Negli ultimi anni c’è stata un’autentica ridda di pubblicazioni di classici greci e latini. Tra le collane più interessanti da annoverare quella della Bur, della metà degli anni Novanta, con ottime prefazioni, ben commentata e corredata da esaustive note esplicative, oltre che con il testo originale a fronte. Poi è stata la volta dei grandi quotidiani che, con pochi spiccioli in più, allegavano al giornale, come supplemento, volumi, niente male, di autori antichi. Dopo Repubblica, in queste settimane è stato il Corriere a lanciare una nuova collana di supplemento al quotidiano “I classici del pensiero libero greci e latini”, che in agosto ha regalato ai lettori Il discorso della verità di Celso, meglio conosciuto con il titolo Contro i Cristiani. Meritevole di menzione è, in tutte queste pubblicazioni, oltre che la rivalutazione di taluni autori, per lo più sconosciuti a meno di non aver frequentato scuole umanistiche, lo sforzo di recuperare la trama di un pensiero perduto, spesso volutamente eclissato.
Questo interessante libretto antologico su Lucrezio, a cura di Paolo Marsich, già curatore di testi di Plutarco e Cicerone, uscito da qualche anno e più volte ristampato, appartiene ai volumetti che non possono mancare nella libreria di ogni buon lettore (laico). La forza dirompente di Lucrezio e di altri autori perduti (come Celso) è direttamente proporzionale alla diacronicità rispetto ai loro contemporanei. Pochi geni hanno avuto questo singolare privilegio, che pure comportò loro immani solitudini. Nella nostra epoca penso a Carlo Michelstaedter, Emile Cioran o Albert Caraco alla cui opera solo il tempo renderà giustizia. Nessuna retorica, davvero. Non doveva essere affatto facile nell’antichità professarsi e vivere da atei. L’oblio attorno all’opera di un Evemero o un Teodoro, od un Ippone di Samo, di cui ci rimangono pochi frammenti, la dice lunga sull’ostracismo che ha tentato di seppellirli. Addirittura Diagora di Melo dovette fuggire da Atene, essendo stato condannato a morte, per il suo ateismo. Lucrezio, poeta e filosofo (autentica bestia nera con Seneca e pochi altri per i liceali degli anni superiori che preferiscono tradurre le pacchiane e tonitruanti guerre galliche cesaree o le monotone orazioni ciceroniane) non sfugge a questo destino. Non conobbe il Cristianesimo ma gli apologeti cristiani si interessarono molto a lui. Fra tutti un cenno merita quel Sofronio Eusebio Girolamo, uno dei personaggi più sordidi della chiesa antica, detrattore di professione e plagiatore di fanciulle (che non gli impedì il cursus honorum che lo portò ad essere dichiarato santo, padre e dottore della Chiesa) per il quale Lucrezio morì suicida in preda alla pazzia.
Il De rerum natura (di cui Vivere laico fa un eccellente estratto) oltre ad essere una delle opere somme del pensiero razionalista ed ateo di tutta l’antichità, gronda di un equilibrio quasi plastico da essere ben lungi dalle insinuazioni di Girolamo. Purtroppo quel poco che sappiamo di Lucrezio lo dobbiamo ai suoi avversari (anche quelli più nobili come Cicerone). Non sarà probabilmente un caso che di Lucrezio si sappia ben poco. Qualche studioso lo fa discendere da famiglia aristocratica altri pensano fosse un liberto. Sicuramente la dedica del De rerum al mecenate Memmio, depone per una amicizia con l’aristocratico romano già protettore di Catullo e di Cinna. Ma Lucrezio scegliendo l’epicureismo non farà nulla per ingraziarsi le amicizie dei potenti, non sceglierà certo l’opportunismo di Virgilio che canterà la gloria del suo imperatore (Ottaviano Augusto) e non sarà così sprovveduto come Ovidio che il suo imperatore offenderà (e dal medesimo Augusto sarà esiliato). Il silenzio dei contemporanei nei suoi riguardi è spesso spiegato con la vita appartata tipica del buon epicureo. Ma un prezzo Lucrezio indubbiamente pagò perché l’epicureismo, che ispira tutto il De rerum nel primo secolo avanti Cristo, era praticamente bandito a Roma dopo la clamorosa cacciata nell’anno 155 dei filosofi greci. E a leggere le pagine che Vivere laico ci propone, non sembra fare sconti ad alcuno. Irriverente e lapidario Lucrezio ha parole che rasentano l’abrasività. Come quando oppone ad Ercole addirittura Epicuro. “Di natura divina, semmai, è da ritenere proprio Epicuro, il quale per primo scoprì quella legge dell’esistenza che è chiamata sapienza; egli con l’uso della ragione ha portato in salvo la nostra vita dalle tempeste e dall’oscurità verso un porto tranquillo”. O quando ribalta le accuse di empietà rivolte alla filosofia epicurea dimostrando che piuttosto sono le credenze religiose e le superstizioni a condurre gli uomini a compiere le azioni più indegne, come il sacrificio della giovane Ifigenia, figlia di Agamennone immolata sull’altare con l’inganno (la promessa di sposare Achille) ad Artemide affinché la flottiglia greca partisse con il favore dei venti. Od ancora quando con un apologo immagina che la Natura si prenda gioco dei mortali e delle loro angosce (sono note le influenze che Lucrezio ebbe su Leopardi nelle sue Operette Morali, e sicuramente anche Schopenauer ne subì il fascino; il richiamo lucreziano alla “avidità di vita” ricorda molto da vicino la “volontà di vivere” del grande filosofo tedesco). E da buon epicureo Lucrezio non riserva parole particolarmente adulanti al sentimento amoroso: “Considera come gli innamorati sprechino le loro energie e si consumino in inutili fatiche, come gettino la propria vita in balìa di un altro e dissipino il patrimonio”. Saggezza è per l’uomo tenersi lontano dalle passioni (oltre che l’amore Lucrezio esecra il potere, la ricchezza, la proprietà privata). Vivere secondo ragione, ecco l’unico imperativo, lontano dalla religione e dalle molte schiavitù di questo mondo, superando l’irrazionale paura della morte: alcune pagine splendide nel capitolo “La paura della morte” in Vivere laico, hanno una suggestione poetica che valgono più di mille meditazioni zen. Richiamo modernissimo per gli uomini di ogni tempo.
Sappiamo poco di Lucrezio, e ancora grazie a Marsich per avercelo fatto assaporare in questo libretto. Il De rerum natura è quanto di più il poeta e filosofo latino poteva dirci. E si può, come dice Fred Uhlman, sopravvivere ad un solo libro. In fondo Beethoven sarebbe Beethoven anche se avesse scritto solo la Nona, e i Led Zeppelin sarebbero i Led Zeppelin se avessero suonato solo Black Dog. I più colti storceranno il naso per i limiti intrinseci di una antologia. Ma anche il lettore più avveduto e di buona volontà potrebbe avere qualche remora ad affrontare in un colpo solo la Critica della Ragion Pura, Il mondo come volontà e rappresentazione o Essere e tempo. L’augurio è che dopo una buona antologia gli venga voglia di farlo.
Stefano Marullo
settembre 2012