di Francesco D’Alpa
Nel momento in cui lo abbiamo scelto, il tema monografico di questo numero de L’Ateo ci sembrava abbastanza autoesplicativo: “Religiopatie”, ovvero psicopatie e sociopatie a carattere primitivamente religioso, e dunque indotte da ogni particolare religione.
Un inevitabile giro di orizzonte (innanzitutto sul WEB, come oramai è quasi d’obbligo) ha tuttavia prodotto un risultato sorprendente: il termine, che sembrava del tutto ovvio, anche se declinato nelle principali lingue, è quasi inesistente. Non lo si trova nei dizionari e non lo si trova nelle enciclopedie. Lo riporta, come proposto neologismo, quasi solo la “Conscienciopédia” (“Enciclopédia Digital da Conscienciologia”), con la seguente definizione “Parapatologia della coscienza causata dalla religione e dai suoi dogmi” ed i relativi sinonimi “Infermità religiosa”, “Gurulatria”, “Filosofia della credenza”, “Virus della religione” [1].
Fra il poco recuperabile su Internet, troviamo alcune interessanti definizioni proposte da un utente (che si presenta con lo pseudonimo di Jak Tak e ritiene impropriamente di avere coniato il termine nel 2011): “Religiopatia: disordine della personalità caratterizzato da mancanza di coscienza morale, per il quale un individuo utilizza le proprie credenze religiose per creare un’illusione di giustizia o innocenza; condizione sociale caratterizzata da atti immorali ed antisociali compiuti per guadagno o per gratificazione personale adoperando la religione come giustificazione”; “Religiopatico: persona senza coscienza morale che usa la religione come giustificazione per comportamenti antisociali; […] una persona che usa il balbettio religioso per rappresentare falsamente se stessa come onesta; un ipocrita religioso; un sociopatico che usa la religione per giustificare il proprio comportamento sociopatico” [2].
Sintetizzando questa e altre rare occorrenze in rete, si può affermare che di fatto il termine è utilizzato solo in tre accezioni: religiopatia del terrorismo, religiopatia dello Stato confessionale, religiopatia come malattia trasmessa socialmente (MTS). Accennerò brevemente alle prime due forme per dare poi ampio spazio alla terza, di maggiore interesse.
In un articolo pubblicato sul Guardian del 15 settembre 2001, riprodotto sul n. 4/2001 de L’Ateo (“Missili deviati dalla religione”) Richard Dawkins ha affrontato il tema del terrorismo suicida, imputandone la gravità e l’imprevedibilità al suo stretto legame con il cieco fanatismo islamista, come descritto in questo passaggio: “se c’è un numero considerevole di gente che si convince o viene convinta dai suoi preti che morire da martire equivale a premere il bottone per l’iperspazio ed essere proiettati attraverso un buchino in un altro universo, allora questo mondo diventa un luogo molto pericoloso. Specialmente se si crede che l’altro universo rappresenti la salvezza paradisiaca dalle tribolazioni del mondo reale. Aggiungi infine promesse sessuali sinceramente credute, anche se ridicole e avvilenti per le donne, e non ci sarà da sorprendersi se giovanotti frustrati e ingenui chiederanno a gran voce di essere scelti per missioni suicide”.
Ma per quanto il concetto di religiopatia appaia del tutto chiaro in questa descrizione, sembra che un solo autore abbia usato esplicitamente il termine in questa accezione. Mi riferisco allo scrittore Mohammed Moulessehoul (n. 1955), un ex ufficiale algerino che attualmente vive in Francia, che sotto lo pseudonimo femminile di Yasmina Khadra ha criticato in numerosi romanzi di successo le violenze che hanno insanguinato la sua patria durante gli anni della guerra civile (che hanno visto contrapporsi una classe politica spietata ed un fondamentalismo feroce) e che si è occupato in seguito degli orrori dell’Afghanistan dei Talebani, in particolare nel romanzo “Les Hirondelles de Kaboul” (“Le rondini di Kabul”) del 2002. In questa ultima opera in particolare, anziché avvalersi di una chiave di lettura geo-politica degli eventi, lo scrittore algerino ha preferito porre l’accento sul fanatismo religioso di matrice islamica: la vera radice di un problema che minaccia tutte le nazioni e che a suo dire l’Occidente coglie solo in superficie.
