Tre paragrafi riguardanti il rapporto tra scienza e filosofia tratti da un testo di natura filosofica: Pensieri circolari (riflessioni su tante questioni trattate dal pensiero filosofico (e sulla filosofia stessa) tutte modulate sul medesimo basso continuo: la vita della coscienza è uno sconcertante circolo vizioso), di Bruno Gualerzi
84. Scienza e filosofia
Cosa unisce e cosa divide scienza e filosofia? E perché affrontare una simile questione?
Perché i continui rimandi, ora in forma di rinforzo reciproco, ora d’insanabile contrapposizione, dell’una all’altra – per tanti aspetti scontati trattandosi di due forme di sapere che aspirano entrambe a una conoscenza “autonoma” – hanno dato vita proprio per questo a un circolo vizioso talmente difficile, se non da sciogliere (cosa impossibile), almeno da mettere a fuoco in modo da averne coscienza, da richiedere continuamente uno sforzo di ridefinizione dei rispettivi presupposti, e quindi dei rispettivi ambiti di ricerca. Sforzo di ridefinizione reso indispensabile quanto meno a partire dalla nascita della scienza moderna, quella definita come “galileiana”, là dove gli obiettivi di scienza e filosofia, proprio mentre sembrano differenziarsi però integrandosi, iniziano anche a sovrapporsi, a proporsi come alternativi gli uni agli altri. Cos’era accaduto?
“Filosofo” dovrebbe essere l’uomo che, in quanto essere pensante, considera la ragione non tanto e non solo uno strumento di cui si avvale per risolvere problemi connessi alla sua presenza nel mondo, provocati dal suo rapporto col mondo (ragione strumentale), ma anche, e soprattutto, considera la facoltà razionale da usare per indagare lo scopo, il fine, del mondo e di questa sua presenza nel mondo prima ancora del suo modo d’essere e di esserci. In altre parole, l’esigenza che muove il filosofo – almeno secondo tutta una tradizione – dovrebbe essere l’esigenza di conoscere il perché c’è ciò che c’è e accade ciò che accade (la loro “causa prima”), più che l’esigenza di conoscere il come (il modo) di ciò che è e accade. Ora, se è vero che la scienza moderna nasce puntando sul “come”, non solo non rinuncia per questo al “perché”, ma anzi, proprio nell’occasione della sua istituzione, ritiene che la conoscenza del “come” permetta di mostrare e dimostrare nell’unico modo possibile il “perché”… e così si è cominciato a disquisire se ciò sta a rappresentare il legame inscindibile e reciprocamente stimolante tra scienza e filosofia, o se invece ne sta a indicare, nonostante tutte le istanze di mediazione, l’insanabile contrapposizione in quanto ci sarebbe un tentativo di reciproca invasione di campo. Da cui la questione ancora aperta: possono, le ragioni della filosofia (la ragione filosofica), essere in grado di dare anche le indicazioni per descrivere il mondo (il come del mondo) e per risolvere i problemi – sulla base di questa descrizione – dei nostri rapporti con esso, oppure l’esigenza conoscitiva radicale (cioè l’esigenza conoscitiva fondante tutte le esigenze di conoscenza) propria della filosofia, in quanto destinata a rimanere pura esigenza, si preclude per questo ogni reale contributo a una descrizione del mondo?
Ci fu, e c’è, la risposta della mediazione, che è questa: è difficilmente pensabile potersi muovere in direzione di una descrizione senza che si sia spinti da motivazioni che comunque hanno a che fare con l’esigenza conoscitiva radicale e che quindi influenzeranno sempre la descrizione, per cui non si darà mai un “come” veramente in grado di prescindere di fatto dall’esigenza del “perché”. E ciò che accadde all’inizio con Galileo (il “come”, ma come verifica d’un “perché”), anche se non in modo così linearmente esplicito, così ingenuamente esplicito, è destinato a ripetersi, a dimostrazione che, scienza e/o filosofia, sempre prodotto dell’uomo che pensa sono e saranno…
Ma è stato anche risposto che la comune matrice (la conoscenza come esigenza imprescindibile) non impedisce in alcun modo, anzi lo impone, uno sviluppo storico in due direzioni opposte – come appunto in gran parte è avvenuto – fino a trasformare in senso costitutivo quest’opposizione. In altre parole, l’evoluzione del pensiero ha di fatto sancito una diversificazione/contrapposizione tale tra scienza e filosofia che solo accademicamente può essere ricomposta, creando per altro in questo caso solo perniciose confusioni.
