di Ramkrishna Bhattacharya
Traduzione a cura di Federica Turriziani Colonna
Introduzione
Al giorno d’oggi molte persone, se non la maggior parte, cercano direttamente dal web piuttosto che nei libri per sapere qualsiasi cosa accada sotto il sole. Vi si trovano centinaia, se non persino migliaia di files sul sistema filosofico Cārvāka/Lokāyata. Purtroppo molti, sebbene abbiano le migliori intenzioni, ne ottengono informazioni erronee e finiscono perciò con il fraintendere. Da decenni sto conducendo ricerche sulla storia del materialismo in India [1]. Ritengo quindi necessario prevenire da notizie false coloro che vogliano interessarsi a questo argomento.
1.
Cārvāka o Lokāyata non è un’etichetta che si possa applicare ad ogni sorta di idea materialista fiorita in India nel corso dei secoli. Ci sono stati svariati pensatori proto-materialisti in India sin dai tempi di Buddha (V-IV sec. a. C. [*]) o anche prima. Il sistema conosciuto come Cārvāka/Lokāyata non si sviluppò prima del VI sec. d. C. o forse anche più tardi. È solo dall’VIII sec. d. C. che il nome Cārvāka è associato ad una scuola materialista (alcuni scrittori tardi come ad esempio Śāntarakṣita e Śaṅkara continuarono a chiamarlo Lokāyata). Entrambi i nomi, comunque, fecero riferimento alla medesima scuola di pensiero solo dopo l’VIII sec. d. C. Nessuno dei due termini ricorre nella letteratura vedica. Nella lingua pāli e nelle opere in sanscrito buddiste il termine Lokāyata significa ‘scienza della disputa’ o, in un senso più ristretto, ‘argomento della disputa’, e non ‘materialismo’. La parola resta, tuttavia, di senso non del tutto chiaro. Vi sono ragioni per ritenere che i seguaci di questa scuola materialista identificassero se stessi chiamandosi Cārvāka, utilizzando il termine a mo’ di soprannome. La parola ‘Cārvāka’ potrebbe essere stata tratta dal Mahābhārata, ma l’omonimo demone di quell’opera non ha nulla a che vedere con il materialismo.
2.
Il Cārvāka/Lokāyata è l’unica forma sistematica di filosofia materialista Indiana che sia nota ad oggi. Vi erano anche altre scuole proto-materialiste, anteriori al Cārvāka, ma le loro dottrine non hanno ricevuto un’elaborazione sistematizzata in forma di raccolta d’aforismi filosofici, come invece fecero i Cārvāka. Si possono incontrare alcune delle idee materialiste pre-Cārvāka nelle Upaniṣad, nelle opere in lingua pāli e pracrita (rispettivamente dei buddhisti e dei jaina) e nei rispettivi commentari, inoltre nell’episodio di Jābāli del Rāmāyaṇa, nel Mokṣadharma-parvādhyāya del Mahābhārata e in alcuni Purāṇa (in particolare il Viṣṇupurāṇa e il Padmapuraṇa) e, da ultimo, negli antichi poemi Tamil come ad esempio il Manimekalai. Tutto ciò non va confuso con il Cārvāka/Lokāyata. Alcune delle concezioni che dai testi ora menzionati emergono sono affidabili esposizioni di questa o quella dottrina proto-materialista, laddove invece in altri casi l’autenticità è affatto dubbia. Nel Rāmāyaṇa e nei Purāṇa vi è ad esempio la tendenza a trattare i buddhisti, i jaina e i Cārvāka come rappresentanti di un’unica scuola di nāstika (nichilisti), vale a dire come profanatori dei Veda, e ad attribuire le idee degli uni agli altri in modo piuttosto inappropriato.
3.1.
