Recensione di Perché io credo in colui che ha fatto il mondo di Antonino Zichichi, Il Saggiatore 1999,
di Piergiorgio Odifreddi
Tra i fisici italiani circolano molte barzellette sull’autore di questo libro, una delle quali rilevante in questa sede. Narra di un suo collega che a un congresso lo incontra, realizzando il sogno della sua vita. Per l’emozione muore, ma arrivato in Paradiso lo trova deserto: San Pietro non sta alla porta, e fra le nuvole non c’è anima morta. Finalmente passa qualcuno trafelato, che spiega di essere in ritardo per la conferenza del Professor Zichichi. «Ma come, è morto pure lui?», gli chiede allarmato il nuovo arrivato. «No. In realtà la conferenza la tiene Dio, ma ultimamente si è montato la testa».
Per capire come possa originarsi una storiella di questo genere basta guardare la copertina dell’ultimo libro di Zichichi, sulla quale troneggia una fotografia del Professore in primo piano, mentre una immagine del Creatore viene relegata sullo sfondo. Per ribadire poi il senso delle proporzioni, il titolo provvede immediatamente a sottolineare che nel libro Dio interviene non di Suo, bensì in quanto oggetto della fede dell’Io del Professore.
Prima ancora di iniziare la lettura dell’opera è dunque facile prevedere che una recensione si potrà adeguatamente organizzare secondo la tipologia canonica dei peccati (di superbia), che puntualmente l’autore provvederà a commettere con dovizia e completezza.
Pensieri (confusi)
Il Credo di Zichichi, facilmente formulabile, è che «né la Matematica né la Scienza possono scoprire Dio» (p. 22), e «l’unica risposta all’esistenza del Trascendente è l’atto di Fede» (p. 144). Il che significa semplicemente che uno scienziato non può scrivere, in quanto tale, un libro dal titolo Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo. In particolare, non può esaminare dal punto di vista della scienza e della matematica moderne gli argomenti a favore dell’esistenza di Dio prodotti dalle teologie naturale e razionale, nel tentativo di riformularli in maniera adeguata alla cultura occidentale contemporanea.
Infatti, lungi dall’imbarcarsi in massimi ragionamenti, il Professor Zichichi non fa che indulgere in minimi slogan per l’intera durata del libro, infliggendoci a ripetizione vaghe banalità quali: «mai uno scienziato credente è diventato ateo. Semmai è successo il contrario» (p. 154). Arrivando a volte a dichiarare precise falsità, ad esempio che Einstein era credente (p. 45), il cui grado di attendibilità è facilmente valutabile in base alle parole dello stesso Einstein: «Ciò che si legge riguardo alle mie convinzioni religiose è una menzogna che viene sistematicamente ripetuta. Io non credo in un Dio personale e l’ho espresso chiaramente».1
Impossibilitato dalle sue stesse premesse a produrre prove a favore della sua fede, il credente cerca di tirar acqua al suo mulino tentando di dimostrare che neppure il non credente sta meglio. «L’ateo dice infatti: per amor di logica non posso accettare l’esistenza di Dio. Ma il rigore logico non riesce a dimostrare che Dio non esiste. Ecco in sintesi l’antinomia dell’Ateismo» (p. 159). Naturalmente, l’antinomia esiste soltanto nella testa del Professore: se infatti il rigore logico riuscisse a dimostrare che Dio non esiste, non dovrebbe più credere nessuno; così come se il rigore logico riuscisse a dimostrare che Dio esiste, dovrebbero invece credere tutti. È proprio perché secoli di indagini teologiche non hanno prodotto convincenti prove né a favore né contro, che il rigore logico permette sia credere che di non credere!
