di Francesco D’Alpa
Il messaggio preparato dal papa per l’inaugurazione dell’Anno Accademico all’Università “La Sapienza” di Roma non affronta per nulla, come parrebbe più opportuno dato il contesto, il tema della centralità delle Università nello svilupparsi del sapere; e dunque non ci fornisce, come invece sarebbe regola delle lectio magistralis, una visione condivisa fra pari, dunque “allo stato dell’arte”, dei rapporti fra Università, cultura e società. L’inaugurazione dell’Anno Accademico dev’essere piuttosto il momento riservato all’esposizione dell’indirizzo culturale da dare all’insegnamento.
Quella che il cardinale Tarcisio Bertone ha definito «una parola culturalmente significativa, da cui trarre indicazioni stimolanti nel personale cammino di ricerca della verità» è in concreto solo la proposizione di un poco condivisibile giudizio di parte. Invitato personalmente dal rettore, ma non gradito dai docenti, Benedetto XVI si limita infatti, nel suo discorso, a prendere in esame, dal solo punto di vista della propria Chiesa, alcuni aspetti del rapporto fra fede e sapere: l’aspirazione alla verità e al bene; la fondazione delle Università come centri in cui i saperi pratici potevano trovare solido riferimento nelle verità teologiche; il ruolo della teologia nello sviluppo dell’atteggiamento razionale, anche e soprattutto in difesa della fede; il pericolo derivante dallo svincolarsi dei saperi da ogni riferimento alla verità cristiana. Quasi subito, quella che era equivocamente presentata come lectio magistralis filosofica si dimostra nient’altro che un’ordinaria allocuzione pastorale del Vescovo di Roma non solo al suo gregge, ma anche a chi non ne condivide la fede, con un più che sottinteso invito (non potendo, nella nostra epoca, esservi più obbligo) ad attenervisi.
Dopo una lunga e articolata premessa, che riporta solo opinioni di parte su come la ricerca della verità si rifletta nella funzione delle Università, il vero messaggio del papa è solo quello pastorale; e consiste nella risposta alla domanda «Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università?». Ovvero: il papa viene a parlare per sollecitare la ragione a «scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro», e pretende dunque di sottomettere gli argomenti della “ragione comune” a quelli della “ragione” che sostiene la fede. Dunque, più in generale, egli auspica che la ragione venga sottomessa alla fede, e che dunque l’Università sia cristianizzata.
Poiché l’oggetto dell’intervento papale era questo, ed essendo dunque chiara l’intenzione di trasformare la solenne cerimonia laica di una libera Università in luogo di esternazione di una “pastorale”, era ben motivata nella sostanza la protesta di un autorevole e per nulla sparuto gruppo di docenti. Il papa, infatti, può andare liberamente a parlare come rispettato ospite in qualunque Università, in qualunque momento adatto a ciò, proponendo come ogni altro invitato le sue idee, senza atteggiamenti dogmatici né presunzioni di fede. Premesso ciò, e dunque rigettata la parte essenziale della allocuzione papale, in quanto assolutamente contraria al significato più autentico della cerimonia ufficiale di inaugurazione dell’Anno Accademico, proprio come segnale di rispetto verso la sua persona, è doveroso esaminare pacatamente le argomentazioni papali.
Il ruolo del papa
Nella sua allocuzione, Benedetto XVI spiazza subito quanti potrebbero contestargli l’opportunità di affrontare determinati temi: «Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi e attualità. Nell’università “Sapienza”, l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale». Se qualcuno ritiene che il papa sia stato invitato come autorità intellettuale e morale, e che dunque parlerà attenendosi a tale ruolo, è bene che cambi subito idea. Il filosofo Ratzinger precisa senza mezzi termini di essere stato invitato proprio come papa e vescovo di Roma (ovvero come pastore che si prende innanzitutto cura della sua comunità guardandola «da un punto di osservazione sopraelevato») e dunque parlerà come tale, anche perché l’Università è luogo elettivo di perseguimento della “Verità”. E quale verità può essere più grande se non quella cristiana (perché Gesù è egli stesso la verità), di cui la società moderna ha così grande bisogno?