Tutte le opere Cārvāka/Lokāyata sono andate perdute prima del XIV sec. d. C., poiché Sāyaṇa-Mādhava — altrimenti detto Mādhavācārya o Vidyāraṇya —, ovvero l’autore dell’antologia filosofica chiamata “Compendio di tutti i punti di vista” (Sarva-darśana-saṃgraha), il cui primo capitolo è dedicato al Cārvāka/Lokāyata, non potè citare neanche una sentenza da un qualsiasi testo Lokāyata, o riferirsi ad un’autorità di quella scuola, eccezion fatta per il mito di Bṛhaspati. Nonostante ciò, questo testo — pubblicato per la prima volta per la Asiatic Society di Calcutta, fra il 1853 e il 1858, con la curatela di Iswarcandra Vidyāsāgara, noto pedagosista e riformatore sociale — ha condizionato più di ogni altro scritto l’idea che oggi si ha del Cārvāka/Lokāyata. Vale però la pena notare che la lettura di alcuni dei versi là citati ed attribuiti ai Cārvāka mette in evidenza la loro deliberata interpolazione. La versione originale di uno di questi versi recita, ad esempio: «Vivi serenamente finch’è hai vita; nulla v’è oltre il limite della morte». Questo frammento è riportato in questo esatto modo in molte altre opere (ve ne sono almeno tredici). Ebbene, l’ultima parte del verso fu deliberatamente modificata da Sāyaṇa-Mādhava così: «Mangia del ghee (burro chiarificato; leggi: goditela) anche se sei pieno di debiti». Secondo molti indiani istruiti, e forse anche secondo alcuni stranieri, questa versione (distorta!) è senza alcun dubbio la summa del Cārvāka/Lokāyata. Resta tuttavia bizzarro il fatto che il “Compendio di tutti i punti di vista” riferisca, all’inizio del capitolo dedicato ai Cārvāka/Lokāyata, la versione originale e correta del verso, e quella spuria, invece, alla fine.
3.2.
Comunque, dai frammenti disponibili, tutti ritrovati citati o parafrasati in opere di filosofi anti-materialisti, è evidente che il sistema Cārvāka/Lokāyata si è sviluppato secondo una modalità simile a quella adottata da altri sistemi filosofici, come la Mīmāṃsā, il Vedānta, il Nyāya e il Vaiśeṣika. Ciò significa: a) che vi è un testo di base, ossia una collezione di sūtra o aforismi, formulati in modo conciso perché pensati per essere mandati a memoria; b) che furono scritti numerosi commentari (e probabilmente sub-commentari) per spiegare gli aforismi; c) che oltre alle fonti di cui sopra, un certo numero di versi è stato tradizionalmente attribuito ai Cārvāka. Taluni di questi epigrammi scherniscono le pratiche dei riti religiosi, soprattutto degli atti sacrificali, e negano l’esistenza di un’anima extra-corporea in grado di sopravvivere alla morte. Tal’altri versi, tuttavia, potrebbero essere stati formulati in circoli buddhisti e jaina. La denuncia della violenza rituale (come l’uccisione di animali nel sacrificio vedico) e la condanna delle diete diverse da quella vegetariana si accordano meglio con gli insegnamenti buddhisti e jaina che con quelli di una qualsiasi altra scuola. Ci potrebbe comunque essere anche stato qualche materialista che rinunciò sia al matrimonio che al cibarsi di carne animale. In tal caso, l’accusa di promiscuità e l’assunzione di carne e di vino rivolta contro i Cārvāka da Guṇaratna, un autore jaina del XV secolo, perde tutta la sua forza.
3.3.
Il Tattvopaplavasiṃha di Jayarāśi Bhaṭṭa non è un’opera Cārvāka/Lokāyata: esso rappresenta il punto di vista di una scuola completamente differente che ha messo in discussione la nozione di pramāṇa (valido mezzo di conoscenza). I Cārvāka, invece, riconoscevano i pramāṇa e tutto ciò che ad essi è correlato (la conoscenza, il soggetto che conosce e l’oggetto che viene conosciuto). Anche coloro che, come Eli Franco, ritengono che il Tattvopaplavasiṃha sia l’unico testo Cārvāka superstite, non affermano che si tratti di un testo materialista. Perciò l’opera è abbastanza irrilevante per lo studio del materialismo in India.
4.
L’impalcatura teorica del Cārvāka/Lokāyata può essere riassunta così: I) negazione della rinascita e dell’aldilà (paradiso e inferno) e dell’immoralità dell’anima, II) rifiuto della credenza nell’efficacia del compimento delle azioni religiose, III) accettazione dell’origine naturale dell’universo, senza bisogno di un dio creatore o di qualche altro agente soprannaturale, IV) credenza nella superiorità della materia sulla coscienza, e dunque del corpo sullo spirito (anima), e infine V) affermazione del primato della percezione diretta su tutte le altre modalità di conoscenza, come ad esempio l’inferenza, le quali restano in tal modo secondarie, e attendibili se e solo se basate sulla percezione e non, ad esempio, sulle scritture. I primi tre punti interessano l’ontologia, mentre i rimanenti l’epistemologia Cārvāka/Lokāyata. Per quanto concerne l’etica, tutto ciò che si può dire è che i Cārvāka non credevano nelle pratiche dell’ascesi e anzi sollecitavano la ricerca del piacere in questo mondo piuttosto che nell’altro, dato che un altro mondo non esisterebbe. Questo insegnamento è stato interpretato in modo erroneo, ovvero come invito allo smodato godimento, cosa che non fu. Per quanto riguarda l’aspetto sociale va detto che i Cārvāka si opposero alle discriminazioni di genere e alle distinzioni di casta (varṇa) [2]. Essi, per le cose della vita, facevano riferimento allo sforzo umano (puruṣakāra), non al destino (daiva), rifiutavano il concetto di adṛṣṭa (lett. ‘invisibile’, fato) e di karman. Questo è il modo in cui il materialismo, come dottrina filosofica pienamente sviluppata, fece il proprio ingresso nell’antica India. È evidente che queste problematiche sono particolarmente rilevanti nel contesto indiano (la rinascita o trasmigrazione è senz’altro la più degna di nota). Per tale motivo è lecito pensare che il Cārvāka/Lokāyata ebbe evidentemente un’origine indigena.
