di Diego K. Pierini
Spesso si discute circa le potenzialità polemofore delle religioni monoteiste. Se può essere deprecabile, o quantomeno errato nel suo non cogliere la centralità del problema, l’approccio marxista, che contesta alle grandi fedi la loro natura “narcotica” nei confronti dei popoli, va rimarcato come si tratti di una verità storica difficilmente smentibile il continuo affiancarsi di fede e conflitti. La situazione internazionale odierna d’altra parte pare avallare in modo fermo la problematica in questione. Si tratta però di un avallo carico di elementi fuorvianti, primo tra tutti l’approccio, figlio di un retaggio xenofobo e anacronistico, secondo cui le colpe di questa conflittualità andrebbero ascritte alla particolare natura della religione islamica. Secondo l’opinione corrente infatti, le basi teoriche delle sacre scritture musulmane, laddove non presentino esplicito invito, sono aperte alla proliferazione di atteggiamenti integralisti di marcato stampo violento. Appare chiaro come l’infedeltà sia trattata in modo diverso rispetto all’atteggiamento, centrale nelle scritture cristiane, della tolleranza. C’è l’errore di fondo della confusione tra potenza e atto, in queste tesi: senza tirare in ballo la storia, è facile notare come architetture teoriche e ideologiche (quindi anche religiose) apparentemente immuni da fraintendimenti sono state spesso impugnate – previa consapevole distorsione – in favore di atteggiamenti violenti o comunque lesivi delle libertà umane. Quello che intendo dire è che la religione musulmana contiene in sé i germi pericolosi dell’integralismo, ma non ha all’interno sufficienti agenti autonomi per scatenarli in modo così virulento. D’altra parte anche la tecnologia, sosteneva Heidegger, contiene in se stessa più di una istanza all’uso mortifero delle strumentazioni che produce, ma in nome di un miope e comunque unilaterale progressismo la società occidentale si è sempre mostrata lungi dal prendere in considerazione (non calcoliamo le minoranze poco incidenti, altrimenti chiaramente non avrebbe senso sviluppare un discorso del genere) l’ipotesi di censurare o peggio abbandonare le strade dello sviluppo. Eccezion fatta – mi si passi il sarcasmo – proprio per quelle aree delle scienze le cui potenzialità di sviluppo incorrevano in sanzioni religiose e non etiche (si vedano alcune branche della biogenetica). Questo non solo fa notare come la potenzialità di un elemento accettato e in pieno sviluppo non possa essere confusa con le sue degenerazioni, ma rende anche conto dello strano fenomeno secondo cui la popolazione occidentale accetta fedi di carattere diverso (la fede nella tecnica) senza porsi l’effettivo problema di quali potenzialità possano essere intraviste da un osservatore posto in una differente prospettiva. La minaccia musulmana è ben presente a tutti noi, come forse alcune delle minacce del vivere occidentale sono ben presenti al terzo mondo: ma le potenzialità, non essendo verificabili in modo diretto, vengono semplicemente trascurate – a meno che non siano chiaramente visibili a noi. Ricollegandomi poi alla mia uscita sarcastica, notiamo come sia ancora presente in società un approccio che privilegia il bilancio etico operato su basi teologiche. Questo non può non far riflettere: la nostra disposizione ad obliterare le nostre categorie razionali in virtù di posizioni fideistiche rende chiaro come il nostro conflitto con altre forme di religione non possa essere unilateralmente causato. E, peggio, ci fa notare come non si possa né analizzare, né tanto meno giustificare, con puri strumenti razionali – laddove abbiamo notato che le scienze, corpus eminentemente razionale, subiscono comunque lo scacco di posizioni logicamente meno probanti.