Nell’immaginario del papa, come sempre nel pensiero cristiano, da un lato ci sono i credenti, dall’altro il resto dell’umanità, sulla quale si ripercuotono, con flusso unidirezionale, le «condizioni delle religioni» e «la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti». Poiché, in un certo senso, i cristiani sono responsabili verso il resto dell’umanità, «il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità». Date le premesse, in realtà è chiaro che il papa si presenta non come “una voce”, ma piuttosto come “la voce” etica dell’umanità.
Come infrequentemente gli accade, in questo discorso egli non cita esplicitamente il relativismo, ma è inevitabile che il rapporto fra verità e saperi “relativi” o parziali venga preso subito in considerazione, per risolvere un’obiezione di fondo strettamente attinente al problema dell’istruzione: «Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede».
La ragione
A questo proposito, Benedetto XVI, appoggiandosi a John Rawls, sostiene che le «dottrine religiose comprensive» hanno una propria «ragione» (o “ragionevolezza”) che va loro riconosciuta anche da parte di quanti la ritengono non conforme ai caratteri della «ragione pubblica». Questa razionalità della dottrina cristiana riguarda anche le norme morali. In tal senso Benedetto XVI intende rispondere alla domanda: «Come può […] una norma morale dimostrarsi “ragionevole”?»; e per far questo si appoggia ancora a John Rowls, ricordando che «egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato».
Dunque, esisterebbero due ragioni contrapposte: una “storica” (la “tradizione”) e una “a-storica”. Fra le due, si dovrebbe privilegiare ovviamente la prima, ovvero «di fronte a una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee».
Non si tratta di un argomento nuovo. La pretesa dimostrazione razionale delle verità del Cristianesimo è un abusato esercizio retorico, particolarmente come risposta alla pretese illuministiche. Ma molti argomenti addotti in passato a dimostrazione degli articoli di fede trovano ben poco spazio nella manualistica corrente, dove si trasformano in incerti balbettii. Le affermazioni basate sul “consenso universale” non hanno infatti alcun valore: il consenso universale, ad esempio, ha per lo più ritenuto che la Terra fosse piatta e che il Sole le girasse intorno; che esistessero dei progenitori umani e un’età dell’oro; che l’uomo non avrebbe mai potuto volare e che le malattie fossero delle punizioni divine. Ma tutto ciò è dimostratamente falso; anzi, la realtà è in molti casi palesemente controintuitiva. Le conoscenze di oggi, anche se non condivise o non conosciute dalla maggioranza dell’umanità, hanno maggiore validità di quelle di ieri, così come le medicine di oggi funzionano molto meglio di quelle di una volta.
Invece, per il papa, la “ragione storica” e la “sapienza” sono rappresentate al meglio dalla comunità credente, nella quale «durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita». Per tale motivo, egli oggi «parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienze etiche, che risulta importante per l’intera umanità […] come rappresentante di una ragione etica». Opinione non condivisibile. Giacché, per quanto questa etica abbia delle sue ragioni storiche, non vi è dubbio che proprio queste ne costituiscano il limite. Queste ragioni si presentano ai nostri occhi, in una certa parte, solo come delle superstitio, come sopravvivenze arcaiche: più mature delle etiche a cui si sostituirono, ma meno mature di quelle sviluppatesi successivamente.
L’Università
La brama di “vera conoscenza” spinse Socrate, in nome di una religiosità «più profonda e più pura» di quella di Eutifrone, a non credere in ciò che si diceva comunemente intorno agli dèi. Allo stesso modo avrebbero agito i primi cristiani, che avevano compreso la propria fede «come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore».
Benedetto XVI sottolinea con orgoglio questo processo, ma vi si arresta compiaciuto. La sua lectio magistralis, con assoluto disprezzo di quanto è a-religioso o anti-religioso, non prospetta il cammino ulteriore, ovvero il superamento delle sclerotizzate e inadeguate formule teologiche in favore di una rappresentazione della realtà più vicina all’evidenza.
