Da quando le gerarchie ecclesiastiche sono nuovamente scese in campo per contrastare la legge 194, affiancate da “teisti devoti” quali Giuliano Ferrara, sul problema dell’aborto se ne sentono veramente tante. Purtroppo non se ne sentono molte provenienti dal mondo laico: le protagoniste delle battaglie degli anni ’70 non sono riuscite a passare la staffetta alle generazioni seguenti, e si sente la mancanza nella società di un vero e proprio fronte pro-choice. Se l’opinione pubblica è tempestata dalle affermazioni dei sostenitori della “vita” (tanto per far capire che chi non la pensa come loro è un seminatore di morte) è anche perché le argomentazioni laiche sembrano essere state dimenticate.
È dunque da accogliere con soddisfazione l’uscita di questo libro di Carlo Flamigni: breve, ma documentato e soprattutto completo, in quanto spazia dalle tecniche alle statistiche, dalla storia al diritto, anche internazionale. Ovviamente, grande attenzione è rivolta al nostro Paese, dov’è in vigore una legge che, benché con formulazioni un po’ ipocrite, e nonostante alcune previsioni ormai datate, può senz’altro essere valutata con soddisfazione, anche alla luce dei risultati ottenuti, che vedono l’Italia tra i Paesi dove si abortisce di meno.
Ma questa soddisfazione, unita al rischio che, mettendoci mano, la Chiesa potrebbe approfittarne per far introdurre ulteriori restrizioni, non deve trasformare la legge 194 in un totem, soprattutto per quanto riguarda l’accesso all’obiezione di coscienza: l’elevato numero di medici che rifiuta di praticare interruzioni di gravidanza crea disservizi e ritardi in numerosi regioni italiane, aumentando così i rischi connessi all’operazione. Flamigni è risoluto nel chiedere non solo di porre fine a un istituto che, se aveva senso all’epoca, non ne ha certo granché oggi, al momento dell’assunzione di nuovo personale; ma sottolinea anche come la politica di svuotare l’incidenza dei consultori debba essere rapidamente interrotta.
Si diceva delle ingerenze ecclesiastiche. Gli interventi dei vescovi e del Vaticano non si limitano a periodici diktat, ma sono accompagnati da una campagna di (dis)informazione a cui tocca ribattere, vista l’enfasi mediatica di cui dispongono per default. Discorso che vale in particolare per la pillola RU486, e per la portata dei rischi connessi al suo utilizzo: nonostante il terrorismo psicologico messo in campo da Avvenire, i casi letali sono stati finora così pochi da essere statisticamente ben poco significativi. È del resto molto difficile che la sua introduzione possa far aumentare il numero degli aborti praticati, poiché nulla del genere è accaduto nei Paesi (tanti) in cui la pillola è somministrata da anni.
Più serio il problema dell’eugenetica: in teoria la possibilità che i genitori “selezionino” i propri figli esiste, ma eccessi di questo tipo possono essere causati, più che altro, dalla diffusa ignoranza sulla differente portata dei rischi legati alle diverse anomalie riscontrate durante la gravidanza: un problema, anche qui, di gap scientifico – e di comunicazione scientifica – enorme, ma tipicamente italiano. In ogni caso, sottolinea Flamigni, ciò che vogliono le madri è solo avere figli normali, e non dovremmo dunque mai dimenticare questo (umanissimo) aspetto.
Sempre più improrogabile è invece l’avvio di politiche mirate alla riduzione del ricorso all’aborto da parte delle donne straniere: la quasi totale assenza di campagne di informazione fa sì che tante di esse comprino le prostaglandine, liberamente in vendita nelle farmacie italiane, usandole poi per interrompere la gravidanza (salvo poi doversi recare in numerosi casi in ospedale per le sopravvenute complicazioni). In merito, solito silenzio ipocrita italiano: si fa, ma non si dice.
Solo pensatori liberi come Flamigni possono permettersi di dirlo. Affrontare queste tematiche in un Paese come il nostro, così pesantemente condizionato dalla religione, non è facile, soprattutto per chi è costretto a lavorare fianco a fianco, ogni giorno, con medici che considerano il collega un assassino. Anche i non obiettori e i sostenitori della legge sull’aborto sostengono la “vita”, ricorda l’autore: ma la qualità della vita, piuttosto che la sua sacralità. E qualità della vita significa non solo non avere gravidanze indesiderate, ma anche assicurare ai propri figli un’esistenza dignitosa. Bisognerebbe, conclude Flamigni, considerare come inizio della vita il momento in cui l’embrione «viene accettato come figlio dalla donna che lo porta in grembo». Quando questo non avviene, «l’alternativa ad abortire non è non abortire, ma abortire clandestinamente». Una legislazione laica serve proprio a ridurre questa eventualità.
Raffaele Carcano,
Circolo UAAR di Roma,
luglio 2008