5.
Non vi fu continuità della tradizione Cārvāka/Lokāyata dopo il XII sec. d. C., più o meno. Tutto ciò che è stato scritto a proposito del Cārvāka/Lokāyata dopo il XII secolo è infatti basato su conoscenze di seconda mano, tramandate dai precettori ai discepoli, che a propria volta potevano soltanto insegnare ciò che avevano appreso dai propri maestri. Alcune delle loro conoscenze, ovviamente, corrispondono a quel che i filosofi Cārvāka/Lokāyata hanno o devono aver detto, ma molti dei resoconti giunti sino a noi sono null’altro che preconcetti a sfavore del materialismo, quando non mere invenzioni.
6.
I buddhisti yogācāra, i jaina, gli ādvaita-vedāntin e i filosofi del nyāya consideravano il Cārvāka/Lokāyata essere un notevole avversario, e tentarono con vigore di opporsi alle idee materialiste. Le loro confutazioni continuarono perfino dopo che i testi autentici del Cārvāka/Lokāyata andarono perduti. Così, la rappresentazione del Cārvāka/Lokāyata negli scritti di queste scuole non risulta sempre basata su conoscenze dirette dei testi di quella tradizione.
7.
A causa di questa mancanza di conoscenza delle fonti originali, gli avversari dell’epoca, e molti studiosi moderni, confondono spesso idee pre-Cārvāka e Cārvāka, considerendo come se appartenessero ad una e medesima corrente di pensiero. Questo dà l’impressione che esistessero diversi tipi di Cārvāka, mentre di fatto c’erano diversi tipi di materialisti, ma non tutti erano Cārvāka. Alcuni di loro non v’è dubbio fossero pre-Cārvāka, sostenitori di idee affatto diverse da quelle dei Cārvāka. Per esempio, per quanto riguarda il numero degli elementi naturali, i Cārvāka ne ammettevano quattro, ovvero la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua, mentre altri ne introducevano un quinto, che era lo spazio o etere.
8.
Non abbiamo alcuna evidenza circa una qualche scuola materialista indiana posteriore al Cārvāka che sia esistita o si sia sviluppata dopo il XIII sec d. C. Quel che ha raccolto Abul Faḍl (Fazl) dai panḍit dell’India del nord (molto probabilmente da un esponente della scuola jaina) riguardo al sistema Cārvāka, ed ha trascritto in persiano nel suo Ain-i Akbari, tradisce le medesime lacune nelle informazioni che si possono evincere dalle antologie in sanscrito a lui contemporanee, e anche successive, di filosofia indiana. All’epoca rimaneva nota somalente qualche nozione relativa al sistema filosofico materialista. Oltre a ciò, alcuni versi attribuiti ai Cārvāka venivano tramandati per via orale da una generazione all’altra. I resoconti posteriori al XIII sec., quindi, devono essere espunti dal novero delle fonti originali e dovrebbero perciò essere presi, come si dice, con le pinze.
9.
Alcuni poemi in sanscrito, opere teatrali [3] ed un’opera in prosa [4] contengono rappresentazioni dei Cārvāka. L’evidenza di questi documenti è dubbia, in quanto gli autori erano apertamente schierati contro il materialismo e tentarono di mettere in cattiva luce il Cārvāka. Quindi, ciò che in quei testi è scritto non andrebbe accettato in modo acritico.
10.
Secondo la più comune accusa mossa contro i Cārvāka, essi non avrebbero creduto in nessun altro mezzo di conoscenza valida che non fosse la percezione diretta. Ma è abbastanza evidente che alcune delle scuole anteriori al Cārvāka così come gli stessi Cārvāka considerassero anche l’inferenza basata sulla percezione diretta come un valido mezzo di conoscenza, sebbene di secondaria importanza. Questo era ben noto sin dall’VIII sec. d. C. Tuttavia, gli oppositori continuarono ad addurre lo stesso argomento, si può dire, alla maniera di Goebbels («ripeti un verso dieci volte ed esso suonerà come fosse verità»; se Goebbels lo abbia detto davvero o meno non è rilevante, perché questa fu la strategia che egli adottò nella pratica).