Tornando però al punto focale della questione: il problema è insito nella natura stessa della religione monoteista – ovvero di tutte le religioni appartenenti a questo ramo. Non è probabilmente un caso che siano state abbracciate dalla maggior parte delle popolazioni mondiali, specialmente quelle più civilizzate (secondo i canoni di cui siamo in possesso). Si tratta infatti delle religioni più adatte a sorreggere lo spirito, con il loro bagaglio di certezze e con le loro strutture semplici e piramidali, estremamente gerarchiche ed in ultima analisi patriarcali, in tempi in cui la confusione e lo smarrimento umano di fronte al complicarsi e allo stratificarsi delle strutture sociali, internazionali e civili si fanno più opprimenti. L’affermazione dell’uno, la riduzione dei complessi microsistemi che presiedono alla vita all’autorità singola di un gerente, l’eliminazione delle frange del caso e delle simmetrie con le relazioni umane che infestavano i pantheon pagani (si vedano le aperture alla sorte, l’imperscrutabilità tutta umana delle vicende olimpiche): tutto questo serve a rendere più fruibile e più solida la fede. Psicologicamente, questo rappresenta un appiglio molto più valido contro l’aumento sproporzionato delle minacce sociali, degli scontri culturali, delle tensioni internazionali. Tutti eventi questi, dovuti anche ad una questione radicale, ineliminabile e primaria come l’aumento incredibile della popolazione mondiale, la riduzione progressiva delle risorse, il contatto sempre più continuo tra realtà incompatibili. La religione è il più grande scudo per l’identità, nonché il più efficace tonico per gli animi fiaccati dal buio di un destino imperscrutabile e sempre più in balia di eventi non intelligibili. Difficoltà comunicative, stridori tradizionali: è l’entropia generata inevitabilmente dal progredire del tempo, dalla nostra permanenza sulla superficie terrestre, dal rimescolarsi continuo delle carte dell’universo (inteso come tutto ciò che è reale).
Accennato alla non casuale concomitanza di espansione delle società strutturate e sopravvento della fede monoteistica, va ora visto per quale motivo questa fede possa essere indicata come principale causa dei conflitti – o, quando non sia così, come inevitabile agente concomitante.
Per semplicità elenco di seguito quali sono i quattro motivi – per poi dare uno sviluppo maggiore all’argomentazione: A) il carattere personale di ogni forma di fede, B) l’affermazione di unicità, del Dio, e della religione stessa, C) la svalutazione della sopravvivenza terrena in favore di una non comprovata esistenza ultraterrena, D) l’eccessivo ricorso alle petizioni di principio nel determinare i valori da perseguire, che non possono così essere messi in discussione o al vaglio di una analisi razionale che possa stabilire con fermezza un bene e un male accettato universalmente.
Il punto A è probabilmente quello meno pertinente a questa disquisizione, in quanto appartiene praticamente a tutte le religioni ufficiali e non. Il problema è che questa caratteristica funge da amplificatore alle altre, aggravandone gli effetti in virtù dell’aspetto estremamente sfuggente e poco governabile delle verità di fede. Il modo di vivere ed interpretare la religione, la maniera di agire sarà sempre e comunque una questione privata, al di là della nutrita precettistica. La casistica dell’azione non può mai essere enumerata esaurientemente, e questo comporta che ci sia un più o meno frequente ricorso alle rielaborazioni del principio e alle valutazioni morali che appartengono all’individuo. In un caso non contemplato – non ancora, o non contemplabile, o semplicemente sconosciuto all’agente – l’individuo, o il gruppo sociale, si trova ad agire cercando di creare un valore suggerito dalla religione, ma assumendo una strada che dipende sia dalla precisa descrizione del valore in questione in possesso degli agenti, sia dalle singole valutazioni delle parti componenti l’azione stessa. Volendo agire per il bene, secondo un dogma o un’indicazione, anche ammesso che le descrizioni di “bene” siano esattamente identiche nel corpus teologico e nella mente dell’individuo, una persona si trova a calcolare tutta una infinita serie di contingenze secondo le sue strutture e non quelle della religione. In un parallelo con la fisica, si potrebbe affermare che questa flessibilità della fede renda