solo con Agostino di Ippona si sviluppa un’originale psicologia cristiana, centrata sul senso dell’Io, ma pervasa da un pessimismo di fondo: sebbene libero, l’uomo non può staccarsi interiormente dal corpo utilizzando la sua libertà; è intimamente diviso; ha una natura lacerata, scissa fra il bene e il male, fra spirito e corporeità: è «un’anima che si serve di un corpo». La volontà ha il primato sull’intelligenza, così come la fede sulla ragione. Con Agostino inizia l’elaborazione di una dottrina della “persona” che maturerà con Tommaso d’Aquino.
Per quest’ultimo, che forza in senso cristiano le idee di Aristotele, l’uomo è un composto di corpo e anima, ovvero di materia e forma: vive e sente grazie al corpo; intende grazie all’anima, in gran parte senza l’intervento del corpo. L’uomo è al tempo stesso sostanza spirituale, cioè essere ragionevole dotato di intelletto, ed essere animale, dotato di un corpo informato dall’anima sensitiva e vegetativa; l’anima non è in semplice relazione causale con il corpo, come riteneva Platone. Le sostanze spirituali sono forme separate, che esistono nel vivente indipendentemente da qualunque connessione con la materia, e costituiscono un unico individuo per ogni specie vivente; ma nel caso specifico dell’uomo, ogni singolo individuo è perfettamente distinto dagli altri (l’anima è «forma per se subsistens»), in quanto solo così si può supportare la credenza nell’immortalità dell’anima individuale. L’unità dell’individuo dipende dall’anima, di cui l’intelletto è la facoltà più elevata.
Preso atto del fatto che l’Antico Testamento non si pronuncia mai in senso chiaramente dualista, è chiaro che la dottrina cristiana sull’anima si basa solo su delle speculazioni filosofiche. A prescindere da una generica adesione al dualismo platonizzante, dominante fino al tomismo, nessuna posizione dottrinaria è mai stata comunque totalmente dualista. L’idea di una sostanza separata e separabile dal corpo, e che lo controlla dal di fuori, è la più praticata, ma non ha alcuna originalità. È in comune con Platone e i platonici, che l’avevano formulata molti secoli prima della nascita del concetto fra gli ebrei. In tempi recenti la teologia è stata decisamente forzata verso una sorta di monismo, come dimostra l’attuale elaborazione di teorie cattoliche sull’unità psicosomatica dell’essere umano (della persona).
Agostino d’Ippona aveva definito l’anima «substantia rationis particeps regendo corpori accomodata». Dunque, anima e corpo sarebbero due sostanze diverse. L’anima, destinata a una vita oltremondana, reggerebbe il corpo (come nell’immagine platonica del nocchiero sulla biga); ne sarebbe rivestito come di un abito. Sulla sua scia, l’apologetica cristiana elenca una serie di prove psicologiche dell’esistenza dell’anima: fra tutte, la consapevolezza dell’individualità e la consapevolezza stessa dell’esistenza dell’anima e della sua distinzione dal corpo. Ma le contraddizioni abbondano, cosicché in certi momenti storici è stata sottolineata soprattutto l’opposizione fra anima e corpo, in altri invece la sua armonia e il suo accordo col corpo, fino al concetto odierno di persona («quod est perfectissimum in rerum natura»).
Solo l’anima spiegherebbe la presenza di attività spirituale e la persistenza dell’io rispetto ai mutamenti del corpo, il senso di responsabilità, la ripugnanza verso l’idea di una morte definitiva e l’attività finalistica dell’organismo. Ma esisterebbero anche prove oggettive dell’esistenza dell’anima: l’irriducibilità dello psichismo ai meccanismi della natura, la progressione dello spirito umano nelle varie epoche storiche, la disparità fra funzioni del corpo e funzioni dell’anima. La letteratura ascetica, infine, analizza molti aspetti del manifestarsi dell’anima: lo psichismo in genere, l’individualità, la soggettività, la coscienza di sé, la costanza dell’essere, l’intimità, la libertà, la volontà, la coscienza morale. Tutta la problematica relativa all’anima è centrale nel cristianesimo, in quanto consegue a domande fondamentali: Chi sono? Che sarà di me? Le risposte a queste, come ben dimostra la storia del pensiero cattolico, possono prescindere da una precisa definizione di cosa in effetti siano anima e corpo: né il dualismo né l’unità sostanziale sono incompatibili con la promessa di un premio finale e soprattutto con l’aspettativa di una sopravvivenza oltre l’accidente fisico della morte.
