Punizioni e catastrofi sollecitano da sempre la riflessione dell’uomo. Catastrofe può essere considerato ogni evento che muti drasticamente il paesaggio esteriore (terremoti, tempeste, siccità, inondazioni); è qualcosa che appartiene alla natura entro la quale viene notato il contrasto fra ciò che irrompe improvviso ed inopinato e l’abituale lento mutarsi e ricorrere (ad esempio il ciclo vitale delle piante e degli animali). L’idea di punizione appartiene ad una fase della comprensione del mondo, nella quale si è presa coscienza di una intenzionalità negli altri e, per estensione, apparentemente dietro tutto ciò che muta il paesaggio; sicché all’accadere materiale viene attribuito il significato di “segno” dell’agire di una potenza nascosta (benevola o malevola).
Il dio ebraico che guida l’Esodo pretende obbedienza e fedeltà incondizionate. Padrone della vita e della morte di ogni appartenente al suo popolo, rivolge lo sguardo giudicante per lo più al popolo tutto, nel suo insieme. I “Libri dei Re” mostrano bene quanto l’obbedienza del singolo fosse necessaria parte di quella generale di tutta la nazione, identificata e rappresentata dal suo sovrano, ora fedele a dio, ora allontanantesi da lui. La punizione è conseguentemente collettiva più che individuale, ed assume spesso la caatteristica di catastrofe fisica o sociale. Bene e male sono prealentemente riferiti alla nazione tutta, al più ad una singola tribù.
La vicenda di Giobbe marca il passaggio dal sentire collettivo di un popolo senza aspettative ultramondane ad un raffinato soggettivismo psicologico; ad un più diretto rapporto del singolo con il suo dio, divenuto nascosto alla società ma presente nella coscienza morale personale. Al centro dell’aromentare non c’è più tanto la riellione o la trasgressione sociale, quanto l’atteggiamento intimo nei confronti del dio che dà o toglie salute, figliolanza, prosperità materiale. Ma soprattutto muta la prospettiva di senso. L’uomo del “Pentateuco” è convinto che ogni male che colpisca il popolo sia una punizione e che inversamente ogni bene sia un premio ed un segno di predilezione da parte del dio con cui ha stabilito un patto. Giobbe invece si trova di fronte all’enigma (mai risolto convincentemente dalla teologia cristiana) che angoscerà d’ora in poi i credenti: perché un dio amato e riverito si manifesta con segni ambivalenti e contraddittori, dando (o permettendo) perfino il male dei giusti ed il bene degli ingiusti? Quest’enigma non lo può o vuole risolvere dio stesso, giacché egli non passeggia più nell’Eden con la sua creatura, né l’ammonisce con leggi scritte o tramite messaggeri. Dio non parlerà più con le sue creature, se non tramite il se-stesso Gesù, il cui messaggio rimanda peraltro la comprensione definitiva del mistero del male ad un indeterminato futuro.
La vicenda atemporale di Giobbe sembra descrivere perfettamente in metafora una profonda riflessione: che la natura in effetti ci sfugge, che il corso delle cose non è centrato su qualcosa di immediatamente comprensibile; è la fine dell’illusione magica di una corrispondenza fra l’Io-senziente ed il mono antropomorfizzato, quel rapporto maico-animista che precede la razionalizzazione introdotta dai commentatori più tardivi. La tanto esaltata risposta di Giobbe (accettare virilmente il male permesso da dio così come si accetta con gioia il bene che viene da lui) non è convincente. Se da un lato sembra indicare il prevalere di una fattiva reazione, di un impegno sociale intriso di rassegnazione, dall’altro appare ancora troppo legata ad una favola sociale che predica e legittima sempre e comunque la sottomissione a ciò che viene dall’alto, al potere rappresentato da dio o da un re.
Dopo Giobbe, cambia tutto. La riflessione sul bene e sul male si sposta decisamente dal piano politico e sociale a quello interiore e morale. Al centro dei “Salmi” c’è una domanda di senso che investe il destino individuale, l’esplorazione psicologica di un rapporto diretto padre-figlio (dio-creatura), estremamente problematico. Come un bambino, il fedele teme meno la punizione eclatante piuttosto che l’incertezza, l’ambiguità dei segnali, l’abbandono alle forze del male o ai nemici. Punizioni e mezzi di protezione si spiritualizzano sempre più. Non più offerte visibili, ma da un lato angoscia, incomprensioni, dall’altro attestazioni di fedeltà, preghiere, umiliazioni.