Da che parte sta allora la verità, qualora non ci si volesse accontentare del riconoscimento, più o meno scontato, che entrambe le posizioni propongono porzioni significative di verità, ora facendo riferimento a ciò che verosimilmente potrebbe essere e in parte è stato, ora a ciò che ha costituito e costituisce una tendenza in gran parte vincente di segno opposto… qualora si volesse, in altre parole, provare a rispondere secondo le esigenze proprie della filosofia?
Non sembra esserci alternativa: tutto sembra ricondurre all’autentico tema (problema) filosofico che sottintende anche questo, cioè alla identificazione del circolo vizioso non più riducibile col quale confrontarsi. Circolo vizioso che si evidenzia proprio recuperando e leggendo da questo angolo visuale la stessa vicenda storica, là dove è accaduto che si è cominciato a discutere del “come” e del “perché” ritenendo di dover stabilire, o una priorità dell’uno sull’altro, o una interdipendenza. In realtà, né priorità né interdipendenza, né contrapposizione né mediazione, mentre invece ne risultò un continuo trasformarsi del “come” in “perché” e viceversa in uno scambio tra causa ed effetto la cui interruzione “d’autorità” è impossibile, mentre è possibile, o quanto meno doveroso, tentare di inserirsi nel circolo vizioso evidenziandone gli aspetti già presenti, si diceva, al momento del delinearsi della “rivoluzione” galileana. Cos’altro è una scienza, quella sperimentale, che privilegia la ragione strumentale, certamente per l’efficacia operativa che ciò consente, ma allo stesso tempo ritenendo – con lo stesso Galileo e con Newton, sia pure in forme diverse – di “dimostrare” in questo modo un ordine esistente nell’universo, del tutto indimostrabile, ma sempre ritenuto in grado di orientare, in quanto orizzonte obbligato, ogni operazione scientifica successiva? Cos’altro sono questi rimandi continui tra verifica e necessità di legittimare la verifica comunque, anche qualora – come fa il pragmatismo oggi dominante – si ritengano i risultati i soli probanti della validità dei presupposti e dei procedimenti (circolo vizioso nel circolo vizioso, perché i risultati sono a loro volta passibili di interpretazione, cioè di valutazione secondo determinati criteri), se non lo sbattere contro il muro contro cui deve andare a sbattere necessariamente ogni pensiero riflettente?
Un muro quindi che va continuamente affrontato, col quale la filosofia deve continuamente confrontarsi, soprattutto per evitare le ricorrenti illusioni, sia di poterlo scalare fino a superarlo, sia d’aver raggiunto quel compromesso che dovrebbe significare il suo abbattimento e che invece non fa che aumentare la confusione. Occorre, in altre parole, distinguere, cartesianamente distinguere, ma senza illudersi che la distinzione sia la soluzione definitiva di questa come di qualsiasi altra questione, ma anche senza illudersi che si possa fare a meno di operare una qualche distinzione.
