Dio, il cinema e il gonnellino di Eta Beta

di Carlo M. Pauer*

“Ma perché queste persone,
che sono le prime ad andare
nei music-halls a vedere lo splendore
degli spogliarelli, hanno tanta paura
dell’universo cinematografico?
La loro stupidità è logica.
Intuiscono quale chiave magica dell’immaginazione
viene offerta agli spettatori.”
(Robert Desons, Le Soir, 18 marzo 1927)

La classificazione “cinema ateo” (o simili) non trova un riscontro nelle più diffuse storie del cinema o nelle catalogazioni dei generi principali, che affrontano il nodo all’interno di altre suddivisioni: per argomenti, sistemi produttivi, aree geografiche, autori, censure. Tuttavia, le storie del cinema e le divisioni per generi, appena completate e pubblicate, sono destinate a essere superate dal divenire e così, molto più che l’ornitorinco in zoologia quando due secoli or sono costituì a lungo un grattacapo, a maggior ragione il cinema – tecnica e non animale – nel continuum dell’esperienza sfugge alla tassonomia definitiva; ma non per questo si è negato mai il bisogno di un’ordinazione. Al cuore della questione, dunque, c’è prima di tutto la necessità d’individuare il perché di un eventuale catalogo, ragionato e commentato, che organizzi la produzione cinematografica secondo questa concettualizzazione. Il fatto sociale generatore di tale domanda si deve cercare nello scenario culturale che ha caratterizzato l’occidente sul finire del XX secolo, del quale anche il cinema è stato importante specchio e testimone, più o meno cosciente.

Il prefisso rivelatore “post-”, quasi abusato e unito prima di tutti a “moderno”, annuncia lo svelamento definitivo, “doloroso” e di massa, dei fondamenti che presiedevano le grandi narrazioni prescientifiche, le mitologie e le religioni dispiegate dalla specie umana per conoscersi e comprendere la realtà nella quale è immersa. “Dio è morto”, al tempo di Andy Warhol, è un logo commerciale che si stampa sulle T-shirt, mentre John Lennon dichiara parresiasticamente: “We’re more popular than Jesus now. I don’t know which will go first — rock and roll or Christianity” [1]. Tutto ciò, come è ovvio, non sfugge ai custodi delle teologie e preoccupa più di ogni altra, fino al terrore, la chiesa cattolica romana, da 500 anni già impegnata ininterrottamente sul fronte della reazione a causa di un suo monaco agostiniano sfuggito – irrimediabilmente – al controllo.

Quando scocca la fine del millennio, per provare a distendere una cappa di piombo teologico sul futuro ciclo di 1000 anni, il Vaticano gioca l’ultima carta e – vergata dal cardinale Ratzinger – il pontefice romano firma l’enciclica Fides et ratio, dove rilancia contro il postmoderno, come se 800 anni non fossero trascorsi, la dottrina teologica di Tommaso d’Aquino. Eletto a sua volta monarca assoluto, Ratzinger col nome di Benedetto XVI dichiara guerra al relativismo, marcando con apocalittica decisione il pontificato nella direzione della crociata cattolica intrapresa dal “leggendario” predecessore. La parola più pronunciata è Dio. Dio, dice l’ex cardinale inquisitore, è l’unica difesa contro la perdita di senso dell’umanità, sopraffatta dalla tecnica e dalla complessità; tentando grossolanamente di digerire con lo stomaco di Tommaso anche Heidegger e Adorno. Dunque Dio è l’ultimo tabù, il morto-vivente ancora in piedi in virtù dell’autocensura e della riserva mentale; ma soprattutto tenuto in vita perché ancora efficace anestetico di massa per tutti coloro che ne sappiano far uso, con il sostegno plaudente – e economicamente disastroso per la civiltà – delle autorità ecclesiastiche. È questa l’emergenza che muove le coscienze libere, costrette a organizzarsi per costruire un fronte culturale di resistenza, dovendo riconoscere come un’imperdonabile ingenuità l’aver creduto che i sostenitori di Dio avrebbero deposto le armi con dignità davanti all’ineluttabile destino che li riguarda.

