Come premette lo stesso autore (docente di Storia contemporanea all’Università “Roma Tre”), questo testo «intende essere una semplice introduzione storica al problema, delicato e controverso, dell’atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica di fronte alla Shoah». Ne è scaturita un’opera equilibrata, che dà pacatamente conto delle diverse posizioni, anche estreme, assunte sull’argomento, ma che non per questo rinuncia a fissare alcuni punti fermi, ampiamente comprovati dalla documentazione pubblicata negli ultimi decenni. Come il silenzio di Pio XII, definito «un fatto reale». Un silenzio addirittura triplice, secondo l’autore: del papa, dei vertici ecclesiastici e di gran parte del popolo cristiano.
Già nella premessa viene ricordata una frase del premio Nobel per la pace Elie Wiesel: «Gli assassini erano battezzati, per lo più, erano stati educati nel cristianesimo… eppure uccidevano». Un tema che ricorrerà diverse pagine più avanti, quando l’autore tratterà della mancata scomunica di Hitler, ma che viene affrontato già nella prima parte, che traccia una breve storia dell’antisemitismo cattolico. Nella seconda parte il testo affronta l’atteggiamento vaticano tra le due guerre, evidenziando come Pio XII, nei confronti dello stato nazista, si sia rivelato più morbido del suo predecessore, il pur concordatario Pio XI. Nella terza parte e quarta parte viene analizzata la posizione vaticana durante la guerra, né di sostegno ma nemmeno di aperta condanna del nazismo: «Non v’è dubbio che il papa e la Santa Sede abbiano percepito lentamente e molto parzialmente la specificità del nazional-socialismo», tanto che l’Osservatore Romano non ebbe il coraggio di pubblicare le ragioni della morte di padre Kolbe (poi canonizzato da Wojtyla).
Nella quarta parte viene valutata la reazione nei confronti dell’olocausto, partendo dal presupposto che le informazioni giunte a Roma erano «insistenti, convergenti e sufficientemente precise». Nella quinta parte l’attenzione si sposta sull’azione diplomatica nelle singole realtà occupate, limitata ad atti «discreti, se non confidenziali», che sortirono dunque ben pochi effetti pratici. La diplomazia vaticana «raramente intervenne in difesa degli ebrei in quanto ebrei», limitandosi a operare nei confronti degli ebrei battezzati: alcuni nunzi non esitarono anzi a salutare con soddisfazione le conversioni (forzate) al cattolicesimo.
La sesta e ultima parte, infine, è dedicata al “peso di una mentalità”: tornando circolarmente all’inizio, mostra come il tradizionale antisemitismo cattolico abbia avuto la sua influenza nei comportamenti tenuti dalle gerarchie durante la seconda guerra mondiale («la Chiesa non sembrava quindi del tutto scontenta della legislazione antiebraica»), così che lo stesso nunzio Roncalli, futuro Giovanni XXIII, poteva dissentire dall’idea di salvare gli ebrei facendoli fuggire in Palestina, ritenuta dal prosegretario di Stato Tardini una terra «ormai più sacra per i cattolici che… per gli ebrei».
La stessa “leggenda” del massiccio aiuto delle organizzazioni cattoliche agli ebrei in difficoltà ne esce ridimensionata: un aiuto, del resto, che dopo la fine della guerra fu prestato anche a ex gerarchi fascisti e nazisti.
Ottobre 2004