Come certi clown, che strappano risate schiaffeggiandosi da soli o spiaccicandosi la faccia per terra dopo essere inciampati in scarpe troppo grosse per i propri piedi, l’autore diventa letteralmente ridicolo quando afferma che «se l’ipotesi “Dio non esiste” fosse valida, la Logica Matematica dovrebbe scoprire il teorema della completezza» (p. 161)2. Teorema che, come sanno tutti gli studenti (ma non tutti i Professori), è stato dimostrato da Kurt Gödel nel 1930. E che non ha nulla a che vedere con il fatto che «la Logica Matematica è lungi dal poter dire di aver risolto tutti i problemi che sono sul tavolo delle cose certe come, ad esempio, la congettura di Goldbach o l’ipotesi di Rienmann [sic]» (p. 162).
Queste “cose certe”, che proprio perché non sono ancora state dimostrate sono invece tutt’altro che certe, e per questo vengono appunto chiamate congetture o ipotesi e non teoremi, non sono affatto affermazioni logiche, ma matematiche. E benché la matematica sia effettivamente incompleta, come ha dimostrato lo stesso Gödel nel 1931, nessuno sa (meno che mai Zichichi) se queste affermazioni siano effettivamente esempi di incompletezza o, invece, esempi di affermazioni dimostrabili ancora in attesa di essere dimostrate.
Parole (sgrammaticate)
Poiché, come diceva Buffon, le style, c’est l’homme, non sarà inutile soffermarsi su un’analisi stilistica del libro, nella speranza di capire di che fango sia stato fatto l’autore, da Colui in cui egli crede.
La confusione filologica del Professor Zichichi è disarmante. Ad esempio, secondo lui «in greco pianeta vuol dire Stella errante» (p. 104), benché non ci sia polvere di stelle nell’originale planetes, che significa semplicemente “viandante”. Ma questo è niente, in confronto all’affermazione che «Lunedì vuol dire Luna; Martedì, Marte; Mercoledì, Mercurio; Giovedì, Giove; Venerdì, Venere; Sabato, Saturno; Domenica, Sole» (p. 104). Vada per l’omissione del suffisso «dì», che come tutti (meno Zichichi) sanno significa «giorno», per cui si dovrebbe affermare più propriamente che Lunedì vuol dire giorno della Luna, eccetera. Ma scrivere che Sabato e Domenica, che come tutti (meno Zichichi) sanno derivano dall’ebraico sabbath e dal latino dominus, vogliano dire giorni di Saturno e del Sole, significa veramente prendersi un weekend di riposo dal pensiero. E non si può neppure benevolmente concedere che il Professore pensi in inglese, a Saturday e Sunday, perché altrimenti Tuesday, Wednesday, Thursday e Friday dovrebbero conseguentemente essere i giorni di Tiw, Woden, Thor e Frig: che, come siamo pronti a scommettere, il Professore non ha mai neppure sentiti nominare. L’unica spiegazione è che nel suo cervello le lingue costituiscano un ribollente calderone, dal quale egli attinge a caso col mestolo ogni volta che cerca di scodellare un pensiero.
Non sono comunque soltanto le lingue estere a provocargli dei guai: anche con l’italiano il ragazzo se la cava maluccio, direbbe il maestro elementare a lezione dal quale sarebbe conveniente rispedire il Professore perché imparasse a parlare e scrivere. Che dire infatti di frasi che superano brillantemente l’arcaico schema soggetto-predicato-complemento, dissolvendolo in futuriste e inedite strutture logiche quali: «la “Pietà”, Michelangelo, l’ha saputa concepire, sentire e realizzare lui» (p. 113), o «il valore di un Crocifisso nello studio di un ateo ha in Pertini l’esempio più significativo» (p. 211)?