Nella società religiopatica talebana, infatti, tutti sono subordinati all’arbitrio dei religiosi; le donne sono disprezzate e tenute di fatto agli arresti domiciliari; pensare è un reato, in quanto ogni forma di scetticismo indurrebbe gli uomini a sfidare le regole ed il potere. Il perfetto talebano è affetto da religiopatia in quanto nega i fatti, impone regole sociali basate sull’interpretazione letterale di dottrine arcaiche, e ritiene moralmente giustificato uccidere chi la pensa diversamente, giacché è convinto che tale imperativo provenga da Dio stesso.
Un secondo uso del termine religiopatia lo troviamo in alcuni forum internettiani, nei quali si critica l’attuale assetto della società brasiliana, nella quale il cristianesimo evangelico, diffondendosi con carattere quasi epidemico, ha contagiato a tal punto le istituzioni (in un sordido connubio fra i baroni della fede ed il potere economico) da dar luogo a quello che senza mezzi termini i suoi critici definiscono oramai “Stato religioso” con connotati inquisitori, che preferisce mantenere il popolo nell’ignoranza e nella letargia mentale, apparentemente appagato all’interno delle sue tradizioni (il calcio, il carnevale), e che ha ben chiaro come l’informazione e l’istruzione siano i maggiori antagonisti di ogni religiopatia.
Questi due aspetti della questione “religiopatia”, per quanto degni di considerazione, sono tuttavia alquanto distanti da quello che era il nostro primitivo intento redazionale, ovvero evidenziare le distorsioni (e le indebite interpretazioni) dello sviluppo psicologico e le sofferenze individuali direttamente indotte dalla ideologia e dalla prassi religiosa. Non che manchino dei riferimenti culturali: la nevrosi religiosa descritta da Freud, ad esempio, o le fenomenologie a carattere religioso così abbondanti nella manualistica psichiatrica (allucinazioni a contenuto religioso, comportamenti di tipo ossessivo-compulsivo spesso a carattere autolesionista, stati cosiddetti teopatici, ecc.). Ma in questi casi è facile, per i difensori della religione, obiettare che tali fenomenologie sono epifenomeno di una patologia sottostante che della religione e della religiosità ha solo l’apparenza, e che solo una mente malata può manifestare quella che impropriamente definiremmo religiopatia, che con una sana religione non avrebbe alcun rapporto di causalità diretta.
A nostro giudizio, non è esattamente così. Occorre, infatti, esaminare la questione partendo da altri presupposti ed in particolare da una efficace definizione di religiopatia, quale ad esempio “credenza in opposizione alla evidenza”, laddove la fede può essere invece definita (ed in definitiva “tollerata”), come “credenza in assenza di evidenza” [3].
Per esporre adeguatamente il concetto occorrono tuttavia alcune premesse. La religiopatia, considerata in quest’ultima accezione, farebbe parte delle cosiddette “Malattie Trasmesse Socialmente” (MTS), secondo lo schema della memetica.
