di Marcello Buiatti
Negli ultimi anni la mia personale fiducia nella specie a cui appartengo è andata calando, non solo perché il mondo umano non è come lo vorrei, ma perché sembra aver dimenticato caratteristiche specie-specifiche come l’uso del linguaggio per comunicare, del cervello per inventare, studiare, elaborare, del corpo stesso sempre di più considerato un oggetto da vestire, nutrire e seppellire obbedendo alle leggi della economia virtuale, ormai incontrollabile e sempre meno connessa con i bisogni reali della vita. Un antidoto che considero utile per uscire dall’angoscia cosciente o no del terzo millennio, può essere lo studio della nostra storia che ci ricordi chi siamo, come siamo fatti, in cosa siamo diversi dagli altri esseri viventi. Per questo consiglio vivamente di visitare la mostra sull’evoluzione della nostra specie organizzata da Luigi Luca Cavalli Sforza, uno dei più grandi genetisti viventi, mio maestro ed amico dai primi anni ’60, e Telmo Pievani, filosofo di vasta e profonda cultura biologica. La mostra, allestita prima a Roma nel Palazzo delle Esposizioni dal dicembre 2011 all’aprile 2012, è attualmente ospitata dal Museo delle Scienze di Trento. È una mostra bellissima per i contenuti, resi comprensibili a tutte le età da un allestimento magnificamente riuscito, sfata una serie di luoghi comuni sulla nostra origine e natura e ci ricorda il nostro meraviglioso percorso dalla nostra nascita come specie ad oggi. In particolare fa capire quanto sia falsa la credenza-presunzione di essere stati ed essere tuttora unici fra gli esseri viventi grazie ad un processo evolutivo lineare e in qualche modo predeterminato.
Non a caso il titolo veramente innovativo della mostra è “la grande storia della diversità umana” e non della nostra unicità, intendendo per “umana” non solo la nostra specie, ma almeno tutte quelle appartenenti al genere Homo. Questo approccio finalmente ci permette di eliminare per sempre la tristemente famosa immagine della “scimmia” che lentamente si alza diventando bipede, perde il pelo, si dota di un’arma e infine diventa uomo (chissà perché non donna). I dati paleontologici e molecolari aggiornati escludono un nostro “muoverci verso” … la nostra comparsa, che si trova nel pensiero cristiano più aperto sull’evoluzione e in particolare in Teilhard de Chardin. Come dice Sergio Tramma in una delle introduzioni al libro sulla mostra: “l’umanità ‘adulta’ di oggi non era nel destino di sé stessa: altre condizioni adulte sarebbero state possibili, altre umanità avrebbero potuto realizzarsi e raccontare se stesse”.
La linea evolutiva delle scimmie antropomorfe (Hominidae) si è divisa in “Homininae” e “Ponginae” dai 12 ai 16 milioni di anni fa. Alle pongine appartiene l’orango mentre le ominine si sono divise in ominini e gorillini. Ai primi appartengono i generi Homo e Pan (lo scimpanzé) che si sono separati circa 6 milioni di anni fa, ai secondi gli antenati degli odierni gorilla. I primi rappresentanti del genere Homo sono comparsi due milioni e mezzo di anni fa in Africa e precisamente in Etiopia in cui convivevano due specie (Homo habilis e Homo rudolfensis) a cui poi si aggiunsero Homo ergaster, bipede, dotato già della capacità di lavorare la pietra (tecnologia olduvaiana), e Homo erectus. Ambedue avevano caratteristiche già molto simili alle nostre, e avevano inaugurato una strategia evolutiva diversa da quelle degli altri esseri viventi.