Se l’anima è ritenuta il principio informatore e costruttore di un corpo sostanzialmente distinto da essa, si resta nell’ambito della filosofia tomistico-aristotelica; se invece si spinge l’unità anima-corpo fino a una piena sovrapponibilità, si arriva a quello che è considerato un materialismo larvato, dunque un’eresìa. In ogni caso, il senso letterale delle Scritture sembra assolutamente dimenticato dal cristianesimo medievale, che è tutt’altro che una progressione della teologia biblica. In pratica, quello di anima non è altro che un concetto prescientifico, adottato ed elaborato gradualmente dal pensiero cristiano, a partire da un’epoca successiva alla predicazione originaria. Secondo la terminologia di Ruggero Bacone, come “idolo della tribù” è servito per dare un ordine ontologico al mondo, per fornire soluzioni accomodanti a problemi aperti della filosofia, per motivare la condotta morale; come “idolo della caverna” ciascuno si è immaginato e cucito addosso un tipo di anima che rispondesse ai suoi bisogni culturali, alle sue idee sociali, alle sue aspirazioni intime; come “idolo del mercato” ha permesso di discutere e spiegare cose che altrimenti sarebbe stato impossibile concettualizzare; come “idolo del teatro” la sua elaborazione è stata peculiare per ogni sistema filosofico, senza che sul concetto si costruisse un sapere oggettivo e non dogmatico, ovvero basato su preconcetti. Il pensiero moderno, proprio come teorizzato da Bacone, se ne è progressivamente liberato.
Nel confronto con la modernità, scientifica e filosofica, la Chiesa manifesta ancora la convinzione che la scienza non possa contraddire l’essenza del suo messaggio. Nessuna perplessità di fondo dunque riguardo all’esistenza dell’anima, nei termini cui giunse l’elaborazione dottrinale dei padri della Chiesa. In realtà, questo modello è in progressivo abbandono da un paio di secoli. Già nell’Ottocento, Wundt definiva quello di anima un concetto sussidiario, una comoda metafora: utile solo per dare un riferimento ai fenomeni e per un certo bisogno metafisico; l’essenza di ciò che definiamo “anima” sarebbe piuttosto la realtà immediata dei processi. Fra ciò che accade nel corpo fisico e ciò che accade nello psichismo esisterebbe uno stretto parallelismo: non due oggetti diversi di esperienza, ma semplicemente due punti di vista diversi d’una stessa esperienza. Ancor più il mondo contemporaneo impone una drastica ridefinizione teologica. Le macchine, creature della creatura umana, hanno in buona parte acquisito quelle che erano ritenute caratteristiche esclusive dell’anima cristiana: ragionano; scelgono; producono e riproducono; godono di una esistenza per certi versi autonoma.
Allora, ha ancora senso parlare di anima in senso cristiano? Alla biologia contemporanea è definitivamente chiaro che la mente fa parte della natura, così come il corpo; che non esiste un’anima specificamente umana (ontologicamente distinta dal resto dei viventi), così come non esiste un’origine (creazione) speciale del corpo dell’uomo. L’uomo moderno non ha solo smarrito distrattamente per strada l’anima, come lamentano i predicatori d’oggi, semplicemente non ne ha più bisogno. Ma neanche i teologi sanno più cosa farsene di quest’anima, tradizionale oggetto delle loro elucubrazioni. Proprio quell’idea di anima che ha pervaso la fase matura del cristianesimo, fino ai nostri giorni, quella che per secoli i cattolici sono stati indotti a credere la vera anima (o il vero Io) è stata effettivamente smarrita, dai teologi e dai fedeli.
In breve, la storia dell’anima (nel cristianesimo così come in altri ambiti culturali) è una raccolta di tentativi di spiegazione dello psichismo, di teorie superate sull’uomo: psicologia e neuroscienze rispondono oggi convincentemente a gran parte degli interrogativi tradizionali. Che resta allora dell’anima cristiana? È ancora possibile ritenerla una realtà distinta dal corpo (spirituale, semplice, identica a se stessa attraverso il tempo) piuttosto che una metafora? Solo le neuroscienze sembrano in grado di potere avanzare in questo campo, rispetto al quale la metafisica e la teologia hanno estrema difficoltà a rimuovere le tante sovrastrutture del proprio passato.