di Andrea Cavazzini
Invitato a dire qualcosa sul rapporto tra scienza e scientismo, ho considerato opportuno evitare le disquisizioni lunghe e noiose e riportare le parole di un “classico” della letteratura, non solo assolutamente competente in materia, ma anche leggibile, chiaro e preciso. Aggiungo che le sue posizioni mi sembrano nient’affatto datate e forse più istruttive oggi di quando furono formulate.
Nel 1967, Italo Calvino rispondeva ad Anna Maria Ortese inquieta della conquista tecnica dello spazio a opera delle superpotenze industriali e militari, le quali avrebbero presto ridotto lo spazio, temeva la scrittrice, a “uno spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore” [1]. Calvino rispondeva che, certo, “Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi di una nuova supremazia terrestre” mercé la quale “i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli” [2]. Ma, aggiungeva, sebbene ciò importi poco o punto ai potenti della Terra, queste imprese “sono obbligate a valersi del lavoro di altre persone che invece s’interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna”. Il nefasto sfruttamento industriale e militare dell’attività scientifica è un fatto, ma lo è anche la persistenza, entro strutture sociali finalizzate alla potenza e al dominio, di un genuino nucleo di “appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza”. La conoscenzaautentica rappresenta, secondo Calvino, una “uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, la definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano”; e proprio per questo motivo “riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nella vita di tutti” [3].
La conoscenza scientifica dunque, se è autenticamente tale, è un fatto sociale, culturale e antropologico globale, che rappresenta un’appropriazione sui generis della realtà, non per fini utilitaristici, ma, appunto, secondo una finalità e un atteggiamento propriamente conoscitivi. In cosa consistono però, più precisamente, questi fini? “Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di piùnella luna, vuole che la luna dica di più. (…) Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiosa. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…” [4]. Non ci si stupirà che la dimensione culturale globale della conoscenza quale Calvino la intende coinvolga sia le scienze che le lettere. Ma vediamo meglio come opera la conoscenza in Galileo: la luna, nella sua prosa, diventa un oggetto nuovo, reso presente alla coscienza, “aggredito” e reso manifesto, tramite nuovi modi di presentare e manifestare – modi fisico-matematici eletterari-espressivi – in opposizione e rottura con le immagini abituali, inerti, con i cliché sensibili o intellettuali che ripropongono la realtà come un accumulo di fatti ottusi.
Calvino negava che la scienza consista in un linguaggio di puri fatti, costruito solo per significare in modo trasparente delle “cose”già date e costituite: la scienza è “una continua messa in discussione delle proprie convenzioni linguistiche” [5] e tale attività di ricostruzione del modo in cui l’esperienza è resa possibile dai nostri mezzi linguistici e sensoriali è già presente nel testo di Galileo: “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. [Con Galileo] la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci si innalza in un’incantata sospensione” [6]. Commento letterario che dice di più di mille banalità scolastiche (“calcolo ed esperienza”) sul processo di ideazione in fisica-matematica: Galileo assorbe gli oggetti sensibili in un sistema di relazioni astratte e conferisce alle relazioni astratte una nuova evidenza sensibile. È lo stesso doppio movimento che è alla base degli esperimenti mentali tramite cui Galileo immagina un mobile ideale in moto rettilineo uniforme (inesistente nella realtà empirica), o Einstein si “proietta” su di un fotone per afferrare il limite della velocità della luce o ancora si immagina percorrere i campi magnetici sospeso nello spazio …