molto ampia l’incidenza dell’errore sperimentale. Ho volontariamente tralasciato, in questa fase, la questione relativa a tutti coloro che fanno poi della religione un fatto privato anche nel senso di accettazione di alcuni dogmi piuttosto che altri, o nel senso di confessioni religiose non esattamente coincidenti con il corpus teologico accettato come ufficiale. Volendolo affrontare, si entrerebbe in una interminabile galleria di eresie, scismi, lotte e violenze. Tornando alla premessa comunque, va ammesso che questo tratto appartiene ai culti monoteistici quanto a quelli politeistici. Due sono però le differenze (senza trascurare che l’effetto diviene più virulento in quanto si tratta, come detto, di un moltiplicatore applicato a fattori – B, C, D – molto più rovinosi): la prima è che in religioni di fatto meno coerenti e solide nei loro dogmatismi (gioco forza: era impossibile gestire senza contemplare ed accettare contraddizioni dei sistemi panteistici estesi) questo fenomeno era praticamente automatico, e poco importavano le divergenze più sottili per un culto già ricco di divergenze interne; la seconda è che di fatto le religioni politeiste avevano molti più punti di contatto con la realtà naturale, ed il più delle volte erano dei sistemi paralleli alle strutture fenomeniche della realtà. Quindi più che di distorsione, si poteva parlare in un certo senso di relativismo: fa parte infatti della realtà stessa suscitare impressioni differenti nei singoli osservatori. Gli effetti di questi aspetti sulla discussione mi sembrano chiari.
Venendo al punto B, si entra invece nell’area di pertinenza esclusiva delle religioni monoteiste. In realtà il problema si divide in due sottocategorie. Primo: le religioni monoteiste affermano con potenza l’esistenza di una sola religione. Questo automaticamente significa smentire ogni forma religiosa alternativa. Poco importa, a questo punto, che si entri in un’ottica di tolleranza: la verità è riposta in una sola parte del mondo, e deriva da una causa superiore a qualsiasi dibattito umano. Nel momento stesso in cui si professa fede monoteista, si accetta questo primo e fondamentale dogma, che ha come corollario la smentita di ogni altro e, cosa più grave, l’affermazione di errore, infedeltà ed in un certo senso inferiorità di una persona di confessione differente. Inferiorità perché si presume che chi non possiede la verità sia condannato a vivere in una falsa credenza, in un sistema di riferimenti errato, e questo non può che essere considerato come fattore di inferiorità. Chi è disposto a negare che una persona che crede una cosa evidentemente falsa, o che sappiamo per certo esserla, non si trova a vivere in una realtà menomata? Se sostenessi che le api sorgono per bugonìa dalle carcasse dei bovini probabilmente attirerei sguardi compassionevoli e verrei considerato un povero folle. Senza arrivare a questi eccessi, i miscredenti vivono, agli occhi dei credenti, in una realtà handicappata, mutilata di alcune peculiari caratteristiche e soprattutto di una costellazione di valori emanati dalla realtà divina. Insomma, si tratta di ciechi da guidare, magari anche a strattoni: gesto caritatevole, ma lesivo delle libertà e che suppone comunque una inferiorità – non umana, magari, ma di capacità di relazionarsi al mondo. In fondo anche un cieco è oggetto delle nostre azioni di beneficenza, ma è costretto a farsi guidare. Siamo noi ad arrogarci il diritto di decidere per lui – in questo caso a ragione, perché supponiamo che da parte sua ci sia una ammissione di handicap, ed una implicita richiesta di alienazione delle decisioni che non può prendere. D’altra parte questo fatto è dimostrato anche da alcune prove linguistiche: pecore smarrite, anime da salvare, tolleranza. Concetti che dentro di sé portano valori positivi, senza dubbio, ma presuppongono l’affermazione di una posizione di partenza non paritaria. E questo è lesivo della dignità di gruppi sociali tanto vasti. Nel momento in cui ammetto di tollerare qualcuno, dichiaro che questo qualcuno agisce in una maniera che non è quella che considero giusta (ed in questo caso non si può tirare in ballo alcun tipo di soggettivismo: la mia opinione coincide con la verità, poiché io sono stato illuminato dalla fede). Non pensa il vero. Tollero i capricci di un bambino, magari con la massima benevolenza, ma rimane un bambino.
