di Telmo Pievani
Il grande balzo in avanti
Darwin credeva nell’emergenza graduale della mente umana e delle facoltà superiori dell’uomo nel corso dell’evoluzione: siamo diventati “umani” e “moderni” attraverso un’infinita serie di piccoli passi impercettibili. Il co-scopritore della selezione naturale, Alfred Wallace, riteneva invece questa prospettiva troppo materialistica: d’accordo che la selezione naturale può spiegare tutto, ma non l’origine del senso morale e religioso: la mente umana doveva essere sorta in un colpo solo, grazie a un’improvvisa rottura evolutiva favorita da un intervento sovrannaturale (una posizione di parziale accettazione della teoria evoluzionistica, adottata nel 1996 anche dal magistero della Chiesa cattolica).
Confondere l’efficacia attuale delle nostre facoltà “superiori” con la loro origine potrebbe essere rischioso. Che tipo di storia ci racconta l’evoluzione del linguaggio? È stata forse una storia di accumuli lenti e graduali di competenze razionali e comportamentali crescenti? In tal caso, dovremmo supporre che la selezione naturale ha “visto” nel linguaggio una risorsa adattativa della massima importanza e l’ha favorita costantemente, facendo procedere l’evoluzione attraverso una sequenza di forme intermedie di comunicazione fino all’apice raggiunto da Homo sapiens.
Questa spiegazione è, in effetti, molto plausibile, tenuto conto che anche piccoli miglioramenti nella comunicazione non verbale hanno senza dubbio offerto un vantaggio adattativo consistente ai loro possessori. Eppure qualcosa non quadra nella documentazione paleontologica. I paleoantropologi parlano, in effetti, di “grande balzo in avanti” a proposito della fenomenologia dei reperti di Homo sapiens euroasiatici databili tra i 45mila e i 34mila anni fa che denotano l’emergere di capacità cognitive inedite e incommensurabili rispetto a quelle degli altri Primati: compaiono le prime forme di innovazione culturale e nasce la diversità culturale e linguistica; esplode la produzione di rappresentazioni simboliche e artistiche; si ritualizzano le pratiche di sepoltura; compaiono i primi indizi di interesse per la comprensione dei fenomeni naturali; le società di caccia e raccolta si raffinano enormemente.
Perché il “grande balzo in avanti” si è prodotto così tardi nel corso dell’evoluzione? L’Homo sapiens possedeva il corredo anatomico, neurale e comportamentale necessario già centomila anni prima: perché ha aspettato tanto? Perché non ci sono segni forti di un avvicinamento graduale e progressivo alla produzione simbolica, all’arte, alla spiritualità e alla diversità culturale? La presenza di questa discontinuità è ancora più sconcertante se pensiamo che l’evoluzione cerebrale era cominciata nel genere Homo più di due milioni di anni prima e che il suo ritmo era stato molto graduale. In questo lasso di tempo il cervello ha raggiunto un volume (relativo alla massa corporea) tre volte maggiore rispetto a quello degli altri Primati.
Ma non è stata soltanto un’evoluzione quantitativa: le parti più giovani dell’encefalo (appartenenti alla cosiddetta “neocorteccia”) si sono aggiunte in modo non meccanico alle parti più primitive (sistema limbico, cervelletto, tronco encefalico), creando un’architettura anatomica complessa nella quale talvolta la coordinazione delle parti “superiori” è mediata da strutture presenti nelle parti più antiche. Si sa che le aree del cervello si sono sviluppate diversamente nel genere Homo, anche se non vi è stata la comparsa di alcuna struttura che non fosse già presente nelle scimmie antropomorfe: è stata una questione di organizzazione, di connessione fra le parti e di crescita differenziale.
