di Gianluca Ligi
L’antropologo statunitense Clifford Geertz, nel suo classico Interpretazione di culture, ha affermato che «il pensiero umano è fondamentalmente sia sociale sia pubblico – il suo habitat naturale è il cortile di casa, il mercato, e la piazza principale della città. Il pensare non consiste in “avvenimenti nella testa” (benché gli avvenimenti lì e altrove siano necessari perché il pensare abbia luogo), ma nel traffico di quelli che sono stati chiamati simboli significativi» (Geertz 1987: 65, or. 1973). Semplificando molto potremmo dire che la cultura in senso antropologico è costituita da sistemi nativi di significato variamente organizzati in corpi di cooscenze (miti, dottrine, precetti morali, credenze, terminologie di parentela e così via) che trasmettono la visione del mondo propria di un gruppo sociale, di una comunità o di un’intera società. Queste forme di conoscenza locale, diffuse e condivise attraverso pratiche quotidiane di interazione sociale, rendono di fatto possibile l’agire collettivo e consentono di interpretare l’esperienza, organizzare la realtà, legittimare o anche contestare l’ordine costituito. Sul piano antropologico un diastro si può descrivere come una situazione del tutto particolare che mette a dura prova questa capacità della cultura di offrire un coerente orizzonte di senso agli eventi, quando quei cortili domestici, quei mercati e quelle piazze intrise di pensiero sociale di cui parlava Geertz, vengono improvvisamente distrutti da un sisma o da un’inondazione. Ne La fine del mondo, Ernesto De Martino ha parlato di momenti critici, in cui singoli individui e intere comunità si troverebbero sul punto di vivere un collasso culturale profondo, ovvero «il rischio di non poterci essere in nessun modo culturale possibile, di perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi – sino all’annientarsi – di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori. La cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per così dire – la tecnica esorcistica adottata» (De Martino 1977: 219).
Mi hanno sempre colpito le parole con cui Roland Barthes racconta il volto di Parigi dopo l’inondazione del 1955: «[…] automobili ridotte al loro tetto, lampioni troncati, con la loro testa a fior d’acqua come una ninfea, case tagliate come cubi di bimbi […]. Tutti questi oggetti quotidiani sono improvvisamente apparsi separati dalle loro radici, privati della sostanza ragionevole per eccellenza, la Terra. La piena non ha solamente scelto e spaesato certi oggetti, ma ha stravolto la stessa cenestesia del paesaggio, l’organizzazione ancestrale degli orizzonti: le linee abituali del catasto, i sipari di alberi, le file di case, le strade, perfino il letto del fiume, questa stabilità angolare che organizza così bene le forme della proprietà, tutto ciò è stato cancellato, dispiegato dall’angolo del piano: non più vie, non più rive, non più direzioni; una sostanza piana che non porta da nessuna parte, e che così sospende il divenire dell’uomo, lo distacca dalla ragione e da una utensilità dei luoghi (Barthes 1974: 54)». Lo steso silenzio di desolazione e sconfitta di fronte ai capricci imprevedibili della natura pervade la prima mattina di sole nella Macondo distrutta da un’alluvione nel celebre romanzo di Gabriel García Máruez, Cent’anni di solitudine: «Un venerdì, alle due del pomeriggio si illuminò il mondo a causa di un sole abbondante, rosso e aspro come polvere di mattone, e quasi fresco come l’acqua […]. Macondo era in rovina. Nei pantani delle strade erano rimasti mobili schiantati, scheletri di animali coperti di gigli rossi, ultimi ricordi delle orde di avventizi che erano fuggiti da Macondo con lo stesso stupore col quale erano arrivati […]. Della antica città recintata non rimanevano che le macerie» (Márquez 1983: 300). Purtroppo abbiamo ancora negli occhi le immagini delle case, delle strade, dei volti delle persone di Haiti, o dei comuni abruzzesi colpiti dal terremoto, per comprendere come nessuna descrizione letteraria, per quanto penetrante e ispirata, possa davvero counicare il senso di spaesamento e di angoscia che si prova dopo una catastrofe.