L’altra metà del problema è più superficiale ma non meno perniciosa: l’affermazione dell’unicità del Dio mette al sicuro la pregnanza dell’affermazione precedente, poiché esclude ogni possibile via di fuga logica da essa. Senza questo, si sarebbe potuto giocare sull’esistenza di diverse divinità, sulle possibili contraddizioni, sulle falle del corpus dei dogmi o semplicemente sulle zone d’ombra nelle certezze proposte dalla fede. Chiaramente una religione politeistica presenta molte più aree in cui l’arbitrio umano può inserirsi con le sue elaborazioni. Il monoteismo no: esclude tutto ciò che non sia Dio. Oltretutto, ricollegandosi alla premessa iniziale fatta in apertura, l’unicità di Dio, assieme all’unicità della fede, viene affermata in modo così esclusivo e netto da rappresentare un valido incentivo – ad una analisi psicologica – alla cieca e caparbia affermazione del possesso della verità. La forza del dogma, necessaria alla sopravvivenza di una religione che postula una struttura di leggi, cause ed effetti totalmente aliena alla realtà, basandola su una teoria che parte e si sviluppa su assiomi le cui radici non possono essere trovate e/o dimostrate nel mondo fenomenico (contrariamente ai politeismi, i cui concetti base spesso trovavano riscontro nella natura), ha il suono della sorda imposizione. Questa è l’unica verità. Chi non la segue non ha visto la luce. Più intollerante di così…
Si viene così a trattare il punto C. Come già accaduto per A, e come già riscontrato anche per altri elementi, la svalutazione della vita terrena è in sé un elemento non così visibilmente attivo nel produrre rischi di conflitto, ma opera sinergicamente con le altre caratteristiche in maniera devastante. Anche ad un occhio distratto, sarà chiaro come una religione che, stando al punto B, propone una visione collateralmente intollerante, non possa che aggravare il suo potenziale dannoso nel momento in cui l’esistenza terrena viene a perdere valore. Le due questioni non sono legate, alla loro radice, o per lo meno non presentano connessioni rilevanti ai fini di questa disquisizione. Ciononostante il problema è serio e va ben oltre tutte le presunzioni pacifiste delle varie religioni. Si può contestare, con una certa pertinenza tra l’altro, che esiste in questo caso una radicale differenza tra culti che privilegiano il sacrificio della propria vita e quelle che non lo negano, fino a giungere alle religioni che sostengono l’inalienabilità stessa della vita umana, concepita come il massimo bene esistente. La posizione qui descritta è valida, e rappresenta senza dubbio una verità di fatto: esistono confessioni la cui spinta verso l’oblio è più forte, altre per cui invece non esistono apparentemente motivazioni valide per causare la fine della vita terrena – sia nell’agente che nell’oggetto eventuale dell’azione. Per questo, ad esempio, si può considerare la religione Cristiana un culto appartenente a questo terzo tipo, condannando essa sia l’omicidio che il suicidio. Ci sono però delle via di fuga a questa posizione, vera ma parziale, secondo cui il problema della spinta verso la morte non sarebbe estendibile a tutti i culti monoteisti (tralascio volontariamente la disamina del problema relativamente ai politeismi: alcuni presentano questo tratto, altri no – ma in ogni caso non esistendo i caratteri A e B, il peso specifico di C non è lontanamente paragonabile all’interno della questione affrontata).