Parlare di cinema senza Dio, prima che catalogarlo, significa allora individuare in che modo esso eventualmente si manifesta nella produzione dell’industria cinematografica, cioè rintracciando e verificando l’azione della censura. Per ovvie ragioni è possibile – sommariamente – trattare solo il caso italiano; tuttavia, in considerazione dei caratteri così particolari che rendono – ahinoi! – unico questo Paese, esso può essere considerato esaustivo per una prima conoscenza dell’argomento. Questo è avvalorato anche dal fatto che la Chiesa cattolica si autoproclama “universale” e perciò la sua azione – con gli aggiustamenti locali – è la medesima verso tutti i Paesi dove è in grado di esercitare il suo potere. Sapendo che il grado massimo di questa egemonia è espresso nel rapporto perverso con lo Stato italiano, non è errato concludere che analizzando la “questione romana” si ha a che fare, nel caso in oggetto, regolarmente con il momento più alto del conflitto tra religione e censura cinematografica. Nei Paesi più laici, infatti, dove non esiste un giogo concordatario come quello del 1929, la battaglia dei cattolici che invocano la censura di un film sgradito (solitamente a posteriori mediante sequestro), deve vedersela con un percorso a ostacoli (questo sono per il clero le democratiche garanzie costituzionali sulla libertà di espressione), assai più faticoso. In Italia – invece – è sempre una passeggiata in discesa, cosparsa dei petali di rosa gettati dalla politica strisciante dei mercanti al potere.

Come opera il Vaticano in materia di censura cinematografica? A parte l’Argentina, alcune piccole nazioni dei Caraibi e qualche paradiso fiscale, il cattolicesimo non è una religione di Stato in nessun altro luogo; quasi ovunque, perciò, Roma non possiede più quei privilegi medievali automatici che le consentivano d’intervenire direttamente nelle legislazioni attraverso la mediazione politica dei vescovi sparsi nel mondo. Perfino in Italia, i bei tempi della sinergia (quasi) perfetta tra censura fascista e censura cattolica, durati fino al 1962, subiscono un colpo. Con gran ritardo, il 21 aprile 1962 veniva infatti approvata in parlamento la legge n. 161 che modificava la censura preventiva ereditata dal Ventennio, rinnovando l’organizzazione delle Commissioni di primo e secondo grado. I divieti erano posti ai minori di 14 e 18 anni, tutelati “in relazione alla particolare sensibilità dell’età evolutiva”. Scompaiono i funzionari ministeriali, le ex sciarpe littorie, e compaiono, oltre a un magistrato, un regista, un critico e un produttore, anche tre professori (un giurista, un pedagogo, uno psicologo). Disgraziatamente, trattandosi di Italia, la legge deve fare i conti con la realtà: il giurista, il pedagogo e lo psicologo, non sono proposti dai rappresentanti delle categorie interessate al cinema, bensì nominati dal ministero. L’obiettivo è quindi fare in modo che la “trinità” sia di provata fede cattolica, secondo lo schema tattico per l’occupazione delle poltrone chiave negli snodi culturali pubblici, il medesimo che ha portato nel 2004 alla vicepresidenza del CNR il simpatico buontempone Roberto de Mattei.

Questo è il primo livello di controllo e pressione: il cineasta e il produttore sanno che la sceneggiatura non deve oltrepassare “certi limiti”, ufficialmente inesistenti se si crede alla Costituzione, tuttavia attivi per le note ragioni dell’“anomalia politica” italiana. Qualora la spada di Damocle, la dissuasione preventiva, non dovesse funzionare appieno, la resistenza clericale, come si è anticipato, si serve dello strumento del sequestro, segnalando le violazioni del codice penale quando il film è già nelle sale.

Un esempio interessante e spassoso, appena pochi mesi dopo la “riforma”, è il film Il monaco di Monza (S. Corbucci, 1963), che la commissione prima liquida senza problemi, ma dopo la visione e la recensione del CCC [2] è costretta a correre ai ripari. A disturbare il censore cattolico è la celebre litania di Totò e Macario durante la quale alle invocazioni sacre sono sostituiti i nomi di: Assia Noris, Doris Duranti, Maria Denis, Sophia Loren, Anna Maria Pietrangeli, Brigitte Lebrun, Tony Curtis, Curd Jurgens e Brigitte Bardot, con surreale ed esilarante samba brasiliana finale. Per il CCC Totò, Macario e Nino Taranto hanno partecipato a un “lavoro veramente disonorevole” che “in un contesto di doppi sensi e battute triviali” fa un uso “irriverente degli abiti e delle cose sacre, fino a quello blasfemo delle preghiere”. Richiamato, al film si concede il nulla osta se scompare la litania [3].