Questa appropriazione del reale che chiamiamo conoscenza, dunque, a cosa serve? A quali impulsi corrispondono le sue operazioni? Si direbbe che essa consista innanzitutto nel produrre una realtà nuova, nell’indebolire o dissolvere i limiti imposti da ciò che è semplicemente dato: la scienza nel senso di conoscenza è un processo di liberazione dal peso della realtà immediata, dalla tirannia del fatto bruto, dall’imporsi cieco del dato non padroneggiato, la cui oggettività morta la scienza sostituisce con una nuova oggettività attraversata e ricostruita dalle operazioni costruttive e razionali dell’intelligenza. In questo, la scienza risponde a un bisogno atavico, radicato nelle profondità della storia e preistoria umana e che si manifesta con la stessa forza in forme culturali non-scientifiche – la letteratura certo, ma anche credenze arcaiche: “Alla precarietà dell’esistenza della tribù – siccità, malattie, influssi maligni – lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà. In secoli e civiltà più vicini a noi, nei villaggi dove la donna sopportava il peso più grave d’una vita di costrizioni, le streghe volavano di notte (…). Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. È questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua” [7]. Non solo la letteratura, però, anche la scienza, se ricordiamo le osservazioni sulla “levitazione”, la “sospensione” e l’“innalzamento” di Galileo. La scienza è una forma di questa ricerca da parte dell’umanità di una liberazione rispetto al peso di una realtà opaca, solamente patita e sofferta, inaccessibile alla trasformazione razionale e alla libertà del volere. Un’esigenza e un’esperienza dunque, non certo un semplice accumulo di conoscenze, ma un “dispositivo” di appropriazione del reale le cui radici attingono alle più arcaiche tendenze della specie: “Credo che i nostri meccanismi mentali si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto” [8]. Convertire l’assenza in presenza e la presenza in assenza, smaterializzare il dato immediato e rendere immediatamente intuibile l’astratto: questa è la dimensione antropologica profonda delle procedure scientifiche, una tra le tante forme che hanno incarnato la tensione tra il genere umano e le sue condizioni di esistenza.
Allora, dato per buono tutto ciò, cos’è lo scientismo? Credo che si dovrebbe evitare di ridurlo ad una semplice degenerazione della giusta importanza attribuita alla scienza. Lo scientismo contemporaneo assomiglia piuttosto al contrario esatto dell’atteggiamento conoscitivo che abbiamo cercato di delineare attraverso le parole di Calvino: esso è un culto del semplice fatto, la riduzione di ogni possibilità alla realtà immediata e non superabile, la convinzione che le azioni, i pensieri, gli eventi possibili siano integralmente oggettivabili, misurabili, prevedibili, in quanto fondati su dati di fatto indiscutibili, su “cose” date una volta per tutte. Lo scientismo quale si manifesta nell’ideologia contemporanea ha poco a che fare con l’effettiva conoscenza scientifica: esso è piuttosto un atteggiamento generale di rinuncia ad un rapporto costruttivo con la realtà cui si preferisce la passività di fronte all’opacità e agli automatismi delle “cose”.
Se si desiderano esempi di questo atteggiamento, se ne troveranno in gran copia in innumerevoli discorsi (e miti) contemporanei: si può citare la ricerca, per ogni sorta di comportamento, di qualche neurone che lo determinerebbe in modo univoco e lineare (qualche anno fa erano i geni ad incarnare questo mito determinista); o la squalificazione di tutte le psicoterapie fondate sulla singolarità clinica del soggetto anziché sulla norma statistica e su presunti fattori organici; o i progetti per individuare le disposizioni innate alla delinquenza nei neonati; o i trattamenti farmacologici per bambini e adolescenti classificati come “iperattivi” (cioè renitenti alla disciplina e all’obbedienza a scuola e in famiglia): questi fenomeni e tendenze molto diffusi nelle società contemporanee sono in genere privi di un autentico statuto scientifico, funzionano solo come tecniche di disciplina sociale; essi legittimano inoltre l’immagine di un uomo prigioniero dei più rigidi determinismi, di cause ferree e al tempo stesso univoche e trasparenti, di cui non si può modificare il quadro globale ma su cui si può intervenire “a spizzico” solo in vista di un adattamento ancora più netto e rigido alla realtà che si suppone data e immodificabile. Il caso forse più vistoso oggi è quello delle presunte “leggi ferree” dell’economia e/o dello sviluppo tecnologico, cui individui e gruppi umani dovrebbero piegarsi e adattarsi fino all’autodistruzione – vecchi fantasmi del darwinismo sociale e del malthusianesimo che ritornano in forze, con fondamenta razionali altrettanto solide di quelle dell’oroscopo, ma più pericolosi di quest’ultimo, e con una visione delle condotte umane nettamente più rozza e semplicistica. A corollario di ciò, un aspetto anch’esso piuttosto vistoso oggidì: l’idea che le decisioni cruciali sulla vita di individui e collettività spettino a coloro che possiedono il Sapere a proposito delle “cose” e delle loro leggi, e che costoro possano e debbano imporre a tutti le giuste forme di adattamento alle strutture insuperabili della realtà.
