di Piergiorgio Odifreddi
Nell’ultimo numero della prestigiosa rivista Le Scienze, in edicola in questi giorni [era il numero di dicembre 1998, NdR], Tullio Regge si fa portavoce della delusione dell’ambiente scientifico per l’atteggiamento di chiusura che Karol Wojtyla ha mostrato nella sua tredicesima enciclica, la Fides et ratio. Tullio Regge nota che le posizioni papali costituiscono un passo indietro rispetto alle recenti aperture nei riguardi della cosmologia e dell’evoluzionismo, e conclude con una tirata d’orecchi ai mass media, che avevano alimentato speranze eccessive. Alla lettura del fisico, desidero affiancare qui come complemento quella del matematico. L’enciclica traccia a grandi linee la storia della filosofia occidentale, dal punto di vista dei rapporti fra fede e ragione. Dichiara Agostino il più alto pensatore che l’Occidente abbia conosciuto. Sulla scia di Leone XIII, ripropone Tommaso d’Aquino come maestro di pensiero e modello di filosofo. E rimuove tutto ciò che è stato pensato in seguito, perché falso ed erroneo.
Giovanni Paolo II ribadisce esplicitamente i pronunciamenti del Concilio Vaticano I contro razionalismo e fideismo. Riprende le condanne di Pio X, XI e XII contro il fenomenismo, l’immanentismo, l’agnosticismo, il marxismo, l’evoluzionismo e l’esistenzialismo, e del Santo Uffizio (oggi ribattezzato) contro la teologia della liberazione. Censura di suo l’eclettismo, lo storicismo, il modernismo, lo scientismo, il pragmatismo, il parlamentarismo e il nichilismo. E proclama che i dogmi formulano una verità stabile e definitiva, non solo pragmatica e funzionale. Della scienza, Wojtyla parla poco. Non sorprendentemente, visto che egli ritiene che essa si basi sull’evidenza e sugli esperimenti, e che tutta l’attività speculativa dell’intelletto appartenga invece alla filosofia. Benché sembri impossibile, il Papa dimostra dunque di non aver mai sentito parlare neppure di Einstein e della scoperta della relatività generale: una teoria completamente speculativa, apparentemente contraria ad ogni evidenza, e le cui conferme sperimentali dovettero attendere molti anni!
Naturalmente, in Vaticano è invece ben conosciuto Galileo. Sull’imbarazzante vicenda del suo processo, che ha offuscato la credibilità della Chiesa per secoli, la Fides et ratio mantiene il più rigoroso silenzio. Con un voltafaccia che appare francamente eccessivo, Wojtyla cita invece Galileo come un precursore delle posizioni del Concilio Vaticano II sulla compatibilità delle verità di fede e scienza! Salvo poi smentirsi immediatamente, reiterando la posizione del cardinal Bellarmino che molti scienziati, sbagliando, avevano pensato ormai superata: i fedeli non hanno il diritto di difendere come legittime le opinioni ritenute contrarie alla dottrina (ad esempio, il già citato evoluzionismo), e devono invece considerarle come errori. La scienza è comunque toccata dalla Fides et ratio solo in maniera marginale, perché l’argomento dell’enciclica è la verità, e dunque la logica. L’affermazione centrale è che, attraverso la fede, la ragione riceve i fondamenti metafisici che le permettono di elevarsi verso la contemplazione della verità. Wojtyla sostiene che fra fede e ragione non esiste competitività, perché esse sono complementari e non contrapposte: da qui deriva la condanna di quei sistemi filosofici che, sottovalutando o sopravvalutando la ragione, si concentrano indebitamente su uno solo dei due termini.
La debolezza essenziale della ragione è di essere incapace di arrivare da sola alla verità. Wojtyla fa derivare questa limitazione dal peccato originale: nel Paradiso Terrestre non sarebbe stato così, ma dopo la caduta questa sarebbe divenuta la condizione dell’uomo. Già Kant aveva diagnosticato la debolezza della ragione, senza scomodare la Genesi, e questa posizione è sostanzialmente condivisa da una buona parte della filosofia contemporanea.
La logica moderna concorda pienamente, con una differenza essenziale: le sue posizioni non si basano né su miti, per quanto sacri e ispirati, né su opinioni, per quanto articolate o plausibili, ma su fatti matematici, rigorosi e inoppugnabili. Più precisamente, nel 1931 il logico austriaco Kurt Gödel ha dimostrato che nessun linguaggio è in grado di arrivare indirettamente alla verità assoluta, attraverso i suoi argomenti, e nel 1936 il logico polacco Alfred Tarski ha dimostrato che nessun linguaggio è in grado di descrivere direttamente la verità assoluta, attraverso le sue definizioni.
Nel 1998 il papa polacco Karol Wojtyla ritiene invece che l’incarnazione di Cristo abbia restaurato l’abilità paradisiaca della ragione, e che questa sia ora in grado di raggiungere la verità assoluta attraverso la fede. L’incompatibilità fra il magistero e la logica è dunque insanabile: i teoremi di Gödel e Tarski sono un prodotto della ragione, ed è la ragione stessa a mostrare che niente la può aiutare in un impossibile compito.
A questo conflitto di interessi ci sono solo due soluzioni: affidarsi alla sola ragione, o alla sola fede. Condannandole entrambe, nelle vesti del razionalismo e del fideismo, la Fides et ratio dichiara esplicitamente la propria inconsistenza. Il Papa spiega, comunque, che la sua è una scelta forzata: la struttura dogmatica della fede cattolica corre infatti il grave pericolo, dinanzi a una ragione debole, di essere ridotta a mito o superstizione.
Con un anacronismo sconcertante, a fine millennio Giovanni Paolo II propone dunque di ritornare al suo inizio, rimuovere secoli di conquiste del pensiero, rieleggere la scolastica a sistema, e dimenticare che proprio il suo scacco ha liberato sia la fede che la ragione, permettendo la nascita sia del protestantesimo che della scienza. Evidentemente egli sa bene che su questa mortificante strada lo seguiranno in molti, perché troppi sono coloro che non hanno a cuore la dignità né della fede né della ragione.