Poi, col passare degli anni, per ottenere l’intervento della magistratura è necessaria un’azione vasta e capillare. I costumi della nazione sono mutati rapidamente, l’Italia del 1950 e quella del 1970 sono, dal punto di vista della gerarchia cattolica, ormai due mondi lontani anni luce. La lunga lotta alla “Pedagogia del nascondere”, alla base della formazione della gioventù italiana e quindi forma mentis dei futuri “uomo medio” e “donna media”, è passata per la definitiva rivolta culturale dei figli contro i padri nel 1968: vogliamo (sapere) tutto! [4]. È la rottura della diga conservatrice covata all’ombra della chioccia vaticana e la reazione, a piazza Fontana, si farà sentire tornando più volte a colpire con gli stessi argomenti esplosivi per provare a seminare il terrore. La morale cattolica è alle corde, per frenare la dissoluzione dei costumi cavalcata con spudoratezza mercantile dal cinema degli anni ’70 – che dilaga nella produzione di pellicole sempre più “scollacciate” – le campagne di pressione allestite dal clero e la destra a livello locale si rivelano, alla fine, allegramente controproducenti.

Lo scontro arriva al calor bianco con Pasolini e Bertolucci. Quest’ultimo, fresco della lettura di Bataille, con Ultimo tango a Parigi (1972) si ritrova condannato a 4 mesi di reclusione e 5 anni di privazione dei diritti politici per offesa al comune senso del pudore, con il film sequestrato e comandato alla distruzione; l’accusa clericale è esplicita: “esasperato pansessualismo fine a se stesso”. Dunque un film ateo e materialista nella sua ricercata rappresentazione erotica del nulla, della nichilista volontà di morte del protagonista, già “zombie” dalla prima inquadratura nella ispirata recitazione di Brando, mai così grande. Quanto di più insopportabile per il Santo Padre, appena crollato nelle (illusorie) aspettative “progressiste” dopo la condanna della pillola nella Humanae Vitae [5].

Pasolini, a proposito del Decameron (1971) e delle altre due pellicole della trilogia, aveva detto: “I critici, rimuovendo il sesso dai miei film, ne hanno rimosso il contenuto e li hanno trovati vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le teste che non volevano capire” [6]. Il passo successivo è Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). L’autore non vedrà il sequestro e non parteciperà alle discussioni, scompare brutalmente assassinato la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Ninetto Davoli racconterà: “Pier Paolo era tutto entusiasta di fare le Centoventi giornate di Sodoma. Diceva: «So’ cazzi loro, gli faccio vede’, altro che Ultimo tango a Parigi!». Si divertiva anche a pensare l’effetto che il film avrebbe fatto” [7].

Il Decameron e Ultimo tango sono tra i maggiori incassi italiani di tutti i tempi, il film di Bertolucci è stato visto da 14 milioni di spettatori paganti. Salò è, fino ad oggi, il punto più estremo raggiunto dal cinema nella rappresentazione dell’anarchia del potere, un film “estremamente erotico, ma invece che sulla linea della tolleranza e della liberalizzazione del sesso, sulla violenza inaudita, sulla provocazione” [8], i protagonisti sono un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e … un monsignore.

Il successo di questo cinema è dovuto a due spinte diverse e convergenti determinate dalla diffusione capillare della televisione [9]: da una parte, lo scollamento crescente della programmazione RAI, monopolista fino al 1975 e in salde mani DC con il fanfaniano Ettore Bernabei, dalla realtà quotidiana che spinge il pubblico a cercare nuove emozioni in sala; dall’altra, la risposta a questa domanda di un industria cinematografica in crisi (per diversi motivi), che approfitta del momento per offrire prodotti sempre più sul confine del “visibile” e sempre più spesso appena un poco oltre. Sull’autostrada aperta da Bertolucci e Pasolini, e pure Ferreri, si cerca lo scandalo, la censura e il V.M. 18, in una sfida ininterrotta a tutti i livelli, dove la fa da padrone il cinema di genere. Dopo la commedia erotica all’italiana, con le sue divagazioni boccaccesche, in caserma e alle grandi manovre, poi a scuola, con i Pierino, le liceali, le insegnanti e le ripetenti, l’ultimo traguardo è nel genere horror, gore, splatter, con il sottogenere “cannibalico”. È questo il caso di Cannibal Holocaust (R. Deodato, 1980) e Antropophagus (A. Massaccesi [10], 1980) i due più celebri prodotti del filone, incuranti programmaticamente di ogni limite. Con Antropophagus il regista approda alla profanazione estrema della maternità: l’uomo-mostro strappa dall’utero d’una delle protagoniste incinta il feto a mani nude, sventrandola e poi divorando il corpicino. Tutto ottenuto con un coniglio spellato e un budellino per simulare il cordone ombelicale. Oggi disponibili in DVD da collezione, film come questi costituiscono la merendina quotidiana per uno stuolo di ragazzini e ragazzine che ne vivono l’esperienza in gruppo, come un rito di iniziazione, durante gli anni delle scuole medie, con buona pace degli oratori vuoti.