Il cristianesimo maturo s’identifica definitivamente con le premesse tardo-ebraiche. Il dio rappresentato e raccontato, soprattutto nella mistica, appare sempre più un dio personale la cui volontà ed il cui apprezzamento o rimprovero sono coglibili solo in una dimensione soggettiva. E solo l’intuizione è capace di sciogliere l’ambivalenza dei segnali che da lui proverrebbero. La chiesa istituzionalizzata, che ormai ha da gran tempo i suoi interessi ed i suoi mezzi, canalizza comunque, per quanto possibile, questa risposta intima entro precise regole, formalizzate da alcuni mistici e psicologicamente rassicuranti. Il carattere di questa soluzione è squisitamente feminile-passivo (la risposta individuale al male è costituita dalla pratica delle virtù in genere, ma in particolare dalle mortificazioni, dall’umiltà, dalla preghiera), quanto quella di Giobbe era invece maschile-attiva (pratiche esteriori di culto e fedeltà, moralità sociale).
Nella catechesi dei tempi moderni, indirizzata al popolo piuttosto che al mistico (tanto per citare un riferimento: quella di Alfonso de’ Liguori, o di Pio X), l’apparente soluzione al problema del male viene resa di più immediata comprensione razionalizzandola al massimo, ovvero riavvicinandosi all’immediatezza veterotestamentaria. Si assume per certo, infatti, che l’onnipotenza divina controlli ogni cosa e che tutti i mali che affliggono l’uomo provengano da tre sole fonti: dio stesso, il demonio, il peccato. Tutto il male che non è conseguenza del peccato viene fatto risalire direttamente a dio. La “divina provvidenza” guiderebbe ogni cosa, volgendola all’armonia del creato ed al bene delle creature. Dio non è capace di opere imperfette, e dunque ciò che appare male all’uomo è in realtà volto al bene. Dio manifesta in ogni opera la sua bontà, conserva l’universo (anche mediante la distruzione di cose ed esseri), usa la sofferenza come controparte necessaria del bene e della virtù.
Nel caso del demonio, che è (su basi manichee) anch’egli fonte diretta del male, dio decide cosa lasciargli fare, quante volte, con quale forza e per quanto tempo, mirando al bene finale, nel quale si muterà il male presente. Le prove cui dio sottopone (o permette di sottoporre) le sue creature non sarebbero comunque mai superiori alle loro forze (I Corinti 10: 13) e l’uomo sarebbe inoltre aiutato dai confessori, dagli angeli, da dio stesso. Nell’affrontare la prova l’uomo non dovrebbe pensare al demonio che lo affligge, ma piuttosto a dio che ne permette l’azione, e da cui in definitiva viene anche la prova; non dovrebbe pensare al male attuale che gli viene, ma al bene finale, così come concludeva Giobbe. Il resto del male verrebbe dal peccato e sarebbe costituito dai torti inflitti da nemici e falsi amici. Ma anche questi, secondo i Vangeli, non potrebbero neanche torcerci un capello, se dio non lo permettesse allo stesso modo di come si prende cura anche di ogni passero, senza alcun valore (Matteo 10: 29-31).
Assunto come immutabile questo canovaccio del cristianesimo, la catechesi attuale non può derogare granché dalla sua tradizione oratoria. Tanto per fare un esempio, secondo il card. Carlo Maria Martini (L’ira di Dio e altri scritti, Longanesi 1995, pp. 163-172), l’uomo moderno rifiuta istintivamente il pensiero che dio si adiri e punisca le sue creature (e più in generale l’idea che dio sia l’origine di tutto, del bene come del male) preferendo una spiegazione alternativa: ovvero che l’ira di dio non sia “esterna” ma “immanente”, nel senso che è lo stesso popolo di dio che, perdendo i valori dell’alleanza, prepara con le sue mani il proprio castigo e la propria infelicità. Ma neanche questa soluzione sarebbe soddisfacente. Una terza via, preferibile, sarebbe invece quella di attribuire a dio una “ira salvifica”, espressa nel Vangelo dalle parole di Gesù; ira che sarebbe stata assorbita proprio dal sacrificio di Gesù, in nome di tutta l’umanità. Una tale spiegazione, squisitamente teologica e certamente non nuova, non sembra potere soddisfare la più parte dei credenti, attenti al “qui e ora” piuttosto che al “dopo”.
In effetti, né le antiche né le moderne spiegazioni teologiche forniscono accettabili risposte a ciò che appare non avere senso, in quanto ricadente piuttosto nel bruto gioco della natura (dunque della “fortuna” nel senso classico). Conseguentemente, la coscienza dell’odierno credente non prende a modello l’antica concretezza, non sente allo stesso modo la “presenza” diretta di dio. Incerta e confusa fra realismo, animismo e magia; posta di fronte ad una crescente ambiguità del male; tormentata da una palpabile incertezza; disillusa dalla promessa finale, si affida sempre più ad un mondo di mezzo, pregno di santi ma anche di amuleti, in un revival apparentemente pagano, che nella sua logica è comunque anch’esso strettamente cristiano: perché gli dèi pagani non erano materni ed amorevoli, ma al contrario capricciosi più che sapienti, paghi di sé più che esigenti e comunque sempre chiari e diretti nelle loro decisioni.