È noto come il concetto di “meme” sia stato introdotto da Richard Dawkins per illustrare come gli umani perpetuano la propria cultura quasi analogamente a come i geni perpetuano gli organismi (anche se il concetto di “meme”, ancora adoperato nel mondo scientifico secondo il significato originale, è passato purtroppo erroneamente nell’uso generale come una sorta di sinonimo di “idea”). A partire dal concetto di meme, quello di MTS è stato particolarmente sviluppato dal sociologo statunitense Nicholas Christakis [4]. Secondo la sua visione, gli esseri umani non sono semplicemente animali “sociali”, ma piuttosto vivono in network; e molti attributi umani (come tendenza all’obesità, abitudine al fumo, emozioni, idee, felicità, altruismo; ma anche tratti come smania del successo, ossessione per le novità, coazione all’accumulo di beni) sono correlati più che a meccanismi genetici a meccanismi di reciproco contagio anche a lunga distanza (ed anche fra individui che non si conoscono) mediato dai network sociali, la cui struttura ha origini antiche ed è fortemente correlata alla cooperazione fra gli umani.
Ogni nostro pensiero, ogni nostra conoscenza, ogni sistema filosofico è trasmesso socialmente; la nostra stessa identità può essere considerata una costruzione sociale. Tutto ciò è utile a noi e agli altri; ma, purtroppo, con questa modalità, vengono trasmesse socialmente anche le cose inutili o dannose.
Naturalmente, occorre essere prudenti nell’affermare cosa sia utile e cosa dannoso, come dimostrano la storia dell’isteria e quella dell’omosessualità, un tempo considerate malattie mentali ed oggi invece derubricate dai testi di psichiatria. Il caso dell’omosessualità e dell’omofobia, in particolare, fornisce un chiaro esempio: non esiste pressoché alcuna evidenza che l’omosessualità sia una MTS (oramai la si considera un tratto naturale ed il fatto che sembra sia stata largamente praticata nel mondo antico può essere solo una falsa evidenza legata alla sua accettazione sociale), mentre è palese come l’omofobia sia un tratto culturale, che si propaga da persona a persona, da gruppo sociale a gruppo sociale, e dunque una MTS.
Poiché una importante caratteristica delle MTS è il loro esprimersi in relazione al contesto, un omofobo può trattare nel migliore dei modi uno qualunque dei suoi simili, ma il suo comportamento cambia improvvisamente nel momento in cui scopre che costui è omosessuale, pur senza che l’altro abbia evidenziato alcunché di diverso (mentre al contrario un omosessuale è generalmente indifferente all’orientamento sessuale altrui).
Generalizzando, si può affermare che alcune MTS hanno un carattere discriminatorio e di pericolosità sociale (razzismo, sessismo, omofobia e similari), che generalmente si avvalgono di un meccanismo di deumanizzazione dei diversi (laddove i “simili” vengono trattati con normale sollecitudine), e che si diffondono con meccanismi memetici in gruppi sociali sensibili, mentre i fattori genetici hanno poco o nessun rilievo.
Ma torniamo alla religiopatia in senso stretto (intesa nel senso di sociopatia). Come già accennato, chi è affetto da questa forma di MTS pone al centro della sua vita (nel caso dei cristiani) quanto è stato scritto oltre duemila anni fa da un piccolo popolo nomade su temi che vanno dalla cosmologia alla morale. Fra le altre cose egli ritiene che solo il matrimonio possa garantire una lunga relazione sessuale; tramanda insegnamenti e prescrizioni arcaiche in tema di regole sociali; ed arriva a giustificare moralmente anche azioni che ogni società evoluta attualmente giudica come prive di senso (come i riti propiziatori) o all’opposto come criminali (l’omicidio di matrice religiosa o razziale).
Per taluni analisti la suscettibilità alla religiopatia può essere considerata una caratteristica tipicamente umana. Ma su questo punto le opinioni sono quanto mai discordi. Se, infatti, anche da un punto di vista evolutivo, va attribuito un grande valore ai rapporti ed all’apprendimento basati sulla fiducia verso i personaggi di riferimento e sul rispetto di ciò che è considerato “verità”, è anche vero che questo affidamento (nel caso che ci interessa, a dei libri “sacri”) non può sottrarsi ad una critica costruttiva (e soprattutto a quella proveniente oggi dalle scienze).