Rimane però un indizio intrigante da considerare. Le capacità di elaborazione simbolica degli uomini di Cro-Magnon sembrano in qualche modo connesse sia allo sviluppo del linguaggio articolato sia all’emergenza di una forma nuova di intelligenza, un’intelligenza pienamente autocosciente. Un campo di studio promettente è stato inaugurato anni fa da alcuni “paleoneurologi” e paleoantropologi convinti che il “grande balzo in avanti” del Paleolitico superiore sia connesso all’innesco di un anello ricorsivo fra l’evoluzione del linguaggio articolato e l’evoluzione della coscienza introspettiva. La questione cruciale è proprio capire se l’evoluzione di un’intelligenza autocosciente sia strettamente dipendente dalla presenza del linguaggio articolato, come hanno sostenuto William Noble e Iain Davidson nel 1996; oppure se è possibile che le forme ominidi più antiche possedessero comunque un embrione di pensiero cosciente, una sorta di “attenzione incosciente”, com’è stata definita da Stephen Toulmin, che si sarebbe poi evoluta, attraverso una serie di stadi, fino all’attenzione cosciente e all’articolazione del comportamento autocosciente, organizzato secondo piani stabiliti e condiviso con altri attraverso il linguaggio.
Tuttavia, il quadro si complica se pensiamo che la deduzione dell’origine evolutiva del linguaggio dalla sua utilità attuale è stata posta in discussione da ricerche recenti. Il neurologo Harry Jerison ha delineato un modello di evoluzione del cervello da questo punto di vista estremamente interessante: il linguaggio ha avuto naturalmente un ruolo decisivo nella comunicazione umana, ma questa potrebbe essere una conseguenza del suo sviluppo e non la sua causa. Secondo Jerison, il linguaggio è nato come effetto collaterale di una facoltà diversa che il cervello aveva cominciato a sviluppare come adattamento: la coscienza introspettiva e immaginativa. È nei dialoghi interiori della incipiente coscienza umana, impegnata a creare un modello e un’interpretazione attendibili della realtà, che il linguaggio trova la sua origine.
In questo processo evolutivo, la coscienza introspettiva, il linguaggio e la complessità della dimensione intersoggettiva umana si alimentano reciprocamente. La coscienza si evolve in un contesto sociale divenuto altamente competitivo; essa si sviluppa adattativamente al fine di prevedere, per proiezione di se stessi sugli altri, il comportamento degli altri. In questo contesto si evolve la capacità linguistica, che a sua volta accelera il processo di formazione di un’autocoscienza e di una vita sociale ulteriormente elaborate.
Il “decollo” della mente umana
Una domanda rimane tuttavia inevasa: quando ha avuto origine la coscienza? E più precisamente, l’emergenza della coscienza è stata un evento graduale o repentino? L’opzione dell’etologo Nicholas Humphrey è nettamente discontinuista, o tutto o niente: possiamo arguire che nel corso dell’evoluzione, con l’accorciarsi degli anelli sensoriali e l’intensificarsi del loro grado di fedeltà, si sia toccata una soglia oltre cui è d’un tratto emersa la coscienza, proprio come c’è una soglia oltre cui si passa dal sonno alla veglia.
In realtà il modello di Humphrey non esclude la gradualità: è un modello che potremmo definire per “latenza e innesco”. Dopo una fase anche molto lunga di trasformazioni fisiche e anatomiche latenti, si raggiunge una soglia oltre la quale s’innesca un processo di riorganizzazione repentina. Il fatto sorprendente è che un modello simile sta avendo in questi anni riscontri importanti nel campo della paleoantropologia. È come se l’intelligenza fosse a un certo punto “decollata”, come se avesse improvvisamente acquisito la portanza necessaria dopo una lunga rincorsa a terra. Nel cespuglio ramificato delle forme ominidi, portatrici senz’altro di molteplici “forme di intelligenza” a noi sconosciute, compare una riorganizzazione mai sperimentata prima a partire dagli stessi elementi del sistema neurale.
Il segreto è stato forse una miscela di continuità naturale e di discontinuità storica. Secondo Tattersall, la coscienza è un prodotto del nostro cervello, il quale a sua volta è un prodotto dell’evoluzione, ma le proprietà del cervello umano sono emergenti e sono il risultato di una serie di acquisizioni casuali (naturalmente basate sull’eccezionale risultato di una lunga storia evolutiva) le quali possono essere state favorite dalla selezione naturale solo dopo che il cervello si era già formato. La selezione naturale, nella maggior parte dei casi (e sicuramente nei casi più interessanti), interviene dopo l’emergenza della “forma”, assegnando ad essa una funzione, e non prima. Il cervello umano attuale non si sarebbe evoluto così perché indispensabile a una qualche funzione biologica corrente, ma per una riorganizzazione contingente a partire da una struttura anatomica ridondante prodotta da una lunga storia evolutiva. Questa riorganizzazione complessa ha prodotto un “modello” di ominide che non si è limitato a raffinare le capacità precedentemente sviluppate all’interno dei diversi ramoscelli del cespuglio, ma ha inaugurato un modo totalmente nuovo di essere umani, una concezione qualitativamente distinta di “umanità”.
