di Dànilo Mainardi, Presidente onorario UAAR
Konrad Lorenz, studiando il corteggiamento di molte specie di anitre, aveva notato che all’interno della parata era presente un qualcosa che assomigliava al comportamento del bere, ma l’acqua non veniva più assunta mentre il collo veniva mosso con ostentata lentezza. Inoltre, al termine del movimento, il becco estratto dall’acqua produceva un grazioso e appariscente zampillo. Insomma: il bere s’era tramutato nel “rito del bere”, con conseguente cambiamento di significato. In origine, infatti, il comportamento aveva, semplicemente e palesemente, la funzione di mandare giù dell’acqua, mentre poi, ad avvenuta evoluzione, quel movimento modificato espressamente serviva per comunicare qualcosa al proprio partner. Il processo evolutivo della ritualizzazione produceva, questo concluse Lorenz, un comportamento stereotipato, a scarsissima variabilità, mirato esclusivamente alla comunicazione.
Il comportamento animale è affollato da comportamenti così. Si pensi, oltre ai corteggiamenti, ai combattimenti (dei cervi, dei galli). Ogni parata, in realtà, è un rito. E, quel che più conta, un rito scritto nei geni, frutto di evoluzione biologica. La ritualizzazione, inoltre, non è solo visiva. Ogni canale sensoriale può esserne coinvolto. Penso, tanto per dire, a quella acustica dei picchi, che in vario modo usano il becco e il legno degli alberi. E si capisce bene, ascoltandoli, se stanno lavorando a scavare per tirar fuori larve o per costruirsi il nido, oppure se, invece, martellano per comunicare qualche informazione. Nel primo caso il suono è disordinato e discontinuo (ricorda il trafficare dell’artigiano), nel secondo è invece ritmica sequenza, variabile solo se varia il messaggio (come se fosse il raffinato suono d’uno xilofono).
Un caso specialissimo, perché un poco ci fa uscire dal puro comportamento istintivo, è quello del cacatua delle palme (Probosciger aterrimus), uno splendido e grosso pappagallo di colore nero con guance nude e rosse dell’Australia e della Nuova Guinea. Ogni maschio di questa specie corteggia la femmina in un modo assai particolare: dopo essersi procurato un corto bastone, tenendolo con una zampa, lo batte ritmicamente sul terreno, di norma dopo essersi messo in posizione prominente. È pertanto un tam-tam anche il suo e, dato che si tratta di un’abitudine presente in ogni individuo maschio della specie, si ha ragione di ritenere che si tratti di un codice istintivo. Ciò non di meno, sia per le differenze tra un bastone e l’altro, sia per dove viene percosso, il suono prodotto dai vari individui risulta assai variabile e riconoscibile. È probabile che, proprio in base a questa variabilità, le femmine possano esercitare la loro scelta sessuale.
Sempre in tema di comunicazione acustica un altro caso, per ciò che c’interessa, assai significativo, è quello dei cosiddetti ratti-canguro (genere Diplodomys), piccoli roditori deserticoli che, per il grande sviluppo degli arti posteriori e, soprattutto, per l’atteggiamento e il modo di muoversi, superficialmente somigliano ai canguri veri. Battendo ritmicamente sul terreno una delle zampe posteriori i ratti-canguro emettono dei segnali che, in codice, comunicano informazioni di carattere minaccioso. Più precisamente, quei ratti possiedono un ben definito territorio e, quando escono dalla tana scavata sottoterra, tamburellando informano eventuali ratti passanti che è conveniente girare alla larga, altrimenti verranno aggrediti. È stato fatto, qualche anno fa, un singolare esperimento ritrasmettendo (la tecnica del playback) registrazioni di questi suoni emessi da vicini di tana o, in alternativa, da individui compiutamente estranei. Si è così potuto dimostrare che i ratti-canguro sanno perfettamente riconoscere, per sottili ma concrete differenze, i codici dei vicini, i “cari nemici”, da quelli degli estranei, che sarebbero i nemici veri. Si curano, infatti, ben poco del familiare tamburellare dei primi, mentre nel secondo caso assumono atteggiamenti allarmati e decisamente aggressivi.