Ma qui viene avanzata una importante ed interessata obiezione: lo scientismo sarebbe anch’esso una MTS, che cerca di combattere la religione con armi memetiche, provocandone un rigetto a priori, senza adeguata confutazione scientifica dei dogmi e delle affermazioni di fede. In realtà, è nostra opinione, le cose non si svolgono esattamente in questo modo. L’esperienza quotidiana ci mostra, infatti, che l’argomento principale che le fedi oppongono agli increduli è la fede stessa, con le sue definizioni autoaffermative. Non a caso, per imporsi, la fede ha bisogno di porre un limite alla conoscenza del reale; ed infatti gran parte dei credenti ha fede in concetti assurdi solo perché non è stata esposta adeguatamente al pensiero scientifico. Da qui l’importanza di opere divulgative quali quelle di Richard Dawkins, Daniel Dennett, Sam Harris o Christopher Hitchens, che mirano proprio a costringere le persone ad interrogarsi sulla rispondenza fra i contenuti della propria fede e le conoscenze del momento.
Ovviamente, negare qualche aspetto della realtà non è necessariamente espressione di un disordine mentale; né lo è opporre resistenza ad un nuovo modo di vedere la realtà (sono gli stessi processi cognitivi a difendere le nostre credenze acquisite). E per taluni è meno importante avere conoscenze scientifiche piuttosto che principi morali, qualunque sia il “credo” su cui si fondano. Ma il limite del religiopatico viene certamente superato quando la credenza pretende di resistere ad una assoluta evidenza, come nel caso delle teorie sull’età della terra; siamo oramai certi che ammonti ad alcuni miliardi di anni, eppure molti credenti fondamentalisti ritengono valida la datazione della Bibbia.
La cosa sarebbe nel complesso di scarsa importanza, se non avesse delle pericolose ricadute, come nel caso paradigmatico delle idee sull’anima. Per secoli si è dibattuto sull’istante in cui entrerebbe nel corpo; ma la questione è rimasta quasi accademica, senza un particolare impatto sulla vita pratica delle persone. Da pochi decenni in qua, invece, le pregiudiziali religiose (basate per lo più su antiche formulazioni teologiche) hanno un forte impatto sociale, ad esempio in relazione alla questione se sia o no lecito utilizzare cellule staminali embrionali a fini di ricerca. Atteggiamenti religiopatici similari sono diffusi e pervasivi.
Un’altra obiezione ci coinvolge in modo particolare: l’ateismo, che è anch’esso trasmissibile socialmente (come la religione e la religiopatia), può essere egualmente considerato una patologia ed in particolare una patologia socialmente dannosa? Non è difficile replicare, distinguendo fra comportamento dei singoli individui e dottrine. Nessun dubbio sul fatto che singoli atei o gruppi di atei possono avere prodotto socialmente altrettanto danno che singoli religiosi o gruppi di religiosi. Ma non è probabilmente mai successo che l’ateismo in sé abbia propagandato la violenza, come invece hanno fatto sistematicamente le religioni (il “Deuteronomio” è solo il caso più eclatante).
Detto questo, che sembra l’essenziale come fatto sociale, resta da accennare all’ambito più strettamente psicologico di ciò che ho definito religiopatia. Mi riferisco alle distorsioni dello sviluppo psicoaffettivo, emozionale e sessuale (di cui ci parla Antonio Lombatti, con riferimento al caso della efebofilia e pedofilia favorite dal celibato ecclesiastico), alla intima connessione fra la patologia psichiatrica e certa pratica religiosa (di cui scrive Giuseppe Merenda) ed alla interpretazione in chiave mistica delle manifestazioni psichiatriche presenti nelle vite dei santi (come scrivo a proposito di Caterina Fieschi Adorno).
WEBgrafia
[1] http://pt.conscienciopedia.org
[2] http://humalution.blogspot.it/2011/11/humalution-dictionary.html
[3] Questa definizione e gran parte delle considerazioni qui riassunte sono riprese dal forum www.ilovephilosophy.com