Quando si abbassa la laringe…
Oggi molti scienziati, fra i quali principalmente Ian Tattersall e Jeffrey Lieberman, stanno lavorando all’ipotesi per cui l’innesco cruciale dell’intelligenza simbolica sarebbe in qualche modo connesso all’emergenza del linguaggio articolato. Quest’ultimo, a sua volta, sarebbe un exaptation [1] legato alla morfologia allungata della gola. L’abbassamento della laringe comporta un allungamento dello spazio faringeo, all’interno del quale avviene la modificazione del suono proveniente dalle corde vocali. È una trasformazione anatomica molto rischiosa per una specie, perché la discesa della laringe impedisce all’animale di deglutire e di respirare allo stesso tempo, esponendolo al rischio continuo di soffocamento.
Nessun mammifero eccetto Homo sapiens ha adottato questa modificazione e anche i cuccioli umani, fino all’età di due anni, rimangono con la laringe alta per poter succhiare il latte e respirare contemporaneamente: entrambi non possiedono l’apparato necessario per il linguaggio articolato. Il linguaggio articolato nasce dunque con il marchio del rischio: per godere dei suoi vantaggi dobbiamo correre il pericolo del soffocamento.
Le strutture dell’apparato vocale naturalmente non si sono conservate nella documentazione archeologica, ma la sommità del tratto sopralaringeo potrebbe avere un corrispettivo nella forma assunta dalla base del cranio, che si può invece osservare nei fossili. La retrocessione del palato produrrebbe, infatti, una piccola flessione della base cranica. Se la laringe è abbassata, aprendo lo spazio faringeo necessario per l’articolazione del suono, la base del cranio risulta più arrotondata per poter accogliere la faringe più alta. Probabilmente, come ha notato l’anatomista Jeffrey Laitman, la discesa della laringe sarà stata inizialmente motivata da esigenze respiratorie (forse connesse all’adattamento a climi secchi e caldi) oppure da esigenze di espressione vocale non articolata e si sarà poi trasformata in un ottimo exaptation per l’emissione modulata della voce. Una qualche funzione adattativa primaria, non linguistica, deve avere gradualmente favorito l’allungamento del tratto sopralaringeo dall’Homo erectus in poi, nonostante il pericolo di soffocamento.
In termini cronologici questa teoria implica che nell’Homo sapiens si sia sviluppato fin dalle origini l’exaptation anatomico per il linguaggio articolato, ma che soltanto molto tempo dopo la nascita della nostra specie si sia prodotto l’innesco necessario a sfruttarlo. Per quasi 80mila anni siamo stati una specie exattativa, cioè dotata di una riserva di strutture anatomiche e neurali ridondanti che poi, intorno a 40mila anni fa, abbiamo cooptato per dare avvio alla rivoluzione dell’intelligenza simbolica, del linguaggio articolato e del ragionamento astratto. Questo potrebbe spiegare l’evoluzione separata dell’anatomia e dei comportamenti simbolici dell’Homo sapiens, nato una prima volta nell’anatomia e nato una seconda volta nell’intelligenza. Da questa alchimia funzionale e morfologica la nostra specie è rinata e si è scoperta capace di dipingere i grandi santuari della creatività umana: l’uomo rinasce a Lascaux e Altamira, rinasce per l’immaginazione, per la fantasia, per la speculazione metafisica, nonché per la globalizzazione della sua presenza sulla terra.