11.
Un’altra infondata accusa avanzata dai pensatori avversi riguarda il presunto edonismo smodato dei Cārvāka. Naturalmente, vi è sufficiente evidenza per sostenere che i Cārvāka non considerassero la vita umana come qualcosa solo pieno di miserie, ma non v’è alcuna prova che attesti il fatto che essi prescrivessero il godimento dei sensi come unico scopo nella vita. Il caso è analogo a quello di Epicuro, il filosofo greco. Sebbene egli fosse solito condurre una vita austera, il suo nome è stato infamato poiché lo si è sempre considerato il portavoce del modello ‘mangia, bevi, e sii felice’. Ajita Kesakambala, ad esempio, un contemporaneo di Buddha ed uno dei primi proto-materialisti che conosciamo, dell’austerità fece davvero un culto. Anche la dottrina Sāṃkhya fu fatta oggetto di satira come filosofia che raccomandava il godimento dei sensi. Nessuno studente serio del Sāṃkhya ha però mai dato retta a queste assurde accuse. Nondimeno, nel caso del Cārvāka, una tale dichiarazione di edonismo, priva di fondamento, viene ripetuta fino alla nausea dagli autori contemporanei di libri di testo sulla filosofia indiana.
12.
Inoltre, fra molti autori antichi e contemporanei circolò e circola un altro pregiudizio secondo cui vi sarebbero diverse scuole Cārvāka, le quali avrebbero creduto che lo spirito fosse, di volta in volta, la mente, il soffio vitale, gli organi di senso, ecc. Tali dottrine potrebbero essere andate verosimilmente per la maggiore prima dell’Era Volgare, poiché alcune di esse vengono citate nelle Upaniṣad. Simili idee, comunque, non sono soltanto pre-Cārvāka, ma anche pre-filosofiche. Il Cārvāka/Lokāyata fu sistematizzato molto più tardi e non v’è nulla che mostri che i suoi esponenti mutuassero idee da fonti tanto più antiche. Solo la dottrina del bhūtacaitanyavāda o dehātmavāda (‘dottrina della coscienza corporea’) è ascrivibile, tra la varie prospettive interenti all’anima e alla coscienza, ai Cārvāka. Il Cārvāka fu, quindi, una scuola unitaria, sebbene la tradizione dei commentari non sia uniforme e i commentatori non sempre unanimi nelle loro interpretazioni di taluni aforismi.
13.
Non tutti i commentatori dei Cārvākasūtra, pare, erano per questo a propria volta Cārvāka. Alcuni di loro si sa che furono esponenti del Nyāya che, oltre ai loro scritti su quest’ultima corrente di pensiero, compilarono anche dei commentari ai Cārvākasūtra. Com’è naturale, essi hanno introdotto un gran numero di termini tecnici Nyāya, che risultano alieni all’originale tradizione Cārvāka. Tuttavia, ciò che resta comune a tutti i commentatori è la fedeltà alla dottrina secondo cui lo spirito non sarebbe altro che coscienza in un corpo vivente, e il rifiuto dell’idea che l’inferenza indipendente dalla percezione diretta e/o basata sulle evidenze delle scritture vada accettata come valido mezzo di conoscenza.
14.
In breve, quindi, il sistema Cārvāka/Lokāyata si costituì come culmine di tutte le idee proto-materialiste precedenti che, tuttavia, non furono mai sistematizzate secondo lo stile prevalente del sūtra-bhāṣya (testo base e commentario) prima del VI sec. d. C. Queste idee ci sono note principalmente perché circolavano fra i liberi pensatori che si opponevano alle futili pratiche religiose raccomandate dai Veda e che si rifiutavano di offrire doni ai sacerdoti brahmini. I più antichi materialisti non credevano nell’esistenza del paradiso o dell’inferno e neppure nell’immortalità dell’anima. Questo è tutto quel che si può rintracciare della tradizione anteriore al Cārvāka/Lokāyata. Inoltre, le questioni ontologiche pare rappresentassero la loro principale preoccupazione, e questo fu il loro contributo al successivo sistema Cārvāka/Lokāyata che lo ereditò e lo assimilò. Anche le questioni epistemologiche sembra fossero alla base del loro insegnamento, ma non si rintraccia alcuna attendibile formulazione di tali problemi.