Innanzi tutto bisognerebbe condurre una indagine esegetica e analitica decisamente approfondita a proposito di quei monoteismi che si sostiene propongano con forza la possibilità di causare la morte in altri esseri viventi. La posizione popolare è netta e chiara, ma spesso non supportata né da conoscenza diretta delle scritture, né tanto meno da una prospettiva culturalmente valida – senza considerare i motivi di pregiudizio indotti dalla storia o dalla disinformazione. Sospendo in questo caso il giudizio sulla questione, non essendo in grado di fornire un’opinione della necessaria competenza. Mi limito a rilevare l’opinione diffusa, tra alcuni studiosi di estrazione culturale differente da quella corrente nell’area geografico cui appartengo, secondo cui i giudizi di valore rispetto – ad esempio – alla religione Musulmana sarebbero ben lungi dall’essere corretti. La posizione espressa è chiaramente legittima, e per un puro fatto statistico, deve quanto meno instillare il dubbio nelle nostre menti, senza considerare anche un’altra questione, ovvero le differenti strutture che presiedono all’assegnazione dei valori. Un giudizio etico dipende chiaramente sia da principi primi universalmente condivisi, sia da corollari o addirittura assiomi scaturiti da una storia filogenetica differente. Il bagaglio culturale di popolazioni tanto differenti non può che incidere in modo rilevante sulle nostre capacità di definire cosa sia buono, e cosa non lo sia. Quindi: difficile avere una vera conoscenza, difficile esprimere una posizione imparziale, difficile anche soltanto capire le ragioni su cui si elabora tale opinione. In questo senso incide anche una prospettiva teoretico-linguistica: ogni elaborazione analitica non può prescindere dalle posizioni ontologiche che in ultima analisi sono radicalmente diverse in base ai nostri sistemi razionali e linguistici. I parametri possono essere distanti, ma sono proprio le architetture categoriali a divergere in modo determinante. Quindi questo punto presenta una sorta di invalicabile – almeno per le mie competenze, ma sono propenso a dire per tutti – zona di stasi aporetica.
Ammesso ora che spesso la nostra opinione risulta inquinata da presunte verità in realtà inesistenti se non errate, vorrei concentrarmi su un equivoco psicologico assai spinoso, che crea una contraddizione importante nelle religioni come il Cristianesimo.
La contraddizione vige tra il dogma e le potenzialità logiche della religione stessa: da una parte si sostiene la massima importanza della vita come bene primario, quindi si viene ad introdurre, con le Scritture, un sistema di valori totalmente estraneo a quello terreno, una sorta di super-mondo in cui il bene massimo è qualcosa di altro, che riduce quindi drasticamente il peso della vita stessa. Il fedele si trova compresso in questa situazione: da una parte si trova a porre la sua credenza al servizio di una regola divina, da perseguire con costanza e abnegazione (il divieto di uccidere); dall’altra la sua mente, quando anche solo minimamente capace di deduzioni logiche, elabora nel subconscio la consapevolezza che se in effetti esiste un mondo diverso, scollegato dai nostri beni, dai nostri valori, dai nostri desideri terreni – che sono ciò su cui si è costruito tutto l’apparato valoriale tradizionale e sociale – allora in questi termini la vita terrena vede la sua importanza ridursi drasticamente. Insomma: se in fondo la cosa veramente importante appartiene ad un mondo alieno logicamente al concetto di beni terreni (tra cui c’è la vita), posso sperare (nel momento in cui a morire sono io) in una vita futura, o ammettere la possibilità che nel mondo post-morte possa esistere una dimensione migliore o quantomeno pari a questa per colui che uccido. La volontà viene fiaccata, l’attaccamento alla vita ridotto, e la strenua difesa della propria esistenza subisce un colpo fatale nel momento in cui si ammette che forse nell’aldilà ci sarà un mondo diverso e migliore. Esistono numerosi esempi di questa posizione, a partire dalle liturgie, fino alla letteratura eroica, passando per la consapevolezza popolare: un vero credente accetta la morte in modo più sereno, proprio perché essa non rappresenta la vera fine. Con questo principio, però, non si dà il reale peso a quanto credono tutti gli altri: la vita è il bene ultimo, da conservare ad ogni costo (intendendo per vita la vita con un buon grado di potenzialità tecniche: è mia precisa volontà escludere da questa trattazione la casistica relativa all’eutanasia, ad esempio). Un fedele non può quindi rendersi conto che spegnere una vita non significa soltanto privare di un bene preziosissimo, ma vuol dire annichilare, ridurre a zero, addirittura rendere inesistente al massimo grado ogni sistema di valori, ogni giudizio, ogni altra considerazione: perché alla fine della vita, per il materialista, c’è solo il nulla. Nulla non come nuovo stato di esistenza, ma nulla come assoluta non-esistenza. Chiaramente a questo punto è palese come una religione intollerante, che per giunta non arriva a considerare come massimo bene la vita terrena, non possa affrontare con le giuste armi analitiche il concetto di guerra. Ciò significa che non lo può escludere, per il semplice motivo che da una parte c’è la spinta attiva (intolleranza, presunzione di verità) alla polemica, mentre dall’altra c’è il polo negativo di questa predisposizione allo scontro fatale, ovvero la non-negazione intrinseca (e questa è una posizione che appartiene come detto alle elaborazioni subconscie) della morte.