Dunque, abbattute tutte le barriere, il cinema ha intercettato la rivolta e la sottrazione del pubblico a quella pedagogia del nascondere che conduce, si è visto come esito ultimo, agli incassi stratosferici o ai confini più estremi – “no limits” dice altrove una nota pubblicità postmoderna – dei generi “vietati” (erotico e orrore nelle innumerevoli declinazioni, contaminazioni e ibridazioni). Una tenzone tra proibizione e desiderio che ha visto uscire vincitore il cinema, il voyeurismo ontologico del pubblico che il cattolico Alfred Hitchcock, educato alla verga dei gesuiti, conosceva così bene (si riveda l’estremo e bellissimo Frenzy, 1972). Resta perciò sotto accanimento terapeutico quell’ultimo tabù da difendere: il dio (è) morto di cui, direbbe Foucault, “non si deve dire la verità”.

La resistenza su questo punto è anche la fotografia degli ultimi 20 anni del XX sec. Gli scontri tra film e censori ruotano, ormai, definitivamente attorno alla difesa dell’ortodossia e alla pretesa d’intoccabilità del multiforme dio cattolico e di sua madre (sic!), in virtù della loro Verità Universale. Il primo a farne le spese è Life of Brian (T. Jones, 1979) che uscirà in Italia come Brian di Nazareth con 10 anni di ritardo rispetto al resto del mondo. Il peccato mortale dei Monty Python è “il riso”, quello stesso di Franti elogiato da Eco nella sua rilettura del Libro Cuore e che diventerà protagonista del best seller Il nome della Rosa. I motivi che animano Jorge da Burgos nel romanzo, sono i medesimi ancora attivi 800 anni dopo nell’opposizione clericale al genio satirico del gruppo inglese. Poi tocca a Godard, Scorsese e Ciprì & Maresco, per Totò che visse due volte (1998). Sbloccato in appello, al film era stata proibita la distribuzione dalla Commissione censura, con un “vietato anche agli adulti”, perché “esprime un esplicito atteggiamento di disprezzo verso il sentimento religioso in generale e quello cristiano in particolare, disconoscendo al sacro e alle sue componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio a esso riconosciute dalla comunità”. La condanna chiarisce inoltre che “il diritto di esprimere opinioni dissacratorie o miscredenti trova un limite non superabile nel rispetto dovuto al sentimento religioso della collettività”. I due autori rispondono: “Non ci è stato chiesto di tagliare le scene, a loro il film ha fatto schifo ed è assurdo che si torni al passato, al clima di vent’anni fa che mandò al rogo Ultimo tango a Parigi. Ci chiediamo se in un Paese occidentale e moderno come il nostro abbia ancora senso l’esistenza di una commissione che decida cosa si può vedere e cosa si deve vietare. È chiaro che la religione in Italia è l’ultimo dei tabù” [11]. Si vorrebbe fissare – per legge dello Stato – “un limite non superabile” nella rappresentazione delle cose religiose, in modo da sottrarre al giudizio dei cittadini adulti la visione o il godimento di un’opera d’arte, della quale alcuni superuomini obbedienti alla legge di uno Stato estero hanno decretato la censura assoluta, in nome di un Dio muto da 2000 anni.