Mentre tutti gli animali si adattavano e si adattano “passivamente” all’ambiente da cui sono diversamente selezionati, gli appartenenti al genere Homo modificano attivamente l’ambiente, inventando e costruendo oggetti utili e rifugi, usando il fuoco, elaborando progetti ed idee astratte. In embrione questo tipo di adattamento “attivo” era già presente in ergaster ed erectus ed ha permesso, in particolare al primo, di spostarsi rapidamente in ambienti anche molto diversi. Lo si ritrova, infatti, nella “prima migrazione umana” due milioni di anni fa, oltre che in Africa, in Asia, in Georgia, in Medio Oriente, mentre erectus è in Cina. Una “seconda migrazione” di appartenenti al genere Homo data da circa 800.000 a 130.000 anni fa ed è stata compiuta da una nuova specie, Homo heidelbergensis, così chiamato perché i suoi resti sono stati ritrovati vicino alla città di Heidelberg; heidelbergensis aveva un cervello più grande dei precedenti (circa 1200 cc.), usava il fuoco, viveva in piccole comunità con una vita sociale complessa, in villaggi, costruiva utensili per cacciare, per disossare gli animali e altre funzioni con una tecnica che è stata chiamata acheuleana. Lo dimostrano numerosi giacimenti e in particolare quello di Creta dove sono stati ritrovati ben 2000 strumenti di pietra d’ogni tipo datati a 130.000 anni fa. La nostra specie, Homo sapiens, è nata come variante di Homo heidelbergensis in Africa, crogiolo di tutti gli ominini circa 200.000 anni fa (circa 8.000 generazioni fa) e si è poi spostata in ondate successive nel vecchio continente e anche in Europa dove arriva dai 50.000 ai 45.000 anni fa. Per quanto ne sappiamo, i nostri antenati erano tutti “abbronzati” – per dirla con Silvio Berlusconi – ma poi l’abbronzatura si è diluita negli umani che sono andati al Nord e si è invece mantenuta in Africa e in tutte le zone in cui il sole è molto forte. La ragione di questo è la necessità di ripararsi in zone fortemente soleggiate per evitare infiammazioni o tumori e invece di utilizzare il poco sole che c’è nel Nord, per alcuni processi vitali fra cui la fissazione della vitamina D.
Dalla sua nascita in poi la nostra specie è in gran parte rimasta uguale a se stessa dal punto di vista fisico, ma ha molto rapidamente raffinato la sua strategia innovativa di costruzione attiva di un ambiente favorevole e non di selezione passiva. Sono quindi nate e si sono sviluppate culture diverse nel tempo e nello spazio come risulta dalle tecnologie usate per la produzione di utensili e per le arti sviluppatesi da 60.000 anni fa nel Levante nella bassa Galilea e nella zona del Monte Carmelo e da 45.000 anni fa in Europa. Le prime pitture di esseri umani, animali, oggetti e anche segni simbolici datano da 40.000 anni fa nel periodo chiamato Aurignaziano. A quell’epoca i nostri avi erano ormai praticamente uguali a noi e avevano superato la fase delle pietre scheggiate, giungendo all’astrazione come testimoniano pitture che raffigurano una realtà modificata dall’autore e quindi non fotografica come si nota dai bellissimi graffiti di molte grotte europee e di altre zone del mondo. Già 60.000 anni fa si producevano monili ornamentali e si seppellivano i morti in tombe decorate con conchiglie forate, catene e altri oggetti che ci fanno pensare che gli umani già allora credessero ad una vita posteriore alla morte.