85. Sulla seduzione della scienza
Lo sguardo gettato dalla scienza sull’universo – soprattutto le sue teorie elaborate sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo – sembra avere a più riprese confermato o smentito, “trattandole” scientificamente, alcune tesi filosofiche concernenti l’attendibilità della nostra rappresentazione del mondo, la sua possibilità a certe condizioni, o la sua ineliminabile illusorietà. Una delle più suggestive, e nella stessa misura delle più sconcertanti (e comunque ormai entrata, per quanto ostica, nel patrimonio conoscitivo di intere generazioni) di queste teorie riguarda proprio quella dimensione spazio-temporale nella cui gabbia sembra articolarsi la nostra esistenza: la verificata relatività di spazio e tempo rispetto alla percezione che ne abbiamo e la loro interdipendenza che toglie credibilità a ogni distinzione operata dalla nostra coscienza tra l’una e l’altra dimensione, sembra confermare quanto improbabile, quanto illusoria, sia una rappresentazione della realtà costretta a seguire queste coordinate, ma nello stesso tempo sembra smentire proprio la sua ineluttabilità in quanto ci rende consapevoli della possibile esistenza di dimensioni diverse cui potremmo accedere, e smentendo in particolare gli a-priori kantiani proprio in quanto pretesi a-priori…
Ma esiste o non esiste una differenza tra il dire, ad esempio, secondo certe tesi filosofiche da un lato, che la nostra percezione del mondo non può che essere frutto di una sua rappresentazione del tutto illusoria, tutta interna alla nostra coscienza, e tra il giungere da altro lato (la scienza), attraverso un percorso rigoroso, continuamente verificato e verificabile nei suoi passaggi, ad affermare, ad esempio, che “spazio in sé” e “tempo in sé” decadono a mere ombre, cioè che la percezione che noi ne abbiamo è perciò del tutto illusoria? Si tratta del giungere allo stesso risultato percorrendo strade diverse e usando diversi mezzi di trasporto, oppure questa convergenza è solo casuale, anzi, in realtà non è una vera convergenza non trattandosi di affermazioni aventi lo stesso significato? Ma poi, nel caso invece lo avessero, la validità della prima affermazione (quella filosofica) sarebbe confermata (o invalidata) solo dopo la verifica scientifica, mentre prima era solo un’ipotesi mai veramente verificabile? E qui, propriamente qui, in quest’ultima eventualità, sta tutta la seduzione della scienza, a un passo dal costringerci a considerarla l’unica vera conoscenza possibile, al punto da essere l’unica in grado di decidere se e quali affermazioni filosofiche sono accettabili e quali no.
In realtà le cose – se ci rimettiamo alla necessità di definire scienza e filosofia per potercele rappresentare con un minimo di distinzione, per poterne usufruire dopo averle “inventate” – non stanno così, da nessun punto di vista: né convergenza (casuale o inevitabile) in quanto le affermazioni dell’una e dell’altra hanno significati in nessun caso paragonabili, né priorità, superiorità, dell’una o dell’altra.
Intanto, se la scienza ha dimostrato la dipendenza di spazio e tempo dallo stato di moto di un corpo, quindi la loro relatività a quel sistema di coordinate in cui è inserito un corpo, non per questo ci troviamo di fronte – come è noto – a una “relativizzazione” di ogni proprietà fisica, perché punti fermi (come la velocità della luce nel vuoto) permangono, e sono decisivi proprio come invarianti. Per cui si ha un relativismo che non ha niente dell’illusorietà assoluta che caratterizzerebbe “il mondo come rappresentazione”: è un relativismo tutto interno a un sistema che si deve dare – per la scienza – sempre come chiuso, come compatto (oggettivamente chiuso, oggettivamente compatto) per scomponibile all’infinito che sia questa compattezza; si tratta solo di uno spostamento di punti di riferimento, adottando i quali – per la scienza – varierebbero le nostre percezioni, ma all’interno pur sempre di una loro “oggettività”. Gli a-priori kantiani cambierebbero natura, ma resterebbero come “a-priori”, e resterebbe intatta la possibilità di una realtà noumenica, di una “cosa in sé”. E in ogni caso l’esperienza che noi abbiamo del tempo manterrebbe intatto il suo impatto esistenziale, le scoperte scientifiche non alterando nella sostanza un tempo che, comunque si configuri per la fisica, è prima di tutto, per noi, il tempo della nostra esistenza. Per modificabile, quantitativamente e qualitativamente, che sia.