Se è vero che le Università sono nate proprio nel segno della ricerca del vero, va oggi riconosciuto che il cristianesimo, nel bene e nel male, è solo una tappa in questo processo. Per cui, se Benedetto XVI vede nell’antico «interrogarsi della ragione sul Dio più grande […] non una forma problematica di mancanza di religiosità», ma anzi un approfondimento della religiosità, oggi questa “religiosità” appartiene allora paradossalmente alla scienza. È una caratteristica del libero pensiero filosofico e tecnico-scientifico, ma non di quello teologico, che è invece isterilito come tutte le scienze o conoscenze arcaiche. Ma questo il papa non lo può riconoscere, a motivo del suo angolo visuale.
Nell’analisi della contrapposizione fra ragione teologica e ragione comune, e soprattutto a dimostrazione della sua incompletezza, Benedetto XVI introduce inoltre un elemento spurio. Sostiene, infatti, rifacendosi ad Agostino, «una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi». Ovvero, se la ragione si ferma al solo passo del sapere, rifiutandosi di conoscere il bene e di giungere a una verità «non soltanto teorica», ha fallito nel suo compito. La Verità cristiana sarebbe invece superiore a queste verità teoriche, in quanto «si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa»; sarebbe una verità che coniuga teoria e prassi.
È proprio questo, secondo Benedetto XVI, il senso dell’ordinamento dell’Università medievale. Grazie alla razionalità propria della teologia e della filosofia «l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia»; nell’ambito della giurisprudenza la ragione teologica dava «giusta forma alla libertà umana» in quanto ispirata a “processi di argomentazione sensibili alla verità” e non piuttosto sensibile (dunque condizionata) a interessi particolari.
Il riconoscimento pratico della verità
Nell’Università medievale, secondo Benedetto XVI, proprio agli insegnamenti di filosofia e di teologia «era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità». Se dunque la Verità non va semplicemente letta e commentata sulle Scritture, ma è liberamente (anche se non completamente) accessibile alla ragione umana, qual è la strada pratica per giungere ad essa?
Il papa ammette: «neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta». Ma a questo punto egli sostiene che Teologia e Filosofia «formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità». In realtà, proprio il cristianesimo dei padri aveva operato una distinzione fra teologia e filosofia, affermando che solo la fede cristiana è vera filosofia, e che «questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine».
Nei fatti, il cristianesimo, negando qualunque fondamento di verità alle altre religioni e alle diverse concezioni del mondo, contraddiceva e ha sempre contraddetto profondamente la presunta aspirazione a un’inesausta ricerca di verità, osteggiando qualunque ripensamento sul suo fondamento e sulle sue espressioni. La condanna del modernismo, energicamente e ostinatamente represso, è solo l’ultimo esempio di come la gerarchia abbia sempre osteggiato ogni onesta ricerca del vero all’interno dell’istituzione. L’antigalileismo e l’antievoluzionismo sono invece classico esempio di quanto un’analoga ricerca del vero sia stata contestata al di fuori dell’istituzione. E le condanne, in nome di un’etica superiore, comportavano penitenze che sconcertano anche la “ragione comune”.
Ma il papa ovviamente non accenna a cosa ha fatto il cristianesimo per reprimere, anche con crudeltà, la ragione degli altri; esalta invece lo sforzo fatto da Tommaso d’Aquino per «sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede», anche se la filosofia resta «partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa». In pratica, mentre prima di Tommaso la teologia si giustificava sulla sola base delle Scritture, a partire da lui i cristiani hanno ritenuto di poter dimostrare la verità della propria fede anche con i soli mezzi della ragione; e vi sarebbero riusciti. Ma così evidentemente non è stato, se solo si consideri che proprio al nascere della civiltà moderna la Chiesa ha rafforzato il suo dogmatismo.
Il rapporto fra teologia e filosofia
Piuttosto che affrontare il rapporto fra scienza in genere e teologia, il papa preferisce aggirarsi, in un lungo passaggio, nel mare meno agitato dei rapporti fra teologia e filosofia, con una precisa concezione gerarchica dei due diversi saperi: «l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere a un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni e in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino». Nessun ripensamento, dunque, sull’assunto che la filosofia è e deve restare l’ancella della teologia, come ribadito da ognuno dei suoi predecessori.