Se la sintassi del grande fisico barcolla, la sua semantica è stramazzata a terra ma ancora scalcia. Si tenga dunque il lettore a dovuta distanza da un brano come il seguente, a metà fra il pedante e la pedata: «è invalso l’uso di riferirsi ai secoli sedicesimo, diciassettesimo, diciottesimo, diciannovesimo, ventesimo dicendo “nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento, nell’Ottocento, nel Novecento”. I sostenitori di questo uso dicono che non si può dire “nel millecinquecento” in quanto millecinquecento non indica un secolo ma un anno. Volendo essere rigorosi, anche il Cinquecento indica un anno e non si supera la difficoltà. Noi useremo il termine millecinquecento per riferirci al secolo sedicesimo, milleseicento per riferirci al secolo diciassettesimo e così via. Se dicessimo “nel Cinquecento” intenderemmo riferirci al sesto secolo dopo Cristo» (p. 30). Dal rigoroso racconto di un suo esperimento tenuto «a metà degli anni sessanta» (p. 56), cioè nel settimo decennio dopo Cristo, deduciamo dunque la sorprendente conseguenza che il Professor Zichichi è (e ci prende) in giro da almeno un paio di millenni!
Onestamente, una scrittura di tal fatta disonora una casa editrice che non solo ha accettato il libro, ma l’ha pubblicato senza neppure uno straccetto di prova (nel senso inglese di proof, “bozza”), per usare una recente espressione del protettore politico dell’autore. A proposito di bozze, un editore che rispetti sé stesso e i suoi lettori avrebbe dovuto provvedere a correggerle per rimediare almeno alle più palesi deficienze linguistiche dell’autore, al quale viene invece permesso di scrivere impunemente frasi del tipo: «Le Tre Forze Fondamentali sono: la Forza Elettrodebole» (p. 222).
Opere (millantate)
Si potrebbe pensare che, tutto sommato, l’autore sia solo un fisico che abbia voluto strafare, scrivendo un libro su un soggetto e in una lingua che non conosce. In realtà egli coglie l’occasione per dare sfogo a un delirio di potenza che sconfina in letterali millanterie. L’esempio più imbarazzante è la dichiarazione, in terza di copertina, che il Professor Zichichi «ha al suo attivo la scoperta dell’antimateria nucleare»! Qui egli manifesta una singolare amnesia selettiva, palesemente dolosa, del fatto che ben due premi Nobel siano stati assegnati nel passato per questa scoperta, quando lui era ancora in fasce: il primo nel 1933 a Paul Dirac, per la previsione teorica dell’esistenza dell’antimateria, e il secondo nel 1936 a Carl Anderson, per la scoperta della prima antiparticella (il positrone, o antielettrone). La millanteria resta anche intendendo l’aggettivo “nucleare” in senso letterale, perché un terzo premio Nobel è stato assegnato nel 1959 a Owen Chamberlain ed Emilio Segrè per la scoperta dell’antiprotone.3.
I casi sono solo due: o ha barato il Comitato di Stoccolma, o sta barando il Professore di Bologna. Per smascherare l’impostore non c’è comunque bisogno di faticare troppo: basta interpellare uno qualunque dei premi Nobel di cui egli adora circondarsi, per brillare della loro luce riflessa. L’esperimento condotto dal recensore con Hans Bethe, che i lettori ricorderanno per un suo recente intervento sul nucleare in questa stessa sede4, ha prodotto questo lapidario giudizio sul Professor Zichichi: «ottimo organizzatore, mediocre fisico». Da confrontare con le dilapidate note di copertina, che lo dipingono invece come «autore di studi e ricerche sulle strutture e sulle forze fondamentali della natura, alcune delle quali hanno aperto nuove strade nella fisica subnucleare delle alte energie».
Il lettore potrà facilmente decidere quale fra i due giudizi sia quello corretto, domandando un parere al proprio fisico di fiducia. O, più semplicemente, aprendo a caso il libro e leggendovi perle di questo tipo: «Ancora oggi sorprende la velocità con cui cadono le pietre: troppo veloci per essere misurate. E invece no» (p. 191). Oppure: «Galileo libera la terra dall’incubo di dover stare ferma al centro del mondo. Non serve a nulla star fermi al centro del mondo. Velocità costante zero equivale a velocità costante qualsiasi» (p. 196). E ancora: «Mangiare dieci chili di pane non è come mangiarne un chilo. Bere dieci litri di vino non è come berne uno solo. Però, anche se pane e vino hanno sapore diverso, la loro massa può essere esattamente la stessa» (p. 207).