Una critica superficiale a questa teoria potrebbe subito proporre due controargomentazioni: la prima si basa sull’affermazione di massima forza del dogma. Secondo questa la regola, la parola divina sarebbe in grado con la sua sola forza di distogliere il fedele dalla svalutazione della vita. Insomma: la vita non vale così tanto (consapevolezza analitica, acquisita grazie ad un percorso razionale subconscio), ma è assolutamente necessario non alienarla ad alcuno perché questa è la legge rivelata. Si tratta di un appello alla coscienza (sanzione interna) ancor prima che alla fedeltà al dogma. Senza dubbio questo riduce il pericolo, ma non lo annulla. Esistono molti esempi nella storia, anche appartenenti ad altri ambiti: quasi mai la legge pura e semplice è riuscita a prevenire certe categorie di azioni, anche quando in suo aiuto è venuta tutta quella costellazione di sentimenti sociali e abitudini tradizionali/culturali ad essa consonanti (che comunque non sarebbero da addurre alla religione e quindi non funzionerebbero come argomentazioni a suo pro). Proprio per questo è sempre stato necessario introdurre la cosiddetta “sanzione esterna” (punizione) per prevenire ogni sorta di crimine. Non vedo quale potrebbe essere la motivazione che ci possa far avere maggior fiducia in questa possibilità rispetto a quanto è accaduto in tutta la storia umana. Forse dovremmo credere che improvvisamente l’uomo sia diventato il più ligio osservatore di ogni legge divina, finanche una che contraddice chiaramente le sue deduzioni logiche (la vita terrena non è il massimo bene)? Dovremmo ammettere la perfezione della fede umana: cosa difficile da fare, anche per il più inguaribile degli ottimisti. Pare poi che proprio chi ha elaborato le scritture non avesse esattamente una fiducia estrema nella suddetta perfezione della fede, tanto che ha ritenuto necessario introdurre nel corpus sacro anche numerose forme di punizione. Si slitta qui nella discussione del secondo controargomento, che si ricollega proprio (in un ipotetico parallelo con i sistemi di leggi naturali e sociali) al concetto di sanzione esterna. Le religioni monoteistiche che cercano di dissuadere dall’omicidio/suicidio, per ovviare alla loro falla “teorica” hanno introdotto quindi una forma di punizione, costruita sulle basi del dogma: privare della vita è peccato capitale, e porta alla dannazione eterna. Ammesso che questa possa avere sufficiente forza, trattandosi di una forma di punizione che si appoggia al mito, e a un mondo non tangibile, vanno fatte alcune precisazioni. In primo luogo, non è secondo me pregnante la contestazione secondo cui dubitando dell’efficacia di questa sanzione in quanto appellantesi ad un mondo indimostrabile si dubiterebbe anche della effettiva svalutazione della vita – che poggia effettivamente sul postulato dello stesso mondo. Ci sono due motivi per questo: il primo è che la proliferazione di descrizioni fantasiose, demoniache, esagerate in altre parole, delle pene si è scaduti nell’ambito della leggenda fino a raggiungere quello della fantasticheria – molto più per quello che riguarda le pene che per quanto concerne la generica “vita ultraterrena” (questo anche in virtù di una maggior predisposizione umana a fantasticare in modo vivace circa questi argomenti macabri e grotteschi che su altro). Il secondo è che in effetti c’è una differenza logica tra l’effetto della costruzione fantastica sulla struttura della sanzione e quello sulla struttura dell’aldilà: nel primo caso non esiste infatti una connessione sinergica con altri elementi tale da rappresentare un elemento così decisivo nella questione della spinta al conflitto (sinergia