Tutto questo è “scientismo” e come si vede prescinde da qualsivoglia conoscenza scientifica – ad esempio, da lunga pezza le scienze della vita “sanno” che geni e neuroni svolgono funzioni precise solo all’interno di un organismo, e che quindi mappare questi due presunti livelli fondamentali per ricostruire le cause del comportamento è una vana chimera (e non parliamo delle “leggi” economiche di cui sarebbero depositari gli esperti del FMI: si vede bene, e tutti i giorni, cosa valgano!).
Ma se lo scientismo esprime la capitolazione della volontà di fronte alla realtà data, nessuno, pur scientificamente aggiornatissimo, ne è immune – nemmeno tu, caro lettore de L’Ateo, che hai avuto la cortesia di guardare in queste righe. Ed è contando sulla tua cortesia che credo opportuno menzionare la corda in casa dell’impiccato. Infatti, campeggia sul sito dell’UAAR un articolo dedicato ad uno dei più pittoreschi miti scientisti contemporanei: i test di intelligenza, cui Università, imprese e cultura di massa tributano una devozione incrollabile benché opere classiche di critica scientifica ne abbiano evidenziato l’inconsistenza teorica e pratica (nonché qualche spiacevole solidarietà con il razzismo e l’eugenetica [9]). L’articolo in questione [10] riporta che, secondo uno studio “realizzato da ricercatori dell’Università di Rochester”, “gli studi sull’intelligenza mostrano come i non credenti abbiano risultati migliori dei credenti”. L’articolo ammette certo che simili studi possano suscitare un po’ di scetticismo, ma anziché chiedersi perchétale scetticismo sarebbe legittimo, si tranquillizza ricordando che è apparso su una rivista ad alto “fattore di impatto” (cioè citata molto spesso da altre riviste e perciò più attendibile, secondo i criteri in voga nelle università anglosassoni e ormai mondiali); poi continua imperturbabile a parlare di “correlazioni positive” tra l’incredulità e i requisiti di una “normale intelligenza” (i quali requisiti poi coincidono stranamente con il profilo di un membro medio delle classi medioalte d’Europa occidentale – vertice e paragone della normale intelligenza, come ciascun sa), dell’enigma dei poveri Cechi, poco intelligenti benché atei, e dell’ottimo punteggio degli Scandinavi, secondo “tantissimi indicatori, a cominciare dall’Indice di Sviluppo Umano compilato dall’Onu”. Si conclude assicurando che meno religione conferisce un “vantaggio competitivo”, nozione completamente ambigua in teoria dell’evoluzione qui rapidamente trasposta alla “valutazione” di individui e intere società.
Cosa manca in queste poche righe dei fantasmi dello scientismo contemporaneo? Fede nel sapere degli “esperti” (l’impact factor, l’ONU …); pretesa di misurare comportamenti e attitudini; non manca nemmeno il darwinismo sociale … Li ritroviamo tutti demoliti nel libro citato di Gould, il quale mostra che: (i) l’intelligenza non è un fenomeno precisamente circoscritto, né tantomeno quantificabile, dunque è impossibile attribuirla o negarla in modo univoco; (ii) è impossibile misurare l’intelligenza su una scala unidimensionale, in modo da comporre una gerarchia lineare; (iii) i risultati forniti dai test sono artifici statistici, in particolar modo l’analisi dei fattori che occulta la differenza tra correlazioni statistiche e rapporti causali (la nostra età aumenta costantemente di anno in anno, contemporaneamente all’aumento del prezzo degli alimenti, ma non c’è nessun rapporto reale tra questi due fattori, la cui correlazione è quindi arbitraria – così come avviene per i fattori invocati nei test del QI).