15.
Se i Cārvāka avessero avuto una qualche affinità con i Kāpālika o con qualche altro oscuro culto popolare (come ad esempio quelli propugnati dai Sahajiyā o dai Bāul nel Bengala) è argomento spinoso. Probabile è che questi culti abbiano fatte proprie idee come quelle pre-Cārvāka e/o gli stessi insegnamenti Cārvāka, tra cui ad esempio l’accettare la percezione quale unico mezzo di valida conoscenza, l’opposizione al Vedismo, al sistema delle caste, alla discriminazione di genere, ecc. Bisogna tuttavia notare che tutti questi culti prevedono la centralità del guru, che i seguaci, come principale veicolo con cui esprimere le loro idee, hanno composto dei canti in dialetti locali e non hanno scritto trattati filosofici, e che tutti considerano se stessi come affiliati all’una o all’altra delle comunità adoranti di Śiva, Viṣṇu o Śakti. Essi si identificano come ‘gli altri’, in quanto appartengono alla Piccola Tradizione — simile per certi versi alle comunità religiose della Grande Tradizione ma differente per quel che concerne l’abiura del sacerdozio brahminico, l’evitare i posti convenzionali di pellegrinaggio, l’istituzione dei i propri luoghi d’incontro nelle fiere di villaggio. I Cārvāka, al contrario, appartengono alla Grande Tradizione: essi hanno compilato un’opera in sūtra e composto elaborati commentari in sanscrito, non in vernacolo, su di essa. In breve, i due gruppi appartengono a due tradizioni differenti — la Grande e la Piccola Tradizione — e i loro rispettivi fini risultano il più delle volte differenti. Mentre il Cārvāka/Lokāyata era interessato alla vera conoscenza (tattva), i culti della Piccola Tradizione aspiravano esclusivamente alla liberazione (mukti). I primi rigettarono accuratamente ogni rituale basato sulla fede, mentre gli altri svilupparono elaborati sistemi di adorazione e di pratica religiosa (sādhana-paddhati), secondo gli insegnamenti dei loro guru. Così, vi è una fondamentale incompatibilità fra i due gruppi che non può essere risolta giustapponendoli come se esprimessero lo stesso approccio in modi differenti. Si dovrebbe, in ogni caso, tenere a mente che i culti della Piccola Tradizione erano ben presenti in India anche ai tempi delle Upaniṣad, come è testimoniato dalla Maitrī (o Maitrāyāṇī o Maitrāyaṇīya) Upaniṣad. Molto probabilmente entrambe le tradizioni ebbero un’origine comune, ma si distinsero in due correnti separate, l’una radicalmente razionale ed ateista, l’altra irrazionale e tesita. Mentre il Cārvāka/Lokāyata è un sistema filosofico, i culti popolari anti-brahminci non rappresentano altro che una marmaglia religiosa posta al di fuori dell’ambito brahminico (vedista). A dispetto di alcune somiglianze nell’approccio (come ad esempio la summenzionata insisitenza sulla percezione sensoriale, la negazione dell’autorità dei testi vedici e il rigetto del sacerdozio brahminico) essi appartengono a due campi totalmente differenti: filosofia e religione non vanno certo parificate tra di loro.
Si ringraziano Amitava Bhattacharyya, Johannes Bronkhorst, Siddhartha Dutta, Pradeep Gokhale, Ashish Lahiri e Krishna Del Toso per i commenti e i suggerimenti offertimi nella stesura del presente scritto.
ottobre 2010
Note
[*] L’autore adotta la dicitura ‘C. E.’ che sta per ‘Common Era’ per indicare il punto di demarcazione temporale che il mondo cristianizzato identifica nella nascita di Gesù [N.d.T.]
[1] cfr. il mio Studies on the Cārvāka/Lokāyata, Società editrice fiorentina, Firenze, 2009 poi stampato da Manohar Books, New Delhi, 2010. Per una breve esposizione delle errate teorie attualmente in circolazione sul Cārvāka/Lokāyata, vedi il mio saggio Loyakata Darśana and a Comparative Study with Greek materialism, in Materialism and Immaterialism in India and the West: Varying Vistas, ed. Partha Ghose, Centre for the Studies on Civilizations, New Delhi, 2010, pp. 21-34.
[2] cfr. il Prabodha-candrodaya di Kṛṣṇamiśra, atto II verso 18 e il Naiṣadha-carita di Śrīharṣa, canto XVII versi 40, 42, 58.
[3] cfr. Naiṣadha-carita, Prabodha-candrodaya, Āgama-dambara e Vidvanmoda-taraṅgiṇī. [4] Kādambarī.