Ho detto, fin qui, di riti e codici per buona parte istintivi, anche se in verità i ratti-canguro e i cacatua delle palme, a una base “a stretto controllo genetico”, aggiungono un tocco di individualismo e di discernimento tra l’altro funzionalmente essenziali. Un ulteriore e notevole passo avanti, a ogni modo, lo scopriremo affrontando il comportamento dei primati superiori.
“Non sono umani ma non sono nemmeno animali”, scrisse anni fa Adriaan Kortlandt, uno scienziato che di grandi scimmie se n’intendeva come pochi. Sia che si tratti di gorilla, scimpanzé o oranghi, è infatti facile intuire la loro parentela con noi umani, se li si osserva senza pregiudizi. Ce l’attestano la struttura corporea, le movenze, le espressioni facciali. Insomma, quel 90% abbondante di DNA che ci accomuna si fa sentire, eccome. Guardandoli ci specchiamo in loro leggendo la più antica delle storie, quella naturale. E ciò pone quesiti sulla nostra lontanissima origine, ci affascina e insieme ci sgomenta.
Mi piace, trattando della nostra “parentela allargata”, ma in special modo del gorilla, fare un tuffo nella leggenda evocando quella sempre attuale di King Kong, giocata proprio su questa ambiguità: fascino e, appunto, sgomento. Il primo film della serie, senz’altro il più coinvolgente, è del 1933, quando ancora della più grande scimmia si sapeva ben poco. E quel poco era quasi sempre errato. Basta pensare che il gorilla fu scoperto dalla scienza ufficiale solo nel 1847 e che il primo esibito in uno zoo fu possibile ammirarlo in Inghilterra nel 1855. Allora s’immaginava che i gorilla fossero ferocissimi. Un esploratore, Rupert Garner, per osservarne il comportamento fece la pensata, ora inimmaginabile, di costruire nella foresta una gabbia in cui poi si rinchiuse. E loro fuori, stupiti, a osservarlo. Oggi, invece, li si studia facendosi accettare, con pazienza e con sapienza, come membri aggiunti al loro gruppo. Un’avventura ormai vissuta da moltissimi etologi, che ci hanno lasciato descrizioni dettagliate sulla loro pacifica vita.
Niente di strano, pertanto, che la loro immagine, dai primi malamente conosciuti agli attuali, sia decisamente cambiata. Straordinaria è stata la sua evoluzione nella nostra cultura. E si tratta di un’evoluzione sicuramente non compiuta, perché tanto ci resta ancora da scoprire.
Penso a eventi recenti e ciò mi fa scegliere, in tema di codici, un esempio quanto mai esplicativo. Possediamo, infatti, un documento, brevi sequenze filmate, in cui, in una situazione naturale, è possibile studiare l’interazione di un gorilla femmina, Afrodite, con un’etologa. Una delle tante che hanno dedicato la vita allo studio di questi primati facendosi accettare alla periferia dei loro gruppi. I gorilla, va a finire, rapidamente smettono di temerle e interagiscono con loro. Le sequenze di quel filmato, che con i miei studenti ho analizzato nel dettaglio, perfino fotogramma per fotogramma, mostrano Afrodite mentre se ne sta in piedi sul ramo di un albero. L’etologa è sotto di lei, sul terreno. Forse non lo sapete, ma quello che è senz’altro il comportamento più noto dei maschi, battersi il petto con le mani, viene talora messo in atto anche dai piccoli e dalle femmine. E, infatti, Afrodite lo fa, ma non col minaccioso atteggiamento maschile, spesso preludio di una carica, bensì in modo pacato. Si tratta, tutto sommato, di un messaggio solo vagamente, o forse nemmeno più, aggressivo. E l’etologa, cogliendolo, risponde a modo suo battendo, con lo stesso ritmo, i palmi delle mani sulle cosce. Afrodite la guarda incuriosita, probabilmente divertita e le risponde battendosi ancora il petto. Inizia così un dialogo in codice, ma ciò che è straordinario è che la gorilla, dopo un po’ di questi scambi, smette di battersi il petto e quel suono in codice l’ottiene battendo le mani sul tronco dell’albero. Esattamente lo stesso ritmo. Stiamo straordinariamente assistendo allo slittamento, frutto di consapevolezza, di un comportamento in origine istintivo che si sta trasformando in una convenzione, in qualcosa di culturale. Un lessico nuovo e inventato che in qualche modo crea un ponte tra due individui di due specie diverse. Diverse sì, perché questo sono l’uomo e il gorilla, ma che qualcosa di comune, qualcosa di importante, pure ce l’hanno.
