di Stefano Marullo
Appare sempre più farsesca l’immagine che i media tentano di accreditare riguardo all’attuale pontefice presentato come rivoluzionario,quasi fossimo sull’orlo di un Concilio Vaticano III, che, peraltro, dovrebbe in primis mettere mano al Vaticano II ancora inapplicato. Assai sorprendente sarebbe la metamorfosi di Bergoglio rispetto ai suoi silenzi durante il regime militare dei generali argentini tra il 1976 e il 1983 insieme ad altri cardinali di primo piano notoriamente collusi come il nunzio apostolico Pio Laghi o Juan Carlos Aramburu, già arcivescovo di Buenos Aires. L’ultima puntata di un generale conformismo che estende all’intera Chiesa Cattolica il kairos del rinnovamento, riguarda addirittura il disgelo tra le gerarchie vaticane e nientemeno che l’ormai defunta o semidefunta teologia della liberazione, indirizzo teologico ed ecclesiologico nato nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorzo sull’esperienza pragmatistica di alcuni religiosi e il cui dibattito si è protratto fino ai primi degli anni Novanta.
Occasione del presunto sdoganamentola presentazione al Festivaletteratura di Mantova del libro “Dalla parte dei poveri, Teologia della liberazione, teologia della Chiesa”, scritto a due mani dal teologo peruviano Gustavo Gutierrez e dall’arcivescovo Gerhard Ludwig Műller, per inciso prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant’Uffizio. Molti ricorderanno come Gutiérrez sia stato il padre spirituale della teologia della liberazione: sorvegliato speciale dai tempi della pubblicazione del volume Teologia della liberazione. Prospettive risalente al 1971, testo messo a confronto con La forza storica dei poveri pubblicato nel 1979 (e in Italia per Queriniana nel 1981) dell’omonimo autore. Un’attenzione culminata nelle famose “10 osservazioni” da parte della Congregazione per la dottrina per la fede presieduta dal card. Joseph Ratzinger nella metà degli anni Ottanta, nelle quali il teologo veniva sottoposto ad un lungo “percorso di rettifica” delle sue tesi, e rinchiuso in convento che lo porterà a divenire frate domenicano. Secondo la Congregazione di allora i due libri, nonostante la distanza cronologica che li separa, hanno un intimo nesso interno che distorce il messaggio evangelico mettendo il cristianesimo al servizio della rivoluzione alla stregua del marxismo. In seguito a Gutiérrez verrà impedito sistematicamente di intervenire a pubblici incontri.
In realtà nel 2004 la stessa Congregazione, sempre presieduta da Ratzinger, dichiarava concluso il percorso di rivisitazione delle proprie tesi da parte di Gutiérrez che, invero, ridimensionerà in senso più spirituale la portata di certe sue affermazioni riguardo alla liberazione. Per arrivare ai giorni nostri laddove gli scritti di Gutiérrez sono ora pubblicati sull’Osservatore Romano e l’attuale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pubblica un volume con il fondatore della teologia della liberazione (lo scritto risale in realtà al 2004).
C’è qualcosa che non torna. Vero è che Gutiérrez, nonostante la sua popolarità e la fortuna dei suoi scritti teologici, rappresenta l’ala più moderata dei teologi della liberazione e, nonostante le restrizioni a cui è stato obbligato, non è mai stato formalmente sospeso o cacciato dalla Chiesa Cattolica. I duri e puri come Hugo Assmann, Giulio Girardi, Leonardo Boff o José Comblin sono tutti scomparsi per cause naturali o ridotti al silenzio. Lo sforzo di Gutiérrez, che ha ripubblicato (o è stato costretto a farlo) il volume del 1971 con ampie rettifiche ed integrazioni, è stato quello di conciliare il messaggio liberazionista di trasformazione strutturale della società (in particolare quella latinoamericana) con la tradizione teologica del Magistero romano. Anche l’uso dell’analisi marxista, utile in particolare alla comprensione del povero, è una utilizzazione solo metodologica.
