Spesso, il meglio che si possa fare per affrontare un problema che ha due “corni”, di fronte a numerose persone che potrebbero trovare ambiguo un discorso lungo e dettagliato, è quello di usare un aforisma azzeccato e sintetico. Questa è una specialità, indubbiamente retorica ma efficace, dei grandi esperti di comunicazione. Sicché, ora posso dirvi che tempo fa rimasi molto colpito da un piccolo libro che il filosofo free lance Anacleto Verrecchia pubblicò con il titolo O si pensa o si crede, “Scritti sulla religione” di Arthur Schopenhauer (BUR, 2000). Già: o si pensa o si crede, rende bene l’idea. Ma ora, dal punto di vista di uno che ha tentato di usare la razionalità scientifica non solo per ragioni professionali ma come regola di vita in ogni suo settore, devo cercare di illustrarvi che cosa è pensare e che cosa è credere. Non lo faccio con parole mie ma con quelle di un grande biologo, François Jacob, premio Nobel per le ricerche sul funzionamento del gene (con J. Monod) nel 1965.
Jacob scrisse un libro basato su una serie di conferenze, che uscì in italiano, per Mondadori, nel 1983 con il titolo Il gioco dei possibili. Già nel capitolo I, “Mito e scienza”, Jacob spiega: «Probabilmente è un’esigenza della mente umana avere una rappresentazione del mondo unificata e coerente. Se manca, compare l’ansia e la schizofrenia. E bisogna pur riconoscere che in fatto di unità e di coerenza la spiegazione mitica vince di molto su quella scientifica. La scienza, infatti, non mira subito a una spiegazione completa e definitiva dell’universo. Opera soltanto localmente. Procede con una dettagliata sperimentazione su fenomeni che riesce a circoscrivere e definire. Si accontenta di risposte parziali o provvisorie. Magici, mitici o religiosi che siano, gli altri sistemi di spiegazioni invece abbracciano tutto, sono applicabili ad ogni campo, e danno conto dell’origine, del presente e persino del futuro dell’universo. Si possono rifiutare i sistemi di spiegazione offerti dai miti o dalla magia, ma non si può negar loro unità e coerenza perché, senza la minima esitazione, essi rispondono a ogni problema e risolvono ogni difficoltà con un unico e semplice argomento a priori. A prima vista, la scienza sembra meno ambiziosa del mito per i problemi che si pone e le risposte che cerca. In realtà, la nascita della scienza moderna è databile dall’epoca in cui alle questioni generali si sono sostituiti problemi limitati; e invece di chiedersi: “Come è stato creato l’universo? Di che cosa è fatta la materia? Qual è l’essenza della vita?”, ci si è domandati: “Come cade una pietra? Come scorre l’acqua in un tubo? Come circola il sangue nel corpo?”. Questa sostituzione ha avuto un risultato sorprendente: mentre le questioni generali ricevevano solo risposte parziali, le questioni limitate portavano a risposte sempre più generali. E questo è valido ancora anche per la scienza odierna».
La differenza è questa, come la spiega Jacob completando la breve sentenza che fa da titolo a Schopenauer: «O si pensa o si crede». Ma ci sono persone, anche colte ma non aduse a linguaggi razionali efficienti, che pensano che la retorica sia onnipotente e che tutto possa essere reso con linguaggi proposizionali avalutativi senza che i dati del reale inverino le affermazioni. Potrebbe essere sensato rafforzare semanticamente la lingua corrente in modo da ottenere ciò che Jacob raccomanda, conclusioni generalizzabili; ma è molto difficile perché, più che coprire fenomenologie che superano il senso comune, bisognerebbe fare in modo che il linguaggio contenesse dei principi semantici che eliminano la gratuità di affermazioni pur suggestive.
Da che mondo è mondo, ahimè, la retorica illusionistica ha avuto la meglio e oggi sembra troppo tardi per porvi rimedio, perché la politica, il mercato e la stessa etica, per non dire l’arte, “vivono” di suggestioni sempre più lontane dalla stretta razionalità. Però voglio ricordare che un tentativo, in qualche modo, c’era stato, di tenere a bada questa retorica pervasiva dal suo interno: mi piace ricordare la difesa di uno dei cosmologisti del XII secolo, Guillaume de Conches, che sosteneva già allora l’omogeneità materiale dell’universo e, accusato di eresia, affermava brillantemente: «So bene che Dio, se vuole, può mutare un vitello in un albero; a me, però, interessa capire perché non lo fa mai».
Ma, dopo Guillaume, lo scatenamento linguistico conquistò la filosofia e una particolare predilezione per le cosiddette “essenze” portò all’introduzione di insensate etichette classificatorie del reale. Un asino era tale perché contraddistinto dalla asinitas, una volpe dalla vulpeitas. Dovette intervenire il sarcasmo di Molière per fare ridere di queste stupidaggini; nel Malato immaginario, l’avaro Arpagone che vuole divenire medico, dice:
Mihi a docto doctore domandatur
Causam et rationem quare
Opium facit dormire:
Quia est in eo
Virtus dormitiva
Cuius est natura
Sensus assopire.