Uno dei grandi temi su cui l’antropologia ha costruito la propria fisionomia disciplinare è quello dell’analisi dei sistemi di credenze, intesi come complesse costellazioni di significati che tentano di conferire un senso all’esperienza del male. Un variopinto caleidoscopio di usi, costumi, miti, riti, una ricchissima gamma di narrazioni nelle quali si alternano esseri sovrannaturali, angeli, demoni, eroi, draghi, entità spirituali, strani e minacciosi animali, terribili eventi cosmici, e così via, hano trovato posto nelle rassegne etnografiche e nei manuali di etnologia descrittiva fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, alla cui analisi comparativa e accurata classificazione si sono dedicati autori come Tylor, Frazer, o Lévy-Bruhl. Ad esempio: gli indigeni di cultura Sré (Indocina) credono che all’inizio del tempo vi sia stata una catastrofe primordiale, “ling” (inondazione) provocata dall’incesto mitico di una donna che si unisce al proprio figlio per generare l’umanità; le etnie Mnong di area Khmer credono nel potere generativo di “mang-ling”: un disastro in cui il sole si oscura e da cui si orginano delle fratture cosmiche ritenute essenziali per la creazione dell’umanità; buona parte degli indologi ritengono che la credenza in un disastro mitico, detto “pralaya”, nella forma concreta di un incendio, sia centrale e molto profonda in tutto il pensiero mitico Hindu; come ha ben evidenziato Christian Duverger (1981), gli Aztechi credevano che un ciclo di disastri fosse all’origine del cosmo, costituito dal susseguirsi di quattro epoche o soli, culminanti nel tempo del Quinto Sole, “Ollintonatiuh”, o “sole di movimento”, nel quale l’universo verrà distrutto da un terremoto; i Quiché del Guatemala, di ceppo Maya, credono in Hurakàn, uno dei personaggi mitici che sostengono il mondo, la divinità primordiale della creazione, superiore a tutti gli altri dèi guatemaltechi, con manifestazioni comprendenti il fulmine, il tuono e il cielo azzurro; e così via, si potrebbe continuare a lungo la rassegna etnografica seguendo le sorti di popolazioni più o meno esotiche e distanti da noi nello spazio e nel tempo. L’importanza di questi patrimoni mitici, che in alcuni casi (ma non sempre) si sono trasformati in favole per bambini, non va affatto sottovalutata. Questi racconti, connessi a elaborati sistemi di credenze, rivelano tracce profonde di come in società differenti siano state costruite l’idea del destino, della precarietà, del senso della storia umana, della causalità degli eventi, sulla cui base molti gruppi sociali agiscono ancora oggi, scegliendo di assumere atteggiamenti reattivi o rassegnati di fronte a un disastro, ponendosi in condizioni di maggiore o minore vulnerabilità, o capacità di gestire la crisi, di accogliere o di rifiutare la macchina organizzativa degli aiuti internazionali. Ha ragione Rodney Needham (1972) quando ci invita a riflettere sulla complessità del verbo credere, così spesso utilizzato in modo acritico dagli antropologi vittoriani. Il verbo credere esibisce un’interna complessità e ambigui-tà quando ci poniamo in ottica trans-
ulturale. Certamente non è solo una parola, anche se è una parola potente, dato che la gente talvolta si ammala o guarisce, si uccide, oppure uccide, in nome di qualcosa in cui crede. Credere non è nemmeno soltanto un atto del pensiero o una categoria filosofica: è soprattutto un’esperienza. Ma che tipo di esperienza è quella del credere? Attraverso quale rete di concezioni culturali, di pratiche sociali, di effetti concreti sui corpi degli individui, essa si articola e si riproduce?