Nel frattempo, fra Totò & Macario e Ciprì & Maresco, la Chiesa s’è riorganizzata. Perduto il controllo diretto, la nuova strategia ecclesiastica è pienamente postmoderna e situazionista, come si evince dall’elezione di Wojtyla, il primo popestar della storia cattolica. Tra canzone e cantante, si punta tutto su quest’ultimo e il cattolicesimo di base, unica voce critica sopravvissuta, seppur con le ossa rotte, denuncia come e dove può la deriva papolatrica che segnerà gli anni del lungo pontificato. Tra un tour mondiale e l’altro, con un apparato spettacolare degno dei Pink Floyd, dietro alla facciata di un barocchismo ormai disneyan- hollywoodiano, con trovate geniali quali la pallottola dell’attentato incastonata nella corona della madonna di Fatima o la passeggiata in Ferrari cabriolet, la “postmodernizzazione” del sistema vaticano opera indisturbata l’occupazione dello spazio pubblico, scavando come la “vecchia talpa” – imparano tutto! – le gallerie franose sotto il sempre più sottile lastricato dello Stato laico. L’apparato della teologia economica si dota di nuove armi e raffina le vecchie, adeguandole alle nuove esigenze; lungo è l’elenco, ma le prime due organizzazioni sono esemplari: CL e Opus Dei. L’affiliazione politica dei laici (cioè senza abito talare) attivi nelle centrali del potere finanziario, industriale, politico e culturale, in parlamento, nelle banche e nella televisione, è la via virale per contaminare rizomaticamente – imparano proprio da tutto! – la Res publica, infettandola del morbo clericale, fino al controllo completo. Per averne una visione esemplificativa, si deve guardare alla fantascienza raffinata di Star Trek. I nemici più pericolosi della Federazione sono i Borg, il loro motto è: “Voi sarete assimilati, la resistenza è inutile”. La censura diventa così il discorso pubblico stesso. Come? Il virus diventa anticorpo. Geniale e agghiacciante, solo John Carpenter e George Romero hanno sfiorato tanto. Tuttavia, nella versione vaticana, il film dell’orrore lo vediamo ogni giorno scorrere davanti ai nostri occhi.

Il tabù di dio, che è morto ma si deve dire che è risorto dalle macerie dell’identico (questo è il ritornello mandato a memoria dai corifei), si avvale di una cintura sanitaria dispiegata nella televisione per governare l’ordine del discorso. Dal prete telepredicatore all’ultimo presentatore sportivo devoto di padre Pio, dalla star della prima serata al documentario sulle suorine missionarie in Mozambico, dalla fiction su Pio XII alle sitcom con le famiglie allegre fino all’hegeliano trionfo dei preti-poliziotto, ogni ambito, ogni istante dei palinsesti televisivi è uno spazio dove s’insinuano “dio”, la fede, i miracoli, i misteri, la morale, la teologia. Apoteosi della censura “a cordone sanitario” è il talk show sui grandi temi del momento: eutanasia, fine vita, contraccezione e fecondazione, il bosone di Higgs [12], ecc. Lo spettacolo simulacro della discussione, dove il contesto del format – il suo statuto linguistico – è come lo 0 della roulette per il casinò; con in più, per l’Italia, la menzogna ontologica e i vari Bruno Vespa, prima che giornalisti assistenti al soglio pontificio. Sicché, l’ingenuità o il narcisismo (e spesso il lucro di vendere i propri libri a un pubblico notoriamente sempre autoreferenziale) degli ospiti “atei” è disarmante, accerchiati da uno stuolo di cialtroni da bar Sport che fanno scomparire il Bruno Cortona del Sorpasso, azzannati dal teologo di turno, appaiono (sono?) degli illusi e perciò spacciati. Davanti alle dichiarazioni degli immancabili e ineffabili Coda, Fisichella, Forte & Co., il “generale tempo televisivo”, come il “generale inverno” che schiantò l’armata di Bonaparte, vince a mani basse al primo round per K.O. La teologia è come il gonnellino nero di Eta Beta, l’oggetto giusto al momento giusto e il malcapitato oppositore si trova avviluppato da una rete inestricabile di questioni contenute in un’affermazione di 10 secondi, che richiedono per ogni secondo due ore di spiegazioni. Un effetto Fantozzi davanti al megadirettore galattico. E questo perché il pubblico, come si evince da decenni ad ogni rilevamento statistico e come riassume ottimamente nel suo librino divulgativo Tullio De Mauro [13], è dal punto di vista delle abilità linguistiche in condizioni terrificanti per un Paese moderno; una realtà verificata dal fatto che quando Berlusconi disse che le sue tv parlano a spettatori mentalmente di undici anni e quindi crederanno ai suoi miracoli e lo voteranno, disse la verità (poi mai più).