È dai 60.000 ai 40.000 anni fa che Homo sapiens dimostra di avere una marcia in più degli altri umani che sono stati nostri “compagni di viaggio” fino all’estinzione dell’ultimo, solo 12.000 anni fa. Il più vicino a noi è stato Homo neanderthalensis. Neanderthal era la specie più vicina a noi geneticamente e fino alla sua scomparsa si era evoluto fisicamente e culturalmente in modo simile al nostro. Anche i Neanderthal discendevano da Homo heidelbergensis, vivevano in comunità socialmente evolute in cui assistevano vecchi e malati, come si vede anche dai segni di operazioni chirurgiche in arti malformati trovati nelle sepolture. Queste erano complesse ed è possibile che i Neanderthal avessero sviluppato riti, dato che la presenza di un’intelligenza estetica e simbolica è provata dalla costruzione di monili variamente colorati e da manufatti di 36.000 anni fa più avanzati di quelli dei coetanei sapiens. Con Neanderthal abbiamo convissuto a lungo e come ci dicono dati del 2010, ci siamo anche incrociati visto che dal 2% al 4% del nostro DNA ha caratteristiche neanderthaliane. Non sappiamo come mai la loro specie si sia estinta e non è colpa nostra, ma un’ipotesi che viene avanzata è che la loro evoluzione culturale e quindi la capacità di adattamento si siano fermate forse perché il loro linguaggio era meno efficiente: ipotesi, questa, corroborata dalla struttura anatomica non sufficiente per linguaggi espressivi ed articolati come i nostri. Ed è ancora il linguaggio che ci differenzia anche dai Primati di oggi come dimostrano studi recenti che hanno paragonato le capacità di bambini di due anni e mezzo con scimpanzé di età equivalente, dimostrando che il bambino si distingue solo per la capacità di ricevere e comprendere informazioni dai suoi simili.
Gli altri due “compagni di viaggio” che conosciamo sono l’uomo di Denisov i cui resti sono stati trovati a Denisova in Siberia, e Homo floresiensis, un pigmeo alto un metro che ha abitato l’isola di Flores in Indonesia fino a 12.000 anni fa. I denisoviani derivano da una ulteriore variante di heidelbergensis, più simile a Neanderthal che a noi, mentre floresiensis, molto più antico, deriva direttamente da Homo erectus, probabile progenitore di una possibile ulteriore specie presente nell’isola di Giava. Benché a un certo punto si siano fermati, tutti i nostri cugini avevano caratteristiche culturali affini alle nostre come si desume dalla elevata socialità, dai manufatti in certi periodi anche superiori ai nostri, dalla esistenza di forme di pensiero astratto e, almeno in Neanderthal, anche della concezione del “bello” come provano le conchiglie colorate e forate dei nostri “cugini”.
L’umanità, quindi, non è limitata alla nostra specie ma è stata presente in altre, tutte diverse ma capaci di evoluzione culturale. La causa della scomparsa di altre specie deriva probabilmente dalla mancata evoluzione di pochi geni necessari per accelerare e rendere più incisiva la capacità di adattamento legato alla conoscenza e alla invenzione. Qualche dato di conferma di questa ipotesi ci viene dal paragone fra il nostro genoma attuale e quello dello scimpanzé, che ci dice che solo una cinquantina di geni si sono evoluti rapidamente nella nostra linea evolutiva e non in quella del nostro “cugino” vivente, geni che sono una parte piccola ma importante del nostro DNA, che è per il 98.4% uguale a quello dello scimpanzé e per il 99.84% al genoma di Neanderthal. Alcuni dei geni che abbiamo cambiato ci permettono di usare un linguaggio più articolato di quello degli altri Primati, quello per la encefalina non solo di avere un cervello più grande ma di aumentare la grandezza relativa dell’encefalo (ora abbiamo 100 miliardi di neuroni, capaci di formare potenzialmente un milione di miliardi di connessioni diverse) e altri che rendono più plastica ed efficiente la ricezione dei segnali. È così che la nostra strategia adattativa si è basata sempre di più sulla costruzione di culture e linguaggi diversi che derivano da interazioni positive con i tantissimi ambienti diversi che abbiamo popolato e modificato. Così, da cacciatori, pescatori e raccoglitori ci siamo fermati nel nostro girovagare e abbiamo costruito agricolture diverse a seconda degli ambienti in cui ci trovavamo, basate su piante ed animali diversi, con cibi, religioni, filosofie, riti, consuetudini variegati. È per questo che mentre adesso gli altri animali sono geneticamente diversi nelle diverse zone del pianeta, perché sono stati diversamente selezionati dall’ambiente, nel caso nostro la diversità genetica è minima mentre grandissima è quella culturale. In questo momento solo il 15% della nostra variabilità genetica distingue gli umani dei diversi continenti mentre l’85% è comune a tutti. Non solo, ma la nostra variabilità genetica è molto minore di quella dei Primati vicini a noi viventi, nonostante che noi siamo ben sette miliardi e loro non superino l’ordine di diecine di migliaia. Invece i linguaggi, che sono i segnali delle culture sono ancora più di duemila e molti di più se si considerano i dialetti, e i loro numeri nelle diverse zone della Terra sono correlati con il numero delle specie viventi di animali e piante e soprattutto con le varietà e le razze coltivate e allevate.