Uno dei problemi più profondi che ha attraversato tutta la storia dell’antropologia, sin dalle origini ottocentesche, in cui l’antropologia pretendeva di costituirsi come scienza naturale delle società, è quello della possibilità di raggiungere una nozione universale e necessaria di razionalità cognitiva in funzione protoantropologica, tale cioè da garantire criteri in qualche modo oggettivi per la comprensione di culture “altre”. La differenza stessa fra primitivi e moderni si è costruita intorno a questo problema. Se di fronte all’enigma radicale del dolore che irrompe all’improvviso nella storia umana, ad esemio in un disastro di immani proporzioni, le persone invocano esseri sorannaturali o eventi mitici ancestrali, allora – si diceva – sono primitivi: i loro processi cognitivi, mediante i quali comprendono e organizzano la realtà, sono animati dall’atteggiamento del credere, da una mentalità magico-religiosa che produce inevitabilmente affermazioni false. Al contrario i moderni sono tali perché, dopo aver abbandonato magia e religione, ed esser giunti al culmine dell’evoluzione culturale dell’Occidente, finalmente conoscono, ovvero si orientano secondo una modalità di rappresentazione del mondo che li porta ad ottenere un sapere sempre completamente vero e definitivo sulla realtà [1]. Questa epistemologia strettamente oggettivista, su cui si fondava l’antropologia delle origini – dal periodo vittoriano fino al primo funzionalismo – considerava la conoscenza come rispecchiamento di una realtà oggettiva e indipendente dal soggetto, la cui espeienza ci consentirebbe un accesso diretto e immediato ai “fatti”. Se guardiamo alle scienze naturali come modello di un simile rispecchiamento, la diversità esibita dai sistemi di credenze e di pratiche magico-religiose delle società “primitive” non potrà che risultare incomprensibile. Tali sistemi sembrano fondati su convinzioni non solamente errate, ma in contrasto con i più semplici dati dell’esperienza e con i più elementari principi di inferenza logica che ogni uomo ragionevole non potrebbe accettare. Allora il compito dell’antropologo positivista divenne subito quello di spiegare come possano generarsi e persistere in modo diffuso simili errori: ritardo nello sviluppo cerebrale, nella maturazione cognitiva, e così via. La storia evolutiva sul piano culturale di intere società era concepita con la metafora dello sviluppo del singolo individuo, che dalla fase della prima infanzia, in cui ingenuamente crede a tutto e di tutto si meraviglia, passa gradualmente ad una fase di maturità e di saggezza nella quale ha imparato a distinguere la verità dall’errore.
Negli anni ’80 del Novecento, l’antropologa Mary Douglas (1990, 1993, 1996) ha affrontato il problema in modo nuovo, come ella stessa ha dichiarato non senza una punta di intelligente ironia, ponendosi l’obiettivo di difendere i cosiddetti primitivi dall’accusa di ragionare in modo irrazionale, poiché è del tutto ovvio che un terremoto è causato dalla tettonica a zolle e non è colpa dell’ira di Hurakàn. Applicando la fondamentale indicazione metodologica fornita dalle ricerche di Evans-Pritchard (2002, or. 1937) sulla stregoneria Zande (Congo), secondo Douglas quando in una società si accusano nemici, stranieri o donne peccatrici di aver provocato il maltempo, un’eruzione vulcanica, il terremoto o altri generi di catastrofi, non è importante il ragionamento in sé, o un errore empirico nella costruzione dei nessi causali, ma il processo di attribuzione di colpa (blaming). Come dire: non focalizzare l’attenzione esclusivamente sugli eventuali errori che commettono i nativi nell’attribuire una spiegazione causale empirica all’evento, ma osserva soprattutto a chi danno la colpa.
Secondo Mary Douglas, i “primitivi” utilizzano processi istituzionalizzati di blaming (cioè di attribuzione di colpa) secondo repertori che, sulla base delle numerose ricerche storico-etnografiche condotte in gran parte del mondo, si ripropongono in modo più o meno fisso e ricorrente. Semplificando molto si possono evidenziare tre categorie: (a) Alcune culture forniscono una spiegazione riferita agli “avversari interni”: ad esempio, di fronte alla morte di una donna a seguito di una grave malattia, si può ipotizzare che la donna non sia riuscita ad applicare un rituale magico-religioso più efficace di quello delle sue rivali, oppure che sia stata vittima di invidie e di malignità. In altri termini la disgrazia è ricondotta a un’azione concreta o all’influenza negativa di qualche membro della comunità stessa. Questo genere di interpretazioni guida le conseguenti strategie di comportamento, provocando azioni sociali volte al risarcimento o alla vendetta. (b) In altri contesti sociali, in altre comunità, vengono invocate spiegazioni che si riferiscono all’opera di un nemico estero (ad esempio come nel caso suggerito dalla bella raffigurazione azteca di Popocatepetl, il “monte fumante”: rappresentazione sacralizzata di un’eruzione vulcanica scatenatasi contro i conquistadores spagnoli), e ciò motiverebbe delle azioni sociali volte a individuare i nemici per combatterli o per infliggere loro una giusta punizione. Infine, secondo Douglas, (c) in molte società cosiddette “primitive” di fronte alla sciagura e al disastro, si ricorre a una spiegazione di tipo moralistico: una donna si è ammalata o è morta perché ha commesso adulterio, ha peccato o ha infranto qualche tabu; ciò motiverebbe allora delle azioni sociali espiatorie mediante rituali di purificazione. Nella cultura tradizionale cinese, ad esempio, il significato della morte per folgorazione dopo essere stati colpiti da un fulmine può essere ricondotto a questo repertorio di blaming. Il cielo viene rappresentato come una entità che punisce soprattutto le donne colpevoli di aver violato gli obblighi familiari, o compiuto trasgressioni sessuali.