In secondo luogo, e in generale, non è che la scienza, ridisegnando ogni volta un universo di cui ciò che si riteneva era solo apparenza, cioè smentendo a più riprese ogni sua lettura ritenuta definitiva, metta ciò in relazione a una carenza strutturale, costitutiva, del nostro pensiero, ai limiti invalicabili della nostra facoltà conoscitiva, ma, al contrario, non fa altro che proporre una sempre più accurata approssimazione a una realtà che continua a considerare conoscibile, e comunque indagabile, nella sua oggettività…
E però – ecco la seduzione – certe sue straordinarie scoperte, quando arrivano a mettere in discussione in modo radicale un consolidato senso comune al quale ci siamo sempre aggrappati, che abbiamo sempre “vissuto” come inscindibile dalla condizione umana, sembra molto più efficace nel dimostrarci (e proprio “dimostrando”) i nostri inganni nella percezione del mondo – dai più banali («i sensi ingannano») ai più sottili – di qualsiasi argomentazione filosofica. Si pensi, per restare agli inganni meno evidenti, alla conclusione cui arriva Einstein, sintetizzata nel suo celebre aforisma sulla matematica, che recita: «Nella misura in cui le proposizioni della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe, e nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà». Non è una formidabile conferma della totale inadeguatezza degli strumenti concettuali che usiamo per leggere una realtà che crediamo di trovarci davanti e che invece ci sta spingendo alle spalle? E proprio mentre questi strumenti, come la matematica, si dimostrano di eccezionale funzionalità per agire sul mondo? Quale migliore “dimostrazione” (dimostrazione in quanto conclusione cui giunge uno scienziato) della pura convenzionalità della matematica, e in generale dell’autoreferenzialità della scienza? Se è la scienza che dice questo di sé, non è la parola definitiva cui debbono adeguarsi tutte le speculazioni epistemologiche relative alla questione?…
Ma le cose non stanno ancora una volta così. Certo, niente vieta allo scienziato, e proprio sulla scorta della sua pratica della scienza, di pervenire a considerazioni filosofiche, o comunque di straordinario rilievo filosofico, ma è innegabile che questo rilievo è costituito in massima parte, o del tutto, proprio dalla base scientifica da cui è emerso, e dal fatto che lascia intravedere infinite altre “scoperte” della stessa rilevanza. Ma è proprio qui, in seguito a questo ultimo rilievo, che ritorna valida la questione della non commensurabilità – pena una perniciosa confusione – delle scoperte scientifiche e delle conclusioni anche di rilievo filosofico che se ne potrebbero trarre, con le tesi filosofiche (la “non commensurabilità”, non certo la validità o legittimità): basta chiedersi dove portano le scoperte della scienza in termini di conoscenza della realtà. Se ne può intravedere una conclusione, un approdo definitivo? Assolutamente no: la scienza, per non negare se stessa, non deve nemmeno porsi la questione, mentre per la speculazione filosofica, se vuol restare tale, gli approdi definitivi, ancorché non raggiungibili, sono l’unico contenuto possibile, l’unico vero problema da affrontare. Ecco allora che la seduzione della scienza consiste esattamente nel far ritenere possibile il raggiungimento di una qualche conclusione filosofica, mentre invece essa stessa non può che procedere oltre. Ciò che ha detto Einstein sulla matematica assume significati molto diversi a seconda che lo si intenda come tesi scientifica o come tesi filosofica. E l’una non può fare da supporto all’altra. O lo può solo virtualmente, cioè in una dimensione “noumenica” in cui né la scienza né la filosofia manterrebbero una qualche funzione conoscitiva.
86. L’aforisma einsteiniano come circolo vizioso… e l’illusione forse più pericolosa
«Nella misura in cui le proposizioni della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe, e nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà». Al di là dell’occasione che ha indotto Einstein a formularlo e del suo rilievo scientifico, si provi a considerare l’aforisma einsteiniano come circolo vizioso… e però anche come circolo virtuoso.
Circolo vizioso. Fra la matematica e la realtà sembra non potersi istituire alcun rapporto perché, parafrasando Epicuro, quando c’è la matematica non c’è la realtà, quando c’è la realtà non c’è la matematica. Una realtà intesa come oggettività, sia pure “fenomenica”, sembra mal sopportare d’essere interpretata con uno strumento che pare avere una sua totale autonomia, che sembra essere totalmente autoreferenziale, strutturalmente destinato a rispondere solo a leggi proprie. Ma è proprio così?