Il nodo gordiano delle critiche vaticane alla teologia della liberazione è proprio questo: l’utilizzo di categorie intramondane o, per dirla filosoficamente, immanenti. E sotto questo aspetto il marxismo rappresenta la filosofia pragmatica e antihegeliana per eccellenza: esso non contempla l’universo ma vuole trasformarlo, e considera la storia dell’uomo un processo incessante di liberazione. Il marxismo è soteriologia, dunque. La possibilità della violenza rivoluzionaria è implicita in questo processo. Ma soprattutto è il rifiuto di una dimensione extramondana della salvezza a rendere inaccettabile l’ideologia marxista alla logica cristiana. Questo è l’elemento dirimente che supera anche la pregnanza dell’accettazione o meno della violenza per affermare anche il Regno di Dio; com’è noto esiste anche una teologia della rivoluzione che è confluita nella teologia della liberazione.
L’attacco alla teologia della liberazione da parte del Magistero Cattolico parte da lontano, e la macchina denigratoria contro di essa ha coinvolto soggetti anche al di fuori dell’ambito ecclesiastico. Sarà utile rivederne alcune tappe essenziali per comprendere come si è arrivati alla netta condanna e a questa tardiva riabilitazione che puzza di opportunismo ex post. Nel 1976 la Commissione Teologica Internazionale si occupa per la prima volta della teologia della liberazione, nata a Medellin nel 1968 in seno alla seconda conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, in una famosa sessione dell’autunno di quell’anno con un documento titolato Dichiarazione sulla Promozione Umana e Salvezza Cristiana. Nel sottolineare il rapporto tra progresso umano e regno celeste come uno dei compiti prioritari della teologica contemporanea: cogliendo positivamente alcune istanze della teologia della liberazione, il testo mette in guardia dal rischio dell’unilateralismo e dalla contaminazione ideologica insita in teorie fondate “su presupposti filosofici discutibili o sopra un’erronea concezione antropologica. È il caso, ad esempio, d’una notevole parte delle analisi ispirate al marxismo e al leninismo”.
Affermazioni come queste sono anche il frutto di una campagna sviluppatasi all’indomani di Medellin, da parte di larghi settori dell’episcopato latinoamericano, una sorta di “contromovimento” che arginasse la crescente popolarità della teologia della liberazione. Tra i nomi spiccano i nomi di Roger Vekemans, Bonaventura Kloppenburg, Alfonso López Trujillo, Javier Lozano Barragán. Attorno ad essi ruotano esponenti anche del Vecchio Continente, specie in area tedesca, con posti chiave in ambiente ecclesiastico ed accademico e vicini a movimenti come l’Opus Dei. La nomina di Trujillo a segretario generale del Celam durante la XIV assemblea ordinaria a Sucre, in Bolivia, nel 1972, e la nomina di persone a lui vicine in posti chiave dei dipartimenti del Celam per le aree strategiche sarà determinante per la campagna oppositiva contro la teologia della liberazione. Nascono anche gruppi che mettono a punto strategie contro le “infiltrazioni” del marxismo nella Chiesa con particolare riferimento ai “Cristiani per il socialismo” vicini alla teologia della liberazione. Il summenzionato Vekemans fonda il CEDIAL e la rivista Tierra Nueva e diventa paladino della battaglia.
Il gesuita James Wizzard lo accuserà di avere ricevuto dalla CIA cinque milioni di dollari per finanziare attività antimarxiste. Vekemans, Trujillo & Co. sono fermamente convinti che il pensiero marxista attraverso un piano diabolico voglia contaminare il cristianesimo attraverso la teologia della liberazione. Ne sono convinte anche le amministrazioni USA succedutesi nel tempo a partire dal primo rapporto sul ruolo della Chiesa Cattolica in America Latina, quello di Nelson A. Rockfeller del 30 agosto 1969, seguito da quello elaborato dalla Rand Corporation, su incarico del Dipartimento di Stato. Ancora da citare il rapporto Linowitz del 1976, fino al “Comitato di Santa Fe” ispiratore della politica dell’amministrazione Reagan, e la mozione dell’aprile 1981 dell’Istituto per la Religione e la Democrazia per il coordinamento ideologico per “contrastare le derive rivoluzionarie di alcune chiese latinoamericane”. Sulla stessa linea il rapporto Kissinger sul Centramerica e un secondo documento di Santa Fe riguardo l’atteggiamento degli USA in America Latina negli anni Novanta. In molti di questi documenti emerge come la Chiesa sia soggetto a “fermenti” derivanti da alcuni indirizzi teologici che sono pronti a dare il proprio apporto per sovvertire l’ordine esistente. Il trionfo sandinista è ritenuto un precedente pericoloso per tutta l’America Latina. La teologia della liberazione, in particolare nei documenti di Santa Fe, è nominata esplicitamente quale “dottrina politica mascherata da credenza religiosa”.