Dopo un tale sforzo divulgativo il Professor Marcellino Pane e Vino, che evidentemente ha optato per i dieci litri, ha tutti i diritti di essere spossato. Forse è ora di smettere di tormentarlo con la fisica e passare alla neurobiologia, stimolati da questa sua dichiarazione di lapalissiana controfattualità: «se il Creatore m’avesse regalato un altro cervello io avrei potuto fare altre cose» (p. 92). In realtà, altre cose avrebbe dovuto farle soprattutto con il cervello che si ritrova!
In particolare, avrebbe dovuto evitare di parlare di argomenti assolutamente al di fuori della sua portata, dall’aritmetica alla logica, invece di reiterare pedestremente i madornali strafalcioni del suo precedente libro, L’infinito, del quale abbiamo già trattato in questa sede5. E invece ci infligge anche in questo campo inarrivabili stupidaggini quali: «la forma più elementare di Logica corrisponde a dire: patti chiari, amicizia lunga» (p. 50), «ci sono teoremi impossibili da dimostrare» (p. 143), «la più grande conquista della Logica Matematica è l’Infinito» (p. 151). Per non parlare delle sue incredibili definizioni: dell’Algebra come «teoria dei rapporti tra variabili», dell’Analisi come «teoria dei rapporti tra funzioni di variabili», e della Geometria come «teoria delle funzioni in uno spazio metrico» (p. 157). Il tutto con l’unico scopo apparente di confermare che «con il linguaggio è possibile dire tutto e il contrario di tutto» (p. 150).
Se fosse più modesto, aggettivo che però non appartiene al vocabolario della sua pseudolingua, il Professor Antonino Zichichi, fisico, scrittore, grande scienziato potrebbe lasciare in pace la matematica e passare a infastidire invece la numerologia. Scoprirebbe così, ad esempio, che assegnando in maniera canonica numeri da 1 a 26 alle lettere dell’alfabeto inglese, e sommando le cifre corrispondenti alla sua precedente definizione in corsivo, si ottiene il numero 666. Che dietro il Professore si celi una Bestia, come il suo libro lascia effettivamente supporre?
Omissioni (sfortunate)
Il Professor Zichichi, in tutto il corso del libro, fa il finto (si fa per dire) tonto sulla scienza e gli scienziati, con argomenti fra l’ingenuo e il fraudolento che, non ingannando neppure gli idioti, riescono comunque a menare per il naso gli “Iddioti” (almeno a giudicare dalle vendite).
L’autore si produce ripetutamente in provocatorie affermazioni quali «l’esistenza della Scienza la dobbiamo alla cultura cristiana» (p. 180), o «è nel seno della Chiesa di Cristo che ha avuto origine la Scienza» (p. 198), per nulla turbato dal fatto che la cultura cristiana e la Chiesa di Cristo non solo non abbiano generato la Scienza per milleseicento anni, ma l’abbiano consistentemente avversata fin dalla sua nascita. Sull’imbarazzante processo conclusosi nel 1633 il paziente Professore non trova niente di meglio da dire che «il caso Galileo è ancora “cronaca”. Dobbiamo aspettare qualche migliaio di anni per avere, di esso, una lettura fedele» (p. 190). Salvo contraddirsi immediatamente, dichiarando che «è con le orbite ellittiche che si chiude il caso Galileo» (p. 197): dunque, apparentemente, con la pubblicazione nel 1619 delle leggi di Keplero.
Con queste premesse diventa facile asserire che Giovanni Paolo II è «il Papa che ama la Scienza» (p. 200), e nell’enciclica Fides et ratio lo stesso Wojtyla arriva addirittura a citare Galileo come un precursore delle posizioni del Concilio Vaticano II sulla compatibilità delle verità di fede e scienza! Salvo poi smentirsi pure lui immediatamente (Dio li fa e poi li accoppia), reiterando la posizione del cardinal Bellarmino che molti scienziati, sbagliando, avevano pensato ormai superata: i fedeli non hanno il diritto di difendere come legittime le opinioni ritenute contrarie alla dottrina, ad esempio l’evoluzionismo, e devono invece considerarle come errori.