Diversamente dall’Homo neanderthalensis, intorno a 40mila anni fa, il cervello della specie Homo sapiens era dunque ben “exattato” per il linguaggio e il ragionamento simbolico, in virtù di vantaggi adattativi primari che stentiamo a riconoscere, ma che in qualche modo dovevano essere connessi alle prime forme di ragionamento intuitivo oppure alle dinamiche dello sviluppo individuale. Mancava soltanto uno stimolo, un innesco per passare all’intelligenza simbolica, per dire l’indicibile, per accorgersi di ciò che era sempre stato lì e non avevamo mai visto. Ma quale tipo di stimolo?
La velocità di diffusione del nuovo comportamento è così alta che difficilmente l’innesco può essere stato di tipo anatomico, perché ciò presupporrebbe una sostituzione di popolazioni. È molto più probabile, uno stimolo di tipo culturale o sociale, nato all’interno di una popolazione e poi trasmesso rapidamente a tutta la specie per diffusione.
Un cervello polivalente
Così tutto avvenne in un “batter di ciglia” evolutivo all’interno di una piccola popolazione stanziata chissà dove. Le strutture dell’intelligenza sarebbero, in questo senso, il frutto di una deriva evolutiva singolare, l’esito di una sequenza di eventi contingenti e irreversibili, un’emergenza tardiva e improvvisa innescata da un piccolo cambiamento.
Se davvero siamo figli di ingegnosi exaptation morfologici, la nostra natura attuale è più dipendente dai mutamenti climatici imprevedibili che hanno deviato il corso delle ramificazioni del nostro cespuglio che non da tendenze evolutive progressive. Le ragioni di queste svolte storiche parzialmente slegate dai valori adattativi precedenti mostrano come sia fuorviante interpretare l’esito attuale come l’unico possibile, come il solo approdo necessario di una storia prevedibile di progresso e di emancipazione dalla condizione animale. La nostra solitudine di specie e la nostra “superiorità” sono forse un dato di fatto contingente.
L’evoluzione successiva dell’intelligenza umana, a parità di strutture neurali, diventa una sequenza di exaptation. Come ha scritto Gould nel suo monumentale testamento scientifico, La struttura della teoria dell’evoluzione (2002), “i pennacchi a cascata del cervello umano non dovranno forse essere più influenti dei presunti adattamenti primari degli antenati africani cacciatori-raccoglitori per fissare i contorni di ciò che chiamiamo natura umana”? [2]. Molti comportamenti umani e molte proprietà del cervello umano potrebbero non essere adattamenti diretti, ma conseguenze collaterali, riadattamenti, cooptazioni funzionali. Fra essi, Gould menziona attività della massima importanza, come le capacità linguistiche, la lettura, la scrittura, la produzione artistica, l’elaborazione religiosa.
Alcuni neurobiologi e scienziati della cognizione hanno accolto in questi anni l’invito a un’applicazione dell’exaptation all’evoluzione cognitiva e neurale, con risultati incoraggianti. La capacità dei circuiti neurali di acquisire con estrema flessibilità e rapidità funzioni per le quali non erano stati “programmati” nel corso dell’evoluzione, caratteristica che John Robert Skoyles e altri neuroscienziati hanno definito “plasticità neurale”, potrebbe essere da un lato un ottimo adattamento (la plasticità neurale, così come la plasticità di altri tessuti, garantirebbe una buona coordinazione dello sviluppo neurale, in sostanza la possibilità di espandere adattativamente alcune aree a scapito di altre nel corso dello sviluppo), dall’altro un’utilissima riserva di exaptation possibili: nel corso dell’evoluzione circuiti inizialmente dedicati a determinate funzioni vengono cooptati per funzioni differenti al mutare del contesto. Migrazioni neurali, compensazioni, ristrutturazioni, inaspettate conversioni (cortecce uditive che diventano visive, e viceversa) ci restituiscono l’immagine di un cervello polivalente, le cui componenti, anche se momentaneamente focalizzate su un compito, possono assumere funzioni completamente diverse da quelle per le quali sembravano essersi evolute. Da queste ricerche sembra dunque emergere un’immagine dell’evoluzione della psicologia umana intesa come continua apertura a possibilità nuove, non iscritte in un programma innato fissato adattativamente per selezione naturale.