E questo qualcosa ora sappiamo, almeno in parte, che cos’è: sono i neuroni specchio, quelle speciali cellule nervose che consentono al cervello di riconoscere il significato degli atti compiuti da altri individui. Ebbene, questo è un aspetto, uno dei tanti, che sicuramente abbiamo in comune col gorilla, oltre che con tante altre specie, e non è cosa da poco.
Il caso di Afrodite, seppure assai significativo, rimane pur sempre circoscritto a un singolo individuo. Ben diverso invece è quello degli scimpanzé della riserva del fiume Gombe in Tanzania, che hanno, si potrebbe dire, fatto tornare di moda il tam-tam. E l’hanno fatto nel modo etologicamente più interessante. Da ragazzini, leggendo le storie dei cosiddetti pellerossa, oppure Tarzan l’uomo-scimmia, abbiamo appreso tutto sui codici rituali primitivi, che allora credevamo esclusivamente umani. Gli indigeni (allora si chiamavano così) ne avevano inventato, in Nordamerica, uno visivo, le nuvolette, calibrando il fuoco e il fumo, mentre in Africa c’era quel suono ritmico e, per gli esploratori, minaccioso. Misteriosi tamburi e mani nere ritmanti messaggi acustici.
E ora sappiamo che anche i gorilla e gli scimpanzé possono suonare, su base più o meno culturale, il tam-tam. Altri primitivi tamburi, dunque, e altre mani. Somiglianze e differenze. Ma prima occorre che descriva ciò che fanno gli scimpanzé del Gombe. S’avvicinano a certi alberi dalla base cava e, usando le mani posteriori (non per niente sono quadrumani), tambureggiano con ritmo preciso su quegli strumenti naturali. Lanciano, s’asserisce, informazioni a loro amici lontani. È molto probabile che avvisino del loro arrivo; è possibile, inoltre, che colui che trasmette si faccia, per lo stile personale, riconoscere come individuo.
Differenze rispetto al tam-tam degli umani: questi per tambureggiare costruiscono arnesi, gli scimpanzé no; gli umani usano gli arti anteriori, gli scimpanzé i posteriori. Penso inoltre che, più che probabilmente, molte differenze siano nascoste nei contenuti informativi, ma di questi sappiamo ancora troppo poco. Notevole, invece, è il fatto che, sicuramente, sia il tam-tam degli africani umani (dubito che esista ancora, al di là del folklore a uso dei turisti) sia quello degli scimpanzé rappresentano casi di ritualizzazione acustica compiutamente culturale.
Il caso degli scimpanzé è senz’altro, tra tutti, il più interessante perché si ritrova nel loro tam-tam un suggestivo parallelismo tra la comunicazione animale e quella umana primitiva. Quella fatta di colpi battuti, di nuvolette di fumo. Nella nostra specie il rito acustico, a ogni modo, presto si evolve inglobando parole. Il che mi consente un’osservazione maligna (di cui chiedo umilmente scusa). Ricordo, infatti, al proposito, due esempi negativi: nelle arene si tortura il toro mentre ritualmente si urla olè; negli stadi, invece, si insulta l’arbitro col rituale “scemo-scemo”. L’evoluzione culturale umana, purtroppo, anche di questi scherzi gioca. Gli scimpanzé, potrei concludere, fortunatamente non ci sono ancora arrivati. C’è chi pensa che non siano abbastanza intelligenti.
(Il testo è tratto da Danilo Mainardi, Nella mente degli animali, Cairo Editore, Milano 2006, pagine 254).
Danilo Mainardi, etologo, ecologo e divulgatore scientifico, è Professore emerito di Ecologia Comportamentale all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. È uno dei Presidenti Onorari dell’UAAR.
Da L’ATEO 3/2010