Coglie l’abbrivio Umberto Veronesi quando afferma che “Non esiste una Amnesty International per le storie di negazione di un diritto umano fondamentale, come quello di morire”. In fondo è proprio tutta qui la questione. “Se un uomo vuole vivere nonostante le sofferenze, nulla deve essere lasciato intentato per prolungare la sua vita, fosse pure di un’ora. Se invece non vuole andare oltre in un un dolore insopportabile, la medicina deve trovare il coraggio di anticipare la morte”. Lapalissiano, no? Troppo, forse, per le contorsioni mentali in cui si avviluppano spesso gli inquietanti “guardiani della vita torturata” in nome di ideologie, religioni, etiche antiumaniste condite da principi astratti che immolano il corpo come feticcio dimenticando, come ricorda Giovanni Reale, che “l’inferno è l’impossibilità di morire”.
Un dialogo opportuno e indispensabile, quello tra lo scienziato ateo e il filosofo credente, attorno a questioni spinose ed esiziali che investono concetti e termini quali vita, responsabilità, scienza, ricerca, etica che rischiano di perdere la loro valenza a forza di essere mortificati entro gli angusti spazi di un dibattito che si sviluppa spesso sull’onda emotiva di casi singoli, e che riportano a galla ritardi culturali prima che legislativi.
Notevoli gli spunti su cui riflettere. Dai rischi di un dominio incontrastato della tecnica che, a differenza della scienza, risponde solo alle sollecitazioni del mercato, all’imperativo di non trasformare la stessa scienza in religione (scientismo), dall’imprescindibile recupero della cognizione della morte come evento biologico che fa parte “del disegno esistenziale di ogni vivente” in un’era tecnologica in cui si tende ad esorcizzarla e segregarla come “provvisorio fallimento terapeutico”, al rispetto imprescindibile della persona umana come soggetto laddove la scienza, spesso, “conosce le cose nella dimensione fattuale ed oggettiva”.
E, prima di ogni altra cosa, l’esigenza di non spacciare per evidenze scientifiche, opinioni viziate da gravi deformazioni (colpose o dolose) della realtà. Si ricorda a tal uopo, la vicenda di Terry Schiavo del 2005, in cui molti giornali parlarono di “morte per fame e per sete” e di “sedativi per cancellare per attutire il dolore” (e come non ricordare l’infamia di quanti, nel caso di Eluana Englaro, ricordato nel libro, facevano le “processioni delle bottiglie d’acqua” o dicevano che “poteva anche avere un figlio”?). Veronesi è tassativo: dal punto di vista neuronale gli individui in stato vegetativo permanente sono “già morti” e non possono provare alcuna sensazione di fame, sete o dolore. Parole come pietre se si pensa che la legislazione italiana, unico caso nei Paesi avanzati, prevede l’alimentazione e l’idratazione forzata.
Un confronto alto, leale, aperto quindi costruttivo quello tra il medico e il filosofo come vorremmo vederne in altre sedi (soprattutto istituzionali) che fa emergere la necessità di declinare l’uomo, il suo benessere e la salvaguardia della sua dignità, come misura di tutte le cose. Una medicina, una scienza, una filosofia, un’etica, una religione, una politica che misconosca questo è solo flatus vocis.
Stefano Marullo
Agosto 2013