In questo libro c’è il Tamagnone più brillante ed eclettico, mai tronfio, che con dotta eloquenza ci regala un vero trattato di tanatologia, per nulla arido ma appassionato ed appassionante, scritto con certosina eleganza attraverso un excursus sulla morte attraverso le culture, le discipline, il pensiero, spaziando dalla filosofia alla storia, dalla religione all’arte, dall’antropologia alla fisiologia, il tutto condito con un approccio quasi virgiliano nell’esplorazione di una galleria di personaggi esemplari di cui l’autore si fa, ad un tempo, esegeta, lettore e soprattutto interlocutore.
“La mia morte sono io”, che tanto evoca un koan di memoria zen, può altrimenti tradursi con muoio dunque sono, in perfetta consonanza con l’approccio filosofico di Tamagnone, il suo originale esistenzialismo ateo postmaterialistico che vede come fumo negli occhi i costrutti dell’ontologismo e dei massimi sistemi idealistico-mistici, ancor più se avvinghiati attorno ad un tema capitale come la morte. Il più maltrattato è ovviamente Platone, e suo tramite, naturalmente Paolo di Tarso e Agostino d’Ippona. Ma ce n’è anche per Nietzsche (almeno per quello “filosofo”) e per Heidegger. Finanche i maggiorenti dell’ateo-pensiero più classico, quale Schopenhauer e Sartre non escono indenni dalla mannaia tamagnoniana.
Pregevole è piuttosto avere riesumato autori a torto derubricati come minori e/o non particolarmente popolari. Particolarmente gradito a chi scrive, per esempio, aver dedicato qualche pagina ad Emil Cioran, filosofo sui generis, che sulla vacuità della vita e sulla morte ha scritto pagine modernissime oppure avere citato Mainländer come interprete originale di Schopenhauer (persino più raffinato e potabile, per Tamagnone, dello stesso maestro) od ancora offrire ai lettori inediti (ai più) gioielli poetici di Georg Trakl, Dylan Thomas o Paul Celan, opacissimi ma pieni di un fascino senza tempo. Tamagnone sembra perfettamente a suo agio quando assurge a critico d’arte illustrando i grandi monumenti e i grandi dipinti attorno alla tematica della Signora Morte, con una levità che ricorda Philippe Daverio.
Uno iato, opportunamente illustrato nel libro, si deve registrare tra la concezione della morte nell’antichità (con le lodevoli eccezioni di personaggi del calibro di Seneca o Lucrezio) fino alle soglie del XVIII secolo e da questo momento in poi, quando si afferma l’individualità per lo più sempre offuscata dalle religioni e dalle pseudo- religioni in nome di una qualche Totalità. Ciononostante, anche dopo il processo di interiorizzazione della morte che il secolo XVIII ha portato, una tendenza ideologica sulla morte medesima ha continuato ad imperversare fino ai tempi nostri. Residuato di questa controcultura, l’opposizione ad ogni forma di eutanasia o di suicidio assistito che in nome di un’astratta difesa della Vita dimentica la dignita del vivente e il suo diritto a non soffrire. Commovente e a tratti lirica la lettera che Tamagnone riporta in morte del maestro Monicelli ed in effetti la narrazione che Tamagnone fa del suicidio (con una articolazione che ricorda Durkheim) rappresentano le pagine più suggestive del libro, quando ricorda la testimonianza tragica di un Cesare Pavese o Primo Levi; finanche la teoria della nichilìa, (una sorta di cupio dissolvi patologica) non appare così bizzarra. Più tortuoso il concetto di aiteria che rimanda ad una realtà extrafisica non materialistica ma neanche metafisica, tiene a precisare il filosofo Tamagnone.
In fin dei conti un libro coraggioso, l’ostentata serenità di un pensatore ateo che vede nella morte “l’evento che ratifica l’individualità” e che guarda alla finitezza senza scandalo ma come somma bellezza quantunque transeunte.
Stefano Marullo
novembre 2014