cui ho più volte fatto riferimento), cosa che invece esiste nel secondo caso. Inoltre tra il meccanismo della dissuasione (non compiere atti contro la vita) e quello della speranza (oltre la morte ci sarà qualcosa di superiore) esiste secondo me una profonda distinzione relativamente all’efficacia dell’elemento fantastico. Se la punizione non è provata, avrà decisamente meno forza (forse anche nulla) l’eventuale minaccia di ritorsione; se il mondo dell’aldilà non è provato, rappresentando una seconda chance – si tratta di una osservazione psicologica – cui potersi appellare in caso di serio rischio di morte (o di prossimità della stessa), la psiche sarà comunque propensa a cercare in esso una scappatoia emotiva. Insomma, in condizioni di necessità, la nostra fantasia si assesta sulla credenza. Prova di questo genere di atteggiamento è il numero infinito di persone atee o agnostiche che decide in extremis di abbracciare una fede, di tentare in quel momento unico e irripetibile che precede la morte di aver fede in una chance. La speranza, di fronte alla morte, è l’unica via di fuga plausibile. Con questi due chiarimenti credo di aver mostrato per quale motivo questa riflessione non può incidere in maniera negativa sulle argomentazioni precedenti.
Rimane tuttavia da mettere in luce un altro punto, relativo all’inefficacia della sanzione esterna come mezzo per chiudere alla logica plausibilità dell’omicidio all’interno dei grandi monoteismi. Si tratta del pentimento. La religione cristiana, esempio classico, per tutti i fedeli, di monoteismo in grado di spingere alla benevolenza e prevenire con la sua attitudine pacifista e amorevole i conflitti, rappresenta anche l’esempio più vivido di totale inutilità della minaccia della dannazione eterna. Tutto questo ha una semplice causa, ovvero il contraddittorio colpo di spugna finale con cui la religione in questione rende vano tutto il sistema educativo precedente: il pentimento ed il perdono. Ogni credente può aver salvo il destino con la sincera contrizione. Se questo è moralmente accettabile, se ha una presa emotiva di sicuro effetto, sebbene possa essere ammesso in un’ottica benevola e utopica come quella profilata dalla religione – che a livello puramente teorico potrebbe anche essere plausibile – sul piano pratico gli effetti sono devastanti, soprattutto in considerazione della reiterabilità del meccanismo. L’agente peccatore potrà senza dubbio pentirsi in un secondo momento, grazie al tempo a disposizione per analizzare, comprendere, imparare tutto ciò che è correlato al danno fatto (si tratta di un fenomeno eminentemente legato all’educazione civile e morale – ambiti che bastano tra l’altro a chiarire perché in molte società politeistiche la violenza fosse così presente: si trattava di società civilmente molto più arretrate), ma nel frattempo il danno sarà comunque stato fatto. Il semplice piano del giudizio non basta a mantenere l’uomo nella condizione di agire nella legalità (anche se si tratta di legge divina): serve un indirizzo etico sul piano prescrittivo, e questo non può esistere senza un incisivo sistema di sanzioni. La sanzione in sé infatti non ha (esclusivamente, o completamente) il ruolo di fornire all’agente i mezzi per comprendere il male fatto e poi pentirsi, bensì serve proprio nel caso in cui la coscienza attiva (ovvero la sanzione interna), prima dell’azione, abbia delle falle. Quindi a livello analitico non ha alcun senso dire che soltanto il vero pentimento può portare alla salvezza, perché in effetti sanzione e pentimento sono pertinenti a due dimensioni morali differenti e non sono affatto incluse all’interno di un sistema logico