Le lingue, come ha dimostrato Cavalli Sforza, si evolvono anch’esse mano a mano che si evolvono i popoli. Con le lingue si è passati dalla comunicazione orale a quella scritta, sono sorte la matematica e la geometria, importanti per la progettazione di oggetti sempre diversi ma anche per lo scambio dei beni da cui è nato il mercato e già dal IX millennio a.C. in Anatolia e in Medio Oriente nasceva la moneta che dovrebbe misurarne il valore. La nostra incredibile diversità e capacità d’invenzione, usata in modo positivo, ci ha permesso di adattarci e di moltiplicarci mantenendo un rapporto positivo con i diversi ambienti, ma aumentando anche il livello di benessere. L’immagine della nostra specie che in questo senso la mostra e trasmette è positiva, talvolta entusiasmante, variegata e multiforme.
Ma quanto siamo ancora fedeli al nostro modello di adattamento così efficiente e positivo? Basta guardarsi intorno per capire che la nostra strategia evolutiva ci ha preso la mano ed ha portato ad un processo di alienazione dalla materia vivente e dai suoi bisogni. Una prima svolta è stata l’epoca moderna in cui gli umani si sono autoconvinti che la Terra e la biosfera e noi stessi siamo come macchine, passibili di essere modificate su progetto con nessun effetto indiretto negativo. Ci siamo così omologati a computer con un solo programma scritto nel DNA, buoni o cattivi in modo ereditario e quindi divisibili in razze – anche se la nostra variabilità genetica è piccolissima per cui il termine razza non ha significato biologico per la nostra specie. Da qui i tentativi di “miglioramento” della specie umana ottenuto o per “selezione” o con inesistenti, magici marchingegni molecolari. Ci siamo pensati come “altri” dall’ambiente rompendo le connessioni e modificandolo senza limiti con i nostri manufatti, distruggendo la biosfera, provocando e accelerando il cambiamento climatico e danneggiandoci con le nostre mani. Più recentemente siamo passati ad una nuova fase che dimentica sempre di più la materia viva e la sostituisce con il mercato, non quello dei beni, ma quello delle monete, scambiate con processi ormai incontrollabili almeno quanto quelli ambientali. Se vogliamo veramente sopravvivere bisogna tornare al senso della vita dei nostri avi e di tutti i non umani, ricordandoci di essere, noi e gli altri, materia viva e godendoci le meravigliose connessioni nel nostro corpo, fra noi, con gli altri esseri viventi, e fra questi e il nostro pianeta.
Marcello Buiatti è professore di Genetica all’Università di Firenze. Ha operato per anni nell’Università di Swansea in Gran Bretagna e nel Laboratorio Nazionale di Brookhaven a New York. È presidente dell’Associazione Ambiente e Lavoro e della Fondazione Toscana sostenibile, si occupa di sicurezza, di politiche di sostenibilità e di educazione ambientale. Tra le sue numerosissime pubblicazioni, ricordiamo i volumi Lo stato vivente della materia (UTET 2000) e Il benevolo disordine della vita (UTET 2004).
Da L’ATEO 1/2013