Questi studi presuppongono la disponibilità ad affrontare il sistema neurale come sistema evolutivo, fatto di una storia intesa come esplorazione di possibilità, e non più soltanto a partire da un modello astratto di ciò che il cervello sembra fare nel qui e ora. Il cervello, più che un organo adattato, sembra una congerie di riorganizzazioni, un organo versatile pieno di “ri-adattamenti”, con mappe ed aree nuove costruite sulle vecchie, convertite a nuove funzioni, ristrutturate. Forse allora ciò che è stato concisamente definito “capacità umana” non è derivato per estrapolazione lineare dalle tendenze più remote della nostra linea evolutiva. Si tratta di qualcosa di più simile a una “proprietà emergente”, per mezzo della quale una nuova combinazione di caratteristiche produce un risultato inatteso. Le strutture dell’intelligenza umana (come del resto quelle della locomozione) sarebbero dunque il frutto di una deriva evolutiva singolare, l’esito di una sequenza di eventi contingenti e irreversibili, un’emergenza tardiva e improvvisa innescata da un piccolo cambiamento.
Alla periferia dell’impero della biodiversità
Per Nietzsche una “volontà di potenza” fa presa sulla storia, influenzando ogni uso o riadattamento secondario successivo. Nella concezione strutturalista che ha motivato l’idea di exaptation, invece, a far presa sulla storia sono i vincoli di sviluppo, i canali morfogenetici che si trasformano di utilizzo in utilizzo, coevolvendo con le funzioni assunte di volta in volta, in una danza fra dimensione strutturale e dimensione funzionale, fra forme e funzioni, che guida l’evoluzione lungo traiettorie imprevedibili. Quella volta che siamo diventati umani è successo dunque qualcosa di normale e unico al contempo. Su un ramo collaterale alla periferia dell’impero della biodiversità ha avuto inizio un nuovo esperimento di vita e di conoscenza, un evento contingente che difficilmente potrebbe ripetersi una seconda volta. A noi la responsabilità di coltivarlo il più a lungo possibile.
In chiusura di uno dei suoi ultimi saggi, dedicato all’arte rupestre del Paleolitico, Gould annota: “Abbiamo sempre amato l’arcobaleno, da 30mila anni a questa parte. Per tutto il tempo trascorso da allora ci siamo sforzati di dipingere la bellezza e la forza della natura. L’arte di Chauvet (e di Lascaux, di Altamira, …) eleva il nostro cuore perché su quelle pareti noi vediamo i nostri inizi e sappiamo che, anche allora, avevamo in noi qualcosa di grande” [3].
Note
[1] Già Darwin introdusse un principio di ridondanza funzionale e sostenne che in natura un organo può svolgere più funzioni o, viceversa, una funzione può essere assolta da più organi. Un organo può dunque avere un “pre-adattamento” per una certa funzione e poi essere cooptato per un’altra. Il paleontologo Stephen J. Gould, insieme ai colleghi Elisabeth Vrba, Niles Eldredge e Richard Lewontin, negli anni 80 e 90 del Novecento riprese e valorizzò questa intuizione darwiniana in contrapposizione con la visione selezionista e funzionalista di una parte della Sintesi Moderna, proponendo di sostituire il permine pre-adattamento con quello di exaptation (exattamento), cioè un carattere formatosi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione funzionale specifica all’inizio, poi resosi disponibile per il reclutamento attuale. Si parla di exaptation in tutti i casi in cui vi sia una cooptazione contingente, per una funzione attuale, di strutture impiegate in passato per funzioni diverse o addirittura per nessuna funzione.
[2] Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice Edizioni, 2003, p. 1566.
[3] Stephen J. Gould, I fossili di Leonardo e il pony di Sofia, Il Saggiatore, 2004, p. 184.
Telmo Pievani è professore associato presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Dal 2001 al 2012 è stato in servizio presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Autore di numerosissime pubblicazioni – tra cui ricordiamo Creazione senza Dio (Torino 2006), Nati per credere (con V. Girotto e G. Vallortigara, Torino 2008), La vita inaspettata (Milano 2011), dirige “Pikaia”, il portale italiano dell’evoluzione. Il presente testo è tratto, con alcune modifiche, da Quella volta che siamo diventati umani, Lettera internazionale n. 80, 2004
Da L’ATEO 1/2013