Ma dopo il parziale mea culpa “storico” di Giovanni Paolo II, e visto l’auditorio, è importante per l’oratore ribadire che, anche se talvolta gli uomini sbagliano nell’ossequio personale a quella che erroneamente ritengono “verità”, la vera “Verità”, comunque, non difetta alla Chiesa: «Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica».
Dunque, in ossequio al proclamato indispensabile riferimento alla Verità, «il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi». Meglio sarebbe stato però sorvolare su questo punto. Giacché sempre, e in particolare oggi, potere e interessi materiali sono al centro delle preoccupazioni della Chiesa, più che il tragitto verso le beatitudini dell’aldilà.
Ma questo importa poco nella presente occasione. Torniamo dunque all’Università, e in particolare a quella moderna, all’ambito delle scienze naturali «che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia», e all’ambito delle scienze storiche e umanistiche «in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso». Non si può negare, ma il pontefice non lo dice e verosimilmente non lo ammette, che ciò è avvenuto proprio perché l’Università ha fatto sua l’esigenza di cercare la verità, senza i paletti della fede. Come riconosce lo stesso pontefice, grazie a questo sviluppo del sapere «sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati». Ma questi saperi (e il papa non lo dice) per lo più sono cresciuti nonostante o addirittura contro le pretese di verità della teologia: dalle nuove concezioni sulla natura dell’universo alla consapevolezza della disumanità della pena di morte. Modelli provvisori e paradigmi conducono, infatti, alla verità in modo più consistente degli a-priori teologici.
Paradossalmente, Benedetto XVI teme che l’uomo «proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità», che la ragione si pieghi «davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo», che la filosofia «si degradi in positivismo»; e di conseguenza che la teologia «col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande». Sono più o meno le accuse di sempre; assolutamente ingiustificate, in quanto molto di ciò che oggi è patrimonio indiscutibile dell’umanità e condiviso dalla stessa Chiesa (la democrazia, la giustizia sociale, la libertà di pensiero e di parola, il diritto d’accesso alle risorse) non proviene affatto dal pensiero originario o dall’elaborazione dottrinale della Chiesa, bensì dall’umanitarismo dell’epoca dei grandi cambiamenti sociali, così aggressivamente contestati dal papato. In ultima analisi, la ragione cui si appella il papa non è quella illuministica, secondo lui «inaridita»; non è il primato dell’osservazione propugnato da Galileo; né l’incondizionato anelito alla verità del sapere aude kantiano, ma l’esercizio limitato di una facoltà all’interno del solo ambito consentito dalla teologia, controllato a vista dai custodi del sacro.
Quando la ragione, secondo Benedetto XVI, «perde il coraggio per la verità […] non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura occidentale ciò significa che: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma». Non è così, ovviamente. Sappiamo bene cosa vuole invece la Chiesa; pretende che l’uomo scelga “liberamente” di essere comandato; che qualunque affermazione dei saperi non teologici contraria al contenuto della fede sia riconosciuta falsa se si può praticamente dimostrare che è in contrasto con il deposito della fede, e sia addirittura dichiarata “falsissima” qualora non si può altrimenti dimostrare che è falsa.
Nella prima delle sue conferenze per la Quaresima del 1835, a Parigi, il passionista Lacordaire affermava: «Signori, incomincerò da un fatto incontrastabile, dal fatto che l’uomo è un essere insegnato. Perché io mi trovo qui a parlare? Io vedo intorno a me persone di ogni età, capelli incanutiti sui libri, fronti solcate dal dolore, volti che portano le tracce di aspre battaglie o animati dalle dolci emozioni di studi letterari, e giovani, infine, che hanno colto appena il terzo fiore della vita … Uomini e donne qui convenuti, che volete? Che domandate? Che aspettate da me? La verità. Voi allora non la possedete, voi la cercate, volete trovarla, siete dunque venuti qui per essere ammaestrati». I tempi cambiano, ma l’arroganza resta. Per questo non sembra per nulla opportuno che un predicatore venga oggi a insegnare la sua verità incondizionata in un’istituzione liberale e in un’occasione solennemente laica.