Usciamo subito dal busillis: “La scienza non ha bisogno Dio” può, ridotta ai minimi, agevolmente tradursi in “L’uomo non ha bisogno di Dio”. Boncinelli non sembra coltivare aspirazioni ecumeniche e va diretto al fulcro del problema, con ineguagliabile parresìa, come direbbero i Padri della Chiesa. E, considerando il brevissimo tempo in cui il libro sta andando in ristampa rispetto alla sua prima recentissima uscita, il pubblico di lettori sembra avere accolto con interesse quella che ai più sprovveduti può apparire un gratuito disprezzo per ogni metafisica.
Che la scienza non abbia bisogno di Dio è un assioma che dovrebbe davvero mettere d’accordo tutti. E sarebbe ora di finirla di parlare di quella particolare categoria di scienziati cosiddetticredenti (laddove si preferisce, perlopiù, con evidente capziosità, chiamarli agnostici, forzando il termine e declinandolo con lascivi e neutrali, offendendo gli agnostici veri), alla Zichichi per intenderci, che alla loro scienza nulla aggiungono in virtù di quella credenza più di quanto non possa fare la ballerina credente alla sua danza o il fornaio credente alla sua pagnotta.
Ribadiamo dunque il concetto. La scienza non ha bisogno di Dio perché la scienza è conquista eminentemente umana, affidata alla più nobile ed insieme controversa delle sue facoltà: il pensiero ragionante. Che in questo ci possa essere una scintilla divina è quantomeno opinabile; tale scintilla può essere a buona guisa vista in una eruzione vulcanica o in qualsiasi altra manifestazione di cui la natura ci fa sfoggio. La pregnanza di senso che in migliaia di anni le religioni hanno instillato nell’uomo appare sempre più un patetico tentativo per negare a noi stessi l’appartenenza a codesta natura da cui vogliamo ergerci per la nostra, presunta e acquisita, figliolanza divina. Detta in altro modo, appare assolutamente pacifico che la scienza non debba avere bisogno di scomodare Dio per un’apodittica constatazione: le leggi che regolano l’universo e che nel corso dei secoli hanno trovato una precisa sistematizzazione nelle leggi della fisica, della chimica e della matematica, è stato possibile carpirle a prescindere e talvolta nonostante l’ingombrante presenza di Dio e delle sue presupposte immutabili (fallaci) leggi.
C’è una specificità in quel “lungo mistero che dura da quattro miliardi di anni”, cioè la vita, che Boncinelli riconosce ed affronta con dovizia di particolari e singolare disinvoltura. In fondo la biologia ha tra le sue domande fondamentali proprio l’interrogativo: cos’è la vita? La marcata differenza tra esseri animati rispetto a quelli inanimati, quest’ultimi soggetti all’entropia, sembrerebbe violare il celebre secondo principio della termodinamica, in base al quale il disordine tende ad aumentare a scapito dell’ordine esistente. Si tratta però di una “locale e temporanea inversione di tendenza” che non scardina in alcun modo le leggi della fisica. Scrive Boncinelli: “Dal punto di vista astratto, o per meglio dire della fisica e della chimica dell’universo, la vita è solo un esperimento, è un’unica avventura che per nostra fortuna sta andando avanti da tanto tempo e che non accenna per il momento a concludersi”. Di fronte all’inesorabile avanzata delle scienze, la biologia (complice il mancato superamento del suo carattere storico-descrittivo, prevalente, con la sola eccezione della genetica, rispetto a quello logico-formale, scrive infatti Boncinelli “quasi mai si enunciano leggi parlando di biologia, ma si fa il più delle volte una narrazione”) è diventato l’ultimo fortino per i fautori dell’Intelligent Design o, per dirla filosoficamente, dell’entelechia di aristotelica e leibniziana memoria che intravedono una teleologia ovvero un finalismo intrinseco nella creazione. Appare scontato che costoro possono essere stati turbati da esperimenti come quello dello scienziato statunitense Craig Venter, che nella primavera del 2010 riuscì a sintetizzare una sequenza genomica in laboratorio, realizzando di fatto un organismo che in natura non esiste, una vita “artificiale”.
Invero, Boncinelli di questo esperimento, come delle questioni inerenti il Creatore, fa un breve cenno all’inizio del libro. Dimostrando, nei fatti, come si possa per molte pagine appassionarsi a illustrare i principi della genetica e il fascino dell’evoluzione senza scomodare convitati di pietra. Ci ritorna un’ultima volta a pag. 140, citando il malizioso Leopardi che facendo a pezzi un certo specismo affermava: “Io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Per il resto la narrazione è fluida e a tratti avvincente quanto si articola nei meandri di una scienza che stupisce, in primo luogo, coloro che vi si applicano. E alla fine il libro non poteva che concludersi con le parole grondandi stupore di un certo Charles Darwin.
Stefano Marullo
Marzo 2012