Si aggiungerà un esperimento mentale proposto da Enzensberger: prendiamo un ricercatore di Stanford, Londra o Berlino (o Rochester) e facciamo valutare la sua intelligenza a un inuit della Groenlandia, un indio amazzonico o un marinaio polinesiano. Egli sarebbe giudicato più o meno intelligente in base alla capacità di distinguere varie specie di piante, o riconoscere impronte impercettibili sul terreno, o di captare correnti sottomarine [11] – e quindi risulterebbe estremamente stupido, anche se i suoi testatori, in genere analfabeti, non potrebbero far validare i loro risultati su riviste dopate dal metodo mafioso dell’intercitazione (o “impact factor”). Ciò suggerisce che “sotto” i test dell’intelligenza non c’è … l’intelligenza, ma solo i pregiudizi dell’autore del test, che proietta su presunti dati oggettivi e misurabili le proprie abitudini e attitudini trasformate in criteri assoluti della “normale intelligenza”, e in genere di una vita buona, desiderabile e ricca. Fortunatamente, se quanto riteneva Calvino è vero, la scienza autentica è molto più creativa di queste corte vedute e il suo scopo consiste appunto nell’ampliarle – nel vedere il mondo non come uno specchio della propria limitata forma di vita, ma come un fotone, come un pianeta, come un corpo in caduta libera (e come un’ameba o una medusa, e come un inuit o un indio, se aggiungiamo alla fisica-matematica la biologia e le scienze umane). Un modo di vedere che si oppone all’adattamento al presente celato sotto l’arroganza dei miti del progresso: “Questa presunzione (…) va di pari passo con la convinzione che l’epoca attuale rappresenta l’apice del divenire umano (…). Quest’idea è (…) assurda sotto il profilo dell’evoluzione. Dopo tutto, non è un mistero che le basi essenziali per la sopravvivenza dell’Homo sapiens, dall’agricoltura all’allevamento del bestiame alla matematica e alla scrittura, sono già state poste migliaia di anni fa” [12]. Tali trasformazioni del nostro stare-al-mondo furono dovute ad un’intelligenza che si prolunga nell’attitudine scientifica, anche se non potranno mai essere misurate o definite: bisogna sperare che qualcosa di quelle capacità creatrici sopravviva al grande diluvio della realtà fattuale cui ci condanna, tra le altre cose, il nostro gusto delle misure e dei “fattori di impatto”.
Note
[1] Corriere della Sera, 24 dicembre 1967.
[2] I. Calvino, “Il rapporto con la luna” (1967), in Id., Una pietra sopra(1980), Mondadori, Milano, 1996, p. 221.
[3] Ibid.
[4] Ibid., pp. 221-222.
[5] I. Calvino, “Due interviste su scienza e letteratura” (1968), in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 224.
[6] Ibid., p. 226.
[7] I. Calvino, Lezioni americane (1985), Mondadori, Milano, 1996, p. 33.
[8] Ibid., p. 85.
[9] Impossibile riassumere la storia e la critica dei vari test del QI: si vedano Hans- Magnus Enzensberger, Nel labirinto dell’intelligenza, Torino, Einaudi, 2008 e soprattutto il classico Stephen J. Gould, Intelligenza e pregiudizio(1981), Milano, il Saggiatore, 2008, opera di uno scienziato poco scientista che smonta il dispositivo alla base delle pretese di misurare l’intelligenza (e mostra perché tali pretese convenissero così bene alle politiche sociali reaganiane).
[10] (http://www.uaar.it/news/ 2013/08/16/intelligenza-degli atei/?utm_source=rss&utm_me dium=rss&utm_campaign=intelli genza-degli-atei).
[11] Hans-Magnus Enzensberger, op. cit., pp. 50-51.
[12] Ibid., p. 54.