Con le due Istruzioni della Congregazione per la dottrina della fede il cerchio si chiude. La prima, Libertatis nuntius de quibusdam rationibus theologiae liberationis, datata 6 agosto 1984, si muove nel solco delle tradizionali accuse mosse alla teologia della liberazione; quella cioè di mutuare acriticamente categorie del pensiero marxista e in particolare quello della lotta di classe. Discende proprio da questo il rifiuto delle strutture gerarchiche e sacramentali della Chiesa che viene vista come Chiesa di classe, alla quale opporre una Chiesa di popolo. L’altra accusa rivolta è quella di guardare alla liberazione degli oppressi in chiave esclusivamente politica dimenticando la dimensione profonda del peccato, come male ancora più profondo. Il secondo documento, Libertatis conscientia, del 22 marzo 1986, si sofferma sulla missione liberatrice della Chiesa attraverso la sua dottrina sociale, incoraggiando la conversione interiore quale principio cardine del cambiamento, esaltando la libertà (ritenuta costitutiva di ciò che si chiama cristiano) rispetto alla liberazione (vista come elemento esogeno dell’essere cristiano).
Il neo centralismo romano espresso dal connubio Wojtyla-Ratzinger raggiunge il suo apice nella Dominus Iesu, documento del 6 agosto 2000, ferreo e anacronistico, vera battuta di arresto per il dialogo interreligioso e il pluralismo. In esso si stabilisce che la Chiesa Cattolica è l’unica via per la salvezza dell’uomo, che l’incarnazione di Gesù Cristo un valore assoluto ed esclusivo per la storia dell’umanità, che ogni lettura della Bibbia fuori dall’interpretazione data dal Magistero cattolico romano è fuorviante. Molti teologi vengono zittiti. Il succedersi di conferenze dell’episcopato latinoamericano (dopo Puebla nel 1979, Santo Domingo 1992, Aparecida nel 2007) non hanno fatto che smorzare la carica eversiva dell’opzione preferenziale per i poveri espressa a Medellin. Dopo averla tacitata e contrastata con ogni mezzo si è cercato di rielaborare il messaggio liberazionista cominciando nei documenti ufficiali a parlare non più di teologia della liberazione ma di teologie della liberazione, epurando quelle cattive da quelle in linea con il Magistero (già la Libertatis Nuntius ne parlava al plurale). Giovanni Paolo II, in una lettera ai vescovi del Brasile del 1986, parla della teologia della liberazione come non solo “opportuna, ma utile e necessaria”. Intanto la teologia della liberazione è cambiata e si è imbastardita approdando anche nel Primo Mondo,situandosi a fianco di correnti di pensiero sensibili alla dialettica oppressione/liberazione come la teologia nera o la teologia femminista, il movimento no-global e la nuova sensibilità eco-sostenibile. Episodi come l’avanzata progressista in America Latina e l’insurrezione zapatista sono stati salutati come il trionfo di alcune istanze proprie della teologia della liberazione.
La Chiesa Cattolica che oggi ne riscopre tardivamente le fondamenta bibliche e ne promuove il messaggio dopo avere per secoli combattuto i tanti Antonio de Montesinos, Vasco de Quiroga, Bartolomé de las Casas, Julian Garces, Guamàn Poma, Tùpac Amaru, Alondo de Sandoval, Juan Diego, Miguel Hidalgo y Costilla a fianco delle classi dirigenti appare molto sulla linea di un opportunistico promoveatur ut amoveatur. Ricorda l’atteggiamento di quegli esponenti politici che depongono fiori alle vittime della mafia che prima hanno combattuto, consapevoli che i defunti non sono più pericolosi e ci si può prendere il lusso anche di osannarli. E il Vaticano che, come ha scritto Leonardo Boff (anche lui però ormai folgorato sulla via di Damasco da papa Francesco - e finanche Hans Küng, teologo dissidente anticuriale, ora ne tesse le lodi) “non ha mai compreso la teologia della liberazione e i documenti che ha scritto a suo riguardo sono solo delle falsificazioni”, sta perpetrando l’ultimo crimine: appropriarsi di una eredità che non gli appartiene, all’ombra di papa Francesco, paravento gentile dello status quo.
ottobre 2013