Un film “ateo”, posto che sia sulla carta anche un “bel film”, ha bisogno di un produttore. Il denaro può venire da due rubinetti: quello privato e quello pubblico. Finanziare un film, per chi ne fa un’industria, significa domandarsi quanto incasserà, e nessun produttore foraggia come fosse Mecenate un film “ateo” in un paese come l’Italia (al massimo qualche volgarità anticlericale). Il finanziamento pubblico (che è comunque una quota dei costi largamente insufficiente) non va certo spiegato, è sin troppo facile capire come e dove finisce una sceneggiatura che supera quel “limite”. L’alternativa è l’opzione di Nanni Moretti, che autoproduce (la sua Sacher e Fandango di Procacci) e coproduce con la Francia (Le Pacte e France 3 Cinema).

Il cinema, sommo prodotto dell’industria culturale nella società di massa, è intrattenimento (c’è ampia scelta, anche non andarci) e deve rivolgersi a un pubblico quanto più largo possibile; inoltre, non sta ai produttori domandarsi perché gli spettatori vanno a vedere certi film piuttosto che altri; la domanda di cinema “ateo” è una domanda che può provenire solo da un pubblico “adulto” – che non compete direttamente al cinema formare – e non è questo, come argomentato sin qui, il caso della medievale Italia.

Note
[1] Dichiarazione durante un’intervista rilasciata a Maureen Cleave, pubblicata dal quotidiano England’s Evening Standard il 4 marzo 1966.
[2] Centro Cattolico Cinematografico, nato nel 1935 come sorta di “indice dei film proibiti”. La questione del cinema fu affrontata direttamente da Pio XI nelle encicliche Divini illius magistri (1929) e, più decisamente, dopo l’affermarsi del sonoro, nella Vigilanti cura (1936). Il CCC pubblica i volumetti annuali delle Segnalazioni cinematografiche dove le opere erano (e con qualche aggiustamento sono tutt’oggi) così classificate: I – film positivo; per qualsiasi genere di pubblico. II – film che per la particolarità dell’argomento trattato richiede … spettatori moralmente e culturalmente preparati. III – film moralmente discutibile o ambiguo … che richiede una più consapevole e responsabile capacità di giudizio. IV – film che per idee o tesi o scene, è gravemente offensivo della dottrina e della morale cattolica. Sotto la mannaia del giudizio IV cadono tra l’altro “i film di violenza, di alienazione, di agnosticismo, di visione materialistica ed edonistica della vita”; e quelli “contrari alla concezione cristiana dell’amore, del matrimonio e della famiglia”, risultando perciò vietati a tutti.
[3] Fortunatamente non tutte le copie hanno subito il trattamento, la scena infatti è oggi visibile e diverte ancora.
[4] Si noti come, al di là della differenze ideologiche del momento, il basso continuo tra la canzone “leggera” e quella “politica” sia in realtà il medesimo: “La vita è così / tu quando non hai / puoi avere di più / e dopo che hai / ti accorgi che tu / fermarti non puoi / e vuoi quel che vuoi” (Patty Pravo, Il paradiso, di Mogol, Battisti, 1969); “E no ai burocrati e ai padroni! / Cosa vogliamo? Vogliamo tutto! / Lotta continua a Mirafiori / e il comunismo trionferà” (Pino Masi, La ballata della Fiat).
[5] Lettera enciclica di Paolo VI pubblicata il 25 luglio 1968.
[6] L. De Giusti (a cura di), Il cinema in forma di poesia, Pordenone 1979.
[7] Cit. in F. Faldini e G. Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano (vol. III), Milano 1984.
[8] Intervista per Romagiovani, n. 1, novembre 1974.
[9] Nel 1954 gli abbonati sono 24.000; nel 1955 passano a 350.000; nel 1965 sono già saliti a 6 milioni.
[10] Firmato con lo pseudonimo Joe D’Amato.
[11] In “La Repubblica”, 2 marzo 1998. In seguito alla vicenda, pochi giorni dopo Veltroni firma la proposta di revisione della legge del ’62. Il 22 gennaio 2004, diventa il decreto legislativo n. 28. Nel 2010, Bondi inserisce il divieto ai minori di 10 anni.
[12] Noto anche al grande pubblico come “la particella di Dio”, il bosone di Higgs sarebbe capace di conferire la massa alle particelle e garantire l’efficacia del modello standard.
[13] Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Bari 2004.

* Carlo M. Pauer, filosofo e antropologo, studia i mass media e il sacro, il cinema e la memoria culturale. Saggista, documentarista e autore televisivo.