Il 20 settembre di Garibaldi

di Mario Isnenghi

 

Anno 1870. I bersaglieri dell’esercito regolare liberano Roma. A cannonate, perché il papa non si è piegato alle ragioni della diplomazia. Così, per risolvere almeno gli aspetti territoriali della Questione Romana e portare la capitale a Roma, gli eredi di Cavour, i conservatori della Destra storica, fanno proprie le maniere forti del partito d’azione: 20 Settembre, breccia di Porta Pia. La scelta è aspra, spacca il paese a destra, in direzione dei cattolici, o per lo meno dei clericali, che non ammettono autonomia delle sfere e distinzioni fra il papa e il re; ma provoca e stabilisce netti confini anche a sinistra. Il governo liberale non vuole, infatti, Mazzini e Garibaldi fra i piedi. Chi ha voluto e agito per questo fine, non è ammesso alla festa. Cruda “via di mezzo”, Real-politik che non lascia spazio alla gratitudine.

Intanto però, in quello stesso 1870, Garibaldi trova modo di dire comunque la sua. Non solo nel suo inesausto carteggiare politico, ma con due romanzi, appena finiti di scrivere e che escono tutti e due a stampa, a ruota, in quell’anno. Due romanzi, brutti quanto si vuole, ma rivelatori di molte cose: per esempio, che il Risorgimento è pensato e fatto di uomini di lettere che si trasformano in uomini d’azione, ma anche di uomini d’azione che si improvvisano uomini di lettere. Ben quattro romanzi scrive Garibaldi nel suo ultimo quindicennio di vita, pubblicandone tre e lasciando inedito il quarto. Il romanzo, spesso pubblicato a puntate sui giornali, prima che in volume, è la forma più popolare di letteratura che, a metà Ottocento, amplia il pubblico proprio forzando le tinte e non badando a sfumature nella delineazione delle trame e dei personaggi.

Garibaldi è stato individuato lui stesso come un vivente D’Artagnan dal più famoso dei suoi biografi, che è proprio il fortunato autore dei Tre Moschettieri. Alexandre Dumas scrive di lui da quando Garibaldi fa il guerrigliero libertario in Sud-America e nel 1860 accorre a vederlo agire dal vivo nella straordinaria avventura che si conclude a Napoli. Ma il Garibaldi ritirato a Caprera, di suo, è anche un pensoso e rattristato Athos, vent’anni dopo. Vent’anni dopo il ’48, vent’anni dopo la Repubblica Romana. E il suo secondo romanzo del 1870, Cantoni il volontario, si muove appunto sul filo di un ventennio, fra Roma e Mentana, dove muore questo prototipo romagnolo di volontario — “volontario e non soldato”, e realmente esistito, spiega l’autore. Lo sfondo è quello consueto, truce, granguignolesco, a forti tinte, quando elogia — in Clelia, il primo romanzo — quel “po’ di giustizia-pugnale o giustizia-carabina” che si rende sovente necessaria, rispetto all’insufficienza delle vie legali, e in cui sono maestri i Romagnoli; o quando descrive lo scandalo per gli spregiudicati costumi sessuali dei preti e delle suore e la sua penna moltiplica il furore nei confronti del gesuita, che è la secolare e più raffinata somma d’ogni male, il più perfetto prototipo dei “negromanti” nemici d’ogni umana morale, oltre che della patria.

“E stava fresca l’Italia se unificata dai negromanti!”. Qui ce l’ha col mito di Pio IX, il “papa liberale”, in cui tanti sono cascati, e con Gioberti. Ma il Garibaldi deluso e rancoroso del dopo-Mentana, l’uomo dell’isola, regola nei romanzi politicamente i conti anche con “quegli sciagurati uomini che si chiamano Moderati, e che nel solo Bene sono Moderati davvero”; con “la turba di codardi, di prezzolati, di prostituti, sempre pronti ad inginocchiarsi davanti tutte le tirannidi!”; e con la “plebe” che affolla ancor oggi “la bottega del prete”. E ha punte acidissime anche contro la “casta di dottrinari (che) capitanati da Mazzini”, i rapporti con il quale toccano dopo Mentana il punto più basso.

Cantoni il volontario non muore solo. La mattina del 4 novembre 1867 vengono trovati insieme due cadaveri, feriti al petto, il suo e quello della sua compagna Ida, la donna combattente, la sua personale Anita, vissuta e morta nel modo più degno, “pugnando contro il soldato straniero ed il prete”.

Garibaldi piaceva alle donne. E ha titoli per sollevare interesse, anche ai nostri giorni, fra le donne e le storiche delle donne.