Per quanto convenzionale, la matematica è pur sempre il parto d’una mente soggetta alle stesse leggi di tutta la realtà fenomenica, per cui non dovrebbe sorprendere più di tanto il riscontro d’un legame tra matematica e realtà fenomenica: legame che infatti c’è, dando vita a questo punto a quel circolo virtuoso che corrisponde a una concezione quantitativa del mondo, quella stessa che ha consentito alla scienza moderna d’ottenere gli straordinari risultati, teoretici e pratici, che ha ottenuto. Del resto Einstein parla d’«incertezza», non d’impossibilità. E se questo per la matematica nella sua “autonomia” può suonare contraddittorio, non lo è più se ci si riferisce al suo rapporto col mondo fenomenico, al suo essere lo strumento che rende possibile una lettura “quantitativa” del mondo…
D’altra parte non è detto che la realtà fenomenica, nella sua totalità come nelle sue infinite sfaccettature, possa, o debba, essere “letta” solo quantitativamente: basta e avanza che questa lettura non sia integralmente impropria, del tutto avulsa da ciò che pretende leggere, che sia, insomma, perfettamente “legittima”… Ma, appunto, “basta e avanza”! E questo non è solo un modo di dire, perché in effetti si è verificato un eccesso in questa lettura, non tenendo nel dovuto conto che di un circolo vizioso pur sempre si tratta. Quando si pretende di usare uno strumento frutto dell’attività della nostra mente come se fosse una chiave di lettura oggettiva d’una realtà oggettiva, prima o poi si finisce sempre per usare lo strumento impropriamente, per attribuirgli proprietà e facoltà che, nella misura in cui gli vengono attribuite, non ha. Per un po’ regge, ma poi non può che mettersi a rispecchiare solo se stesso convinto di riflettere ciò che ha di fronte, e, se non ci si avvede di ciò, di questo carattere in qualche modo obbligato della sua attività, si dà vita a una delle illusioni più pericolose…
La fisica galileiana è basata sulla concezione quantitativa del mondo. Il numero diventa il simbolo con cui di ogni cosa che esiste (fisica in senso proprio, ma anche psichica, sociale, politica, economica: si pensi alle cosiddette scienze umane, al loro statuto fondativo) denotiamo la quantità degli elementi che la compongono, o la quantità delle cose simili, o la quantità delle cose che intendiamo prendere in considerazione da aggiungere all’unità che denota ogni singola cosa, e soprattutto il tipo di relazione quantitativa in cui tutti questi elementi di fatto entrano o possono entrare secondo le leggi della matematica. E quella di ridurre tutto (tutto ciò di cui facciamo esperienza) a numero e a relazione di numeri è indubbiamente la più straordinaria operazione “economica” compiuta dalla mente umana: usando il numero e le sue leggi ci si è resi conto che è possibile pervenire finalmente a quell’unificazione dei fenomeni che è stata la prima esigenza conoscitiva a fini pratici (ma ogni “esigenza”, quindi anche quella “conoscitiva”, rimanda a una “prassi”), quanto meno della filosofia occidentale, indispensabile da soddisfare per non essere travolti da una realtà, oltre che molteplice, multiforme.
Ora, che si tratti, a prima vista, di un’operazione del tutto mentale sembra suffragato dal fatto che i nostri organi sensoriali sono del tutto “insensibili” alla quantità, a meno che essa non si presenti in dimensioni tali (l’estremamente grande come l’estremamente piccolo, o comunque lo “sproporzionato”) da mettere a repentaglio le nostre capacità percettive, e con essa la nostra integrità fisica e psichica: per il resto, il rapporto più diretto che abbiamo con le cose e con gli eventi è, non può che essere, di natura qualitativa. E infatti, fino a quando s’è dato credito esclusivo a questo rapporto con la realtà, la matematica o è servita – data la sua natura ritenuta puramente, integralmente, mentale, avulsa da ogni esperienza esistenziale – per costruire castelli metafisici, tali anche quando era lo strumento principe dell’astronomia (dal pitagorismo agli astri-dei dell’ultimo Platone) o relegata al rango di scienza teoretica praticamente inservibile per una lettura autentica della natura nelle sue molteplici manifestazioni (Aristotele). E nell’un caso e nell’altro, la matematica s’è sviluppata, apparentemente, al di fuori di qualsiasi esigenza che non fosse quella di lasciare procedere la mente in uno spazio tutto