Ma forse gli omeopati e gli innumerevoli ciarlatani che occupano i mezzi di comunicazione di massa di oggi non hanno più alcun senso dell’umorismo.
Ormai molti anni fa, uno studioso inglese, John William Draper, pubblicò un libro importante dal titolo History of the Conflict between Religion and Science (King, Londra, 1876). Draper scrisse: «il partito pagano […] sosteneva che la conoscenza va conseguita solo tramite l’uso solerte dell’osservazione e della ragione umana. Il partito cristiano sosteneva che ogni conoscenza va ricercata nella Scrittura e nelle tradizioni della Chiesa; e che, nella rivelazione scritta, Dio ci ha dotati non solo di un criterio di verità, ma anche muniti di tutto ciò che Egli voleva che noi conoscessimo. Perciò, la Scrittura contiene la totalità, il fine di ogni conoscenza. Il clero, spalleggiato dall’impero, non avrebbe tollerato concorrenza intellettuale alcuna […]. Così, la Chiesa si avviò a diventare la depositaria e l’arbitro della conoscenza; fu sempre pronta al ricorso al sovrano civile per forzare l’obbedienza alle proprie decisioni. Il percorso che imboccò fissò la sua intera evoluzione avvenire; essa divenne uno scoglio per il progresso intellettuale europeo per oltre un millennio». Ecco: se qualcuno insiste con la litania delle “radici cristiane della cultura europea”, bisognerebbe recitargli questi eloquenti fatti storici. Ebbene: siamo veramente lontani e liberi dal fondamentalismo del tempo delle “scritture”? E siamo consci del fatto che il dio di altre regioni del mondo è ancora fermo a fondamentalismi cruenti, origine di ogni conflitto? Può, un paese come l’Italia, tollerare che la dottrina cristiana imbratti continuamente le nostre leggi con precetti che riflettono i peggiori pregiudizi irrazionali? (che ne è delle terapie del dolore, della libertà di vivere le proprie tendenze sessuali, della parità delle donne, dei divieti sulla ricerca in biologia, eccetera?).
Un mio carissimo collega, Alan Cromer, fisico alla Northeastern University, scomparso purtroppo qualche anno fa, aveva pubblicato nel 1993 un libro con la Oxford UP con un titolo assai significativo: Uncommon sense. Lo suggerii a un editore italiano (R. Cortina) che, sfortunatamente, cambiò questo titolo in L’eresia della scienza, assai meno puntuale nel dare l’immagine del contenuto. Pazienza. Ma siccome la scienza, come ho già accennato, è un vero e proprio superamento razionale del senso comune e, quindi, di ciò che la maggior parte di noi impiega come “conoscenza tacita” solo perché acquisita personalmente come rappresentazione mentale automatica della realtà senza la necessità di tradurla in affermazione verbale esplicita, che si tratti di “senso non comune” è una sintesi perfetta. Cromer arrivava a sostenere che la formazione del pensiero scientifico fosse possibile solo in assenza di culture dominate da monoteismo o da tirannia monocratica: in entrambi i casi si troverebbe di fronte a verità rivelate o a regole sociali imposte, con tassativa proibizione di elaborazione dialettica e mera verifica di obbedienza (il frullato di peccati e delitti); elaborazione che sarebbe stata possibile, nell’antichità, solo nell’antica Grecia, culla delle “radici filosofiche delle civiltà contemporanee”.
In conclusione, io penso che siamo tuttora a contatto diretto con l’unico potere assoluto sopravvissuto al mondo, liberi solo di sceglierlo per ignoranza o per indottrinamento precoce: entrambe circostanze a cui una democrazia evoluta come quella italiana apre subdolamente la strada nella scuola, nell’elargizione di beni pubblici, nella diffusione di simboli e superstizioni, nell’adozione di norme etiche gradite al “tiranno” spirituale. Per fortuna, l’inquisizione langue e la pena di morte è abolita. Altrimenti, non potrei scrivere queste cose e concludere: ma perché non si parla di più del pensiero razionale nelle nostre istituzioni scolastiche?
Carlo Bernardini, fisico e divulgatore scientifico. Nel ‘60 ha collaborato alla realizzazione del primo sincrotrone e con altri fisici dell’INFN di Frascati alla costruzione dell’anello di accumulazione (AdA). È direttore della rivista Sapere. Dal ‘69 al ‘71 titolare della cattedra di Fisica generale all’Università di Napoli, poi all’Università “La Sapienza” di Roma professore ordinario di Modelli e metodi matematici della fisica, è stato anche preside della Facoltà di Scienze MFN.