Dopo aver tronfiamente ricordato che «noi fisici siamo molto rigorosi nel formulare i nostri problemi» (p. 82), il fedele Zichichi obbedientemente ci mostra nel suo glaciale rigor mortis il cadavere di una biologia predarwiniana che, ingenuamente, ritenevamo morta e sepolta quasi dovunque, a parte le sacche più reazionarie e intellettualmente sottosviluppate degli Stati Uniti. E invece ci tocca imparare che un ex-presidente dell’Istituto Italiano di Fisica Nucleare può permettersi di scrivere, senza subire processi inquisitori, che «la teoria dell’Evoluzione Biologica della specie umana non è Scienza galileiana», e che per spiegare la nascita dell’uomo bisogna «ricorrere a uno “sviluppo miracoloso” del cervello, occorso circa due milioni di anni fa» (pp. 82-83). La prova della falsità del darwinismo sarebbe che «durante diecimila anni questa forma di materia vivente [l’uomo] è rimasta esattamente identica a se stessa. Evoluzione biologica: zero» (p. 91). Una volta allertati, col senno di poi anche noi avremmo potuto trovare delle prove: ad esempio, che un Homo sapiens che ha scritto un tale libro non può che essere ancora una Scimmia Primitiva. Evoluzione biologica: zero.
A compimento di due milioni di anni di evoluzione e miracoli, il teopiteco arriva a sostenere che «se fossero gli scienziati a dover decidere quali applicazioni permettere e quali no, saremmo in un mondo realmente giusto e veramente libero» (p. 37), e che «è il potere politico che decide come usare i risultati delle scoperte scientifiche» (p. 38). Come se non esistessero personaggi quali John von Neumann, le cui belle gesta noi abbiamo narrato su queste stesse pagine in altra occasione6 e che Zichichi invece si limita ad additare come esempio di «scienziato cattolico che non pensò mai di abbandonare la sua Fede a causa di quello che scopriva e inventava» (p. 72). Una volta rimossi da Los Alamos von Neumann e i suoi compari, il laboratorio rimane deserto e Zichichi può popolarlo impunemente dei fantasmi della sua mente, inventandosi questa bella novità: che «il padre della bomba che distrusse Hiroshima e Nagasaki è Hitler» (p. 184)!
Il Professore ci assicura, comunque, che «le grandi novità non capitano tutti i giorni, ma di rado. Mediamente, una volta ogni cento anni» (p. 117). Il che dimostra che le sue opere, che purtroppo infestano il mercato a scandenze ben più ravvicinate, non sono certo grandi novità. L’autore invece certamente lo è: finora avevamo infatti sentito parlare di incarnazioni di vario genere, ma mai di una barzelletta.
NOTE
- Citato in Helen Dukas e Banesh Hoffman, Albert Einstein: the human side, Princeton University Press.
- Qui e in seguito i corsivi delle citazioni sono nell’originale, la cui originalità è effettivamente innegabile.
- Zichichi gioca subdolamente sulle parole, e intende per «antimateria nucleare» un «nucleo di antimateria». Egli ha effettivamente scoperto nel 1965 il primo antinucleo (dell’idrogeno), ma il risultato è molto meno rilevante di quanto egli voglia far credere: non si trattava più della prima antiparticella o del primo antinucleone, scoperti appunto da Anderson, Chamberlain e Segrè, nessuno dei quali egli si degna di citare; e non si trattava ancora del primo antiatomo (dell’idrogeno), scoperto al CERN da Emilio Macrì «negli anni novanta».
- «La bomba USA» in La Rivista dei Libri, Dicembre 1999, pp. 34-35.
- «Zichicche» in La Rivista dei Libri, Settembre 1994, pp. 11-12.
- «L’apprendista stregone» in La Rivista dei Libri, Gennaio 1996, pp. 12-13.