suo, da gestire in piena autonomia, ritenuta tanto più autentica quanto più rigorosa, e d’un rigore, d’una necessità, tutta interna, in una sorta di causa sui che permetteva il totale, assoluto controllo d’ogni operazione. Insomma, per tanto tempo la matematica ha goduto d’una “libertà” sconosciuta a ogni altra operazione mentale. Così che, quando hanno cominciato a mostrare la corda tante “letture” della natura risultate inadeguate se poste al vaglio delle nostre esigenze conoscitive cui si era tentato di rispondere con un’indagine che doveva soddisfare in ultima analisi le nostre facoltà sensoriali («darne ragione»), ci s’è rivolti a questa costruzione della nostra mente che sembrava del tutto immune dagli inganni dei sensi (dei cinque sensi, ma anche, e forse soprattutto, d’un qualche eventuale “sesto senso”), che sembrava non toccata dalla necessità di riscontri eteronomi per giustificare se stessa… soprattutto che sembrava in grado d’abbracciare con ferrea presa una realtà altrimenti tanto più sfuggente quanto più indagata. Quando poi si è verificato come fosse in grado di svelare misteri secolari per il semplice fatto che ripuliva d’un sol colpo fenomeni, in se stessi semplici, ma tenuti nascosti per tanto tempo da vere e proprie incrostazioni puramente mitologiche, e d’aprire la strada a metodi d’indagine insieme rigorosi e produttivi, tanto più rigorosi e produttivi quanto più a sua volta si liberava da ogni incrostazione magica, metafisica (il pitagorismo), la matematica, già ricca e compiuta (nata già “positiva”, proclamerà entusiasta Comte), inizierà il suo cammino nella realtà fenomenica assoggettandola progressivamente alle sue esigenze…
Dando così vita all’illusione più pericolosa del mondo cosiddetto moderno, proprio perché sembra immune da qualsiasi illusorietà, dal momento che non si ferma all’apparenza (la volubile, volatile, qualità), ma la riduce a misura della nostra mente, trasformandola in qualcosa che non sembra illusorio perché è stato costretto a comportarsi esattamente come ce lo prefiguriamo… diventando però così, non strumento di conoscenza, ma di possesso. Di dominio potenzialmente assoluto! E dove si annida il pericolo? Non tanto nel “dominio” in se stesso, se esso si traduce (e si riduce) nello sfruttare questa lettura della realtà fenomenica per assecondarne, o provocarne, o anticiparne, trasformazioni peraltro sempre in atto con la consapevolezza d’operare per un verso entro limiti conoscitivi ben precisi che sono appunto quelli della scienza sperimentale proprio in quanto sperimentale, e per altro verso d’agire su una realtà di cui si è parte integrante, quindi su se stessi… il pericolo s’annida nell’illusione d’avere di fronte un’oggettività del tutto passiva perché passivizzata dalla sua riduzione a quantità. Per cui il dominio si considera assoluto anche di fatto, e viene esercitato come tale, e l’“economicità” resa possibile dal numero, invece d’operare come semplificazione in grado d’eliminare antiche, inutili e dannose fantasmagorie, ne legittima e fortifica di nuove sulla base dei risultati resi possibili dalla semplificazione. In altre parole, il successo di tante smitizzazioni rese possibili dalla scienza sperimentale, successo che a sua volta rende possibile pervenire a risultati concreti prima impensabili in termini di soddisfacimento di tanti bisogni, si trasforma esso stesso in un mito tanto più potente quanto più considerato come demolitore di miti. Da cui, oltre tutto, l’ulteriore abbaglio in cui cadono tanti detrattori della scienza (e della tecnologia che ne discende), i quali la condannano non tanto per la sua deriva mitizzante, ma proprio in quanto distruttrice di miti, cioè demonizzandola nella sua possibile funzione liberatoria.
Ora, di fronte a una lettura della realtà in grado di creare così consistenti circoli viziosi, e avendo tali circoli viziosi tutta l’apparenza di circoli virtuosi perché effettivamente nel loro dispiegarsi offrono momenti di grande potenza costruttiva, se non si recupera al più presto la consapevolezza della sua originaria natura di circolo vizioso, di pura autoreferenzialità, la potenza costruttiva, mai storicamente così straordinaria e così in sviluppo esponenziale da un po’ di tempo a questa parte, rischia di trasformarsi in potenza distruttiva, specularmente altrettanto straordinaria e in costante accelerazione.