È importante sottolineare che i tre repertori interpretativi descritti non devono essere considerati come una sorta di software che funziona automaticamente una volta caricato negli individui (l’hardware), consentendo loro di agire come dei robot. Tutti i costrutti culturali in quanto processi storici, ed in particolare i sistemi di credenze, non sono mai “puri”, nel senso che presentano sempre elementi ibridi e sincretici, provenienti da tradizioni e contesti sociali diversi (il problema dell’“originale” e dell’etniamente “autentico” in antropologia è più che altro un problema di percezione culturale); e poi sono sempre dinamici, mutano di continuo, non sono mai pienamente coerenti e privi di ambiguità, così come non sono mai creduti in ogni loro aspetto da tutti i membri di una comunità, nello stesso identico modo e con la stessa intensità. Il punto rilevante nell’analisi condotta da Mary Douglas sui processi di blaming è l’idea che il pensiero nativo non sia affatto irrazionale, ma non sulla base di un criterio oggettivista, ovvero sulla capacità che il pensiero selvaggio avrebbe di cogliere o meno le “vere” cause degli eventi (è del tutto ovvio che non esiste nessun essere Hurakàn guatemalteco, o che non esiste nessun paradiso di Amìda o nessun potere di Kami); bensì per il fatto che l’utilizzazione politica del pericolo e della contaminazione si configura come una efficace risorsa giudiziaria. La minaccia di una catastrofe rafforzerebbe le istituzioni sociali e i codici morali. La connessione simbolica fra male fisico e male morale è in realtà un dispositivo di conferma di un dato assetto ideologico: più forte è la solidarietà di una comunità, più tempestiva sarà la codifica delle calamità naturali come segni di comportamenti riprovevoli. I tre repertori di spiegazione, lungi dall’essere un’accozzaglia di fandonie giustapposte fra loro nei modi più bizzarri, hanno grande valore antropologico in quanto agiscono su molteplici livelli con modalità culturali estremamente raffinate per manipolare in senso politico l’esperienza del dolore.
Ad un primo livello, i tre repertori di blaming descritti da Mary Douglas sono teorie della causalità, forniscono cioè una risposta (anche in termini cognitivi) al perché della disgrazia, arginando l’irruzione dell’assurdo nella vita quotidiana. Sono però teorie della causalità che operano a prescindere dal livello empirico, relativo alla comprensione fattuale corretta dei nessi fra le cose, largamente insufficiente a superare il dolore nel momento critico o a risolvere la situazione di lutto, anche se non sempre, e non in tutte le situazioni critiche esse agiscono in modo efficace. Anche in questo caso è indispensabile evitare qualunque applicazione schematica del modello, come dire: in un contesto culturale tradizionale, chi crede nei dettami della tradizione religiosa locale supera sempre il dolore e torna felice, chi invece non crede è condannato a dibattersi nell’irrimediabile disperazione di una vita senza senso.