in cui una esclude l’altro o il suo contrario. Un esempio: (tralasciamo l’azione delle sanzioni giuridiche, civili e simili – ragioniamo puramente in termini di religione) l’agente X decide di uccidere la persona Y, in un momento in cui la sua buona coscienza fallisce, non imponendogli di seguire il dogma. In questo frangente X non subisce l’effettiva pressione della minaccia della dannazione eterna, poiché sa che Dio perdona (e qualunque ragionamento faccia prima, anche puramente cinico come quello prospettato, il suo eventuale – e d’altra parte possibile o non escluso – pentimento sincero a giochi fatti potrà garantirgli la salvezza). Y muore, e X ha tutto il tempo, prima della sua morte, per poter rimettere in moto la sua coscienza che ha fallito. A quel punto la coscienza, individuato il buco, si mette in azione, portando X al reale pentimento (sono numerosissimi i casi di coscienza obnubilata per vari motivi). La religione gli deve quindi accordare il perdono. Quindi la sanzione non ha avuto peso nella causalità delle azioni.
Siamo ora giunti al punto in cui il culto monoteista risulta plausibilmente:
- personale e fallibile;
- intrinsecamente intollerante, foriero di verità immutabili, rivelate e uniche;
- incapace di rendere conto del reale valore unico (anzi: imprescindibile per l’esistenza di ogni altro valore) della vita terrena.
Il punto D è in un certo senso un’altra faccia del punto A, e serve a dare una conclusione alla disquisizione portata avanti.
Il monoteismo, come ogni forma di religione, richiede un numero impressionante di petizioni di principio. Laddove non si possono dare spiegazioni razionali, il fedele deve credere. Questo significa che la stessa potenza analitica della ragione viene a perdere completamente ogni tipo di vis argomentativa, col risultato che in ogni situazione di difficoltà, il fedele può appellarsi alla verità incontestabile garantita dal corpus dei dogmi. Ciò che ne consegue è che ogni teoria morale che si porti avanti sulla base di riflessioni empiriche, scientifiche, newtoniane o sociali finisce col divenire sterile. La categorizzazione dei valori non è possibile, ed il concetto della “dimostrazione”, necessario sia per opporsi ad un eventuale conflitto, sia (e questo è il fatto più importante) per porre in dubbio l’intera architettura delle verità teologiche, si vede depauperato di ogni ragion d’essere. Il dubbio come mezzo principe dell’evoluzione, della messa in crisi di posizioni accertate e pur erronee, di verifica continua dei processi mentali, di depurazione delle opinioni contraddittorie e/o semplicemente pericolose – il dubbio, in ogni sua più importante veste, ha nei suoi cromosomi due grandi geni imprescindibili, ovvero la razionalità ed il relativismo, due tratti praticamente sconosciuti ad ogni sistema religioso che voglia porsi come ufficiale, che voglia darsi una forma legislativa e para-temporale, che desideri intervenire con i suoi mezzi incompatibili nel processo di elaborazione della realtà. Per questo fatto (D), ovvero l’incapacità dei culti di usare la strumentazione teorica e filosofica propria di certe questioni (e lascia perplessi constatare come se fosse vero il contrario – tanto basterebbe - i punti precedentemente esaminati perderebbero molta della loro virulenza), le fedi monoteistiche sono e saranno sempre condannate a deragliare dai propri ottimi propositi nel confrontarsi con realtà la cui intima materia nasce da presupposti ontologici ed epistemologici ad esse sconosciuti o, peggio, grandemente invisi – ricadendo così indietro nelle proprie mancanze, nelle proprie presunzioni, nei propri rovinosi momenti di cecità (A, B, C).