Ad un secondo livello, i processi di blaming hanno un valore sul piano politico e sulla organizzazione delle strutture sociali: dire che “una donna si è ammalata perché ha tradito il marito”, se da un lato significa dare un senso alla malattia, contemporaneamente, dall’altro, significa affermare: “da noi la fedeltà è un valore!”, quindi sostenere un dato sistema assiologico. Ogni malattia o morte fornisce l’occasione per ribadire ciò che è socialmente riprovevole, e la definizione del pericolo ha lo scopo di proteggere il bene pubblico e l’integrità del gruppo. Così anche per quanto concerne la categoria interpretativa che attribuisce la causa della disgrazia ai “nemici esterni”, il blaming può essere rovesciato e studiato come dispositivo sociale per ribadire i confini della comunità. Affermare che i mali che ci affliggono dipendono, in buona parte, dagli stranieri (oggi diremmo dagli extracomunitari), significa attivare un’attrezzatura concettuale per stabilire chi siamo noi, quindi chi sono gli altri da noi (che lingua parlano, in cosa credono, come si comportano, perché sono qui, ecc.); dunque in tale circostanza, come per la precedente, è in azione una teoria della causalità non solo prodotta da una ben precisa antropologia implicita, ma che allo stesso tempo contribuisce a rinforzarla.
Infine, un terzo livello sul quale agiscoo i repertori di blaming è poi quello relativo alla connessione essenziale fra piano delle idee e piano delle pratiche. Le teorie native della causalità non solo spiegano perché ci si trova in quella situazione (come si è determinata), ma forniscono anche modelli culturali su come reagire in pratica. Seondo Douglas, gli attori sociali coinvolti avrebbero così a disposizione delle strategie di comportamento culturalmente adeguate per canalizzare l’aggressività, rimettere in moto la capacità di fare, superare il dolore del momento critico e scongiurare quel collasso della cultura di cui parlava De Martino. Da un punto di vista antropologico complessivo, il valore dell’analisi di Mary Douglas, che molto deve agli studi pionieristici di Evans-Pritchard sui sistemi di credene, consiste nell’aver dimostrato che quete teorie della causalità come processi di blaming (dato che non sempre trovare la causa e dare la colpa coincidono) sono efficaci in quanto “incorporate” (embodied) negli attori sociali, ma soprattutto in quanto “immerse” (embedded) nel tessuto culturale globale di una data società. Scrive Mary Douglas: «Le persone che formano una comunità non decidono consapevolmente di adottare l’uno o l’altro modello di attribuzione di colpa. I pericoli per l’integrità fisica e per la stessa vita entrano automaticamente nel dibattito sulla costituzione di una società e ricadono in modelli regolari in conformità con il genere di costituzione che viene sostenuto» (Douglas 1996: 27).
In antropologia, comprendere un processo di blaming significa non limitarsi al solo studio dei sistemi di credenze, ma porsi il problema teorico ed etnografico di evidenziare la rete di connessioni che si è storicamente istituita fra quelle credenze e la struttura sociale, il sistema politico, le relazioni di parentela, i rapporti di potere, il sistema economico, e così via. Ad esempio, Evans-Pritchard ha dimostrato che la credenza nella stregoneria fra gli Azande si mantiene grazie a una serie di relazioni articolate e variabili con tutta la struttura sociale sottostante, dal momento che fornisce una spiegazione alla sventura chiamando in causa il potere malevolo di altri membri della comunità, ma le accuse non sono mai lanciate a caso, tendono invece a colpire categorie di individui ben definite (Douglas 1996). Dunque è sbagliato limitare lo studio delle credenze al piano simbolico, espressivo o narrativo, delle credenze stesse, o ridurlo esclusivamente al piano teoretico relativo alla razionalità in termini di logicità dei contenuti di ciò che si crede. È fondamentale invece registrare accuratamente la direzione e la frequenza delle accuse, riuscendo in tal modo a tracciare una mappa delle tensioni interpersonali che attraversano la società. Le ricerche di Mary Douglas hanno contribuito a presentarci dei “primitivi” un po’ meno primitivi, di quanto non li avesse ritenuti un Frazer, un Tylor e di gran lunga meno mistici e pre-logici di quanto non li avesse dipinti un Lévy-Bruhl. I “primitivi” si impegnano a sostenere l’efficacia di complicati rituali, e sono convinti della fondatezza e coerenza delle loro teodicee native, perché attivano dei raffinatissimi dispositivi di microfisica istituzionale: conferiscono un senso al male, proteggono la coesione sociale, tracciano confini comunitari, ribadiscono valori e codici morali, utilizzano in senso politico il pericolo.
Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, un’epoca pervasa da un luminoso ottimimo tecnologico (fiducia nell’energia nucleare, nell’industria chimica, ecc.) e in cui il benessere per tutti a basso costo sembrava una meta a portata di mano, si confermò l’idea che il modello secondo cui il pericolo possa essere utilizzato in senso politico fosse aplicabile ai soli “primitivi”. Secondo una convinzione diffusa, la scienza e la tecnologia avevano sciolto per sempre il legame fra morale e pericolo, e lo spostamento verso la funzione del pericolo (minaccia di un disastro) coe sostegno delle istituzioni sociali non era più necessario: «“loro” considerano i pericoli in termini politici, nell’interesse delle istituzioni, “noi” abiamo separato i pericoli dalla politica e dalla ideologia, e li consideriamo in una prospettiva scientifica» (Douglas 1996: 18). Ma la serie di importanti e tragici eventi che hanno segnato il ventennio successivo, ci ha costretto, secondo Douglas, a cambiare ulteriormente prospettiva. La fondazione del “Club di Roma” e l’avvio delle ricerche sui limiti dello sviluppo; la conferenza mondiale dell’ONU a Stoccolma nel 1972 (il primo grande evento internazionale dedicato alla tutela ambientale); l’incidente atomico di Three Mile Island in cui si sfiorò la cosiddetta “sinrome cinese” e, appena sette ani dopo, nel 1986, l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl; in ambito italiano, la contaminazione di diossina a Seveso (1976); la nascita di forme di cittadinanza attiva sulla spinta dei movimenti NIMBY (“Not in My Backyard”, “Non nel mio cortile”) e LULU (“Locally Unwanted Land Use”, “Utilizzazione del territorio localmente non voluta”); hanno mostrato che la tecnologia non può più essere considerata ingenuamente come il principale prodotto scientifico che ci differenzia dai primitivi, permettendoci di manipolare il mondo e controllare i pericoli, perché nella società moderna proprio la tecnologia è diventata la più pericolosa fonte di rischio (Beck 2001; Jonas 1990; Schwarz, Thomson 1993).
L’incompletezza costitutiva e intrinseca della conoscenza scientifica ha infranto il mito illuminista dell’oggettivismo puro e ha messo in evidenza l’impossibilità di raggiungere la certezza del pericolo o della sicurezza (di un dato impianto, di un dato processo produttivo, dell’evenienza di un dato fenomeno naturale estremo come un terremoto). A partire dagli anni ’80, il rischio cominciò a configurarsi come nuova categoria analitica per gestire il pericolo tecnologico. Come ha osservato Mary Douglas, grazie al contributo di ricerca e alla riflessione epistemologica di molte discipline scientifiche (fisica, epidemiologia, biostatistica, ecc.) divenne via via sempre più chiaro che la vecchia connessione fra morale e pericolo, alla base di molti sistemi di credenze, per decenni ritenuta tipica soltanto delle società “primitive”, non è prodotta dalla mancanza di conoscenza, perché la conoscenza è sempre insufficiente, è sempre incompleta, e l’ambiguità è sempre in agguato (Gallino 2007). Volendo attribuire una colpa si troverà sempre il modo di interpretare le prove nel senso voluto. Dunque l’industrializzazione e la modernizzazione non hanno prodotto degli esseri umani capaci di non ricorrere al pericolo per proteggere il bene pubblico, e una qualche forma di utilizzazione politica del rischio è sempre attiva anche qui da noi, nel nostro avanzato e razionale Occidente.Note
[1] La tesi (errata) che i selvaggi (attuali) possano essere correttamente paragonati ai primitivi in senso archeologico (ovvero a quelle popolazioni cronologicamente sviluppatisi “prima” della nostra, per cui a partire dallo studio dei selvaggi si potrebbero studiare meglio anche i reperti archeologici dei primitivi –e viceversa– secondo la metafora dei “fossili viventi”: osservando il comportamento sociale dei BaNande del Congo possiamo capire come eravamo noi migliaia di anni fa), venne formulata da E.B. Tylor, il padre del concetto antropologico di cultura ed esposta al Convegno di Archeologia Preistorica di Norich nel 1868, con una comunicazione significativamente intitolata The Conditions of Prehistoric Races, as Inferred from Observation of Modern Tribes.Riferimenti bibliografici
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Gianluca Ligi è docente di Antropologia culturale all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia.