Docente di Storia delle idee alla Wayne State University, Ronald Aronson, che ha eletto Herbert Marcuse quale proprio maestro, ci presenta un libro dal gusto prevalentemente esistenzialista. L’autore auspica che le sue idee «inneschino la discussione nella piccola ma vitale corrente di umanisti laici organizzati»: le cui associazioni, ritiene, sono incapaci di fare proselitismo «al di là del ristretto gruppo di quanti si identificano già come umanisti laici o appartengono a una delle loro organizzazioni». Il non credente Aronson dà del resto ragione, almeno parzialmente, al teologo AlisterMcGrath quando sostiene che l’ateismo non sembra essere più una corrente di pensiero all’avanguardia: certo, non si spinge a far propria l’altra tesi di McGrath, secondo cui è la fede religiosa a essere proiettata verso il futuro (che, detto da un appartenente alla Chiesa anglicana, suona quasi comico), ma è comunque un’opinione controcorrente, in tempi di new atheism. Aronson è altresì critico nei confronti di una delle due supposte «tradizioni» dell’ateismo, quella rappresentata dai fautori degli attacchi frontali alla religione, e fa invece sua quella di coloro che la religione hanno sempre cercato di spiegarla: Daniel C. Dennett è un po’ incongruamente citato in entrambe, ma anche la presenza di Marx nel secondo filone sembra un scelta un po’ troppo ardita. Rimane il fatto che è difficile attaccare qualcuno senza cercare di spiegare prima quali sue posizioni sono considerate errate.
Forse, più che incapaci, le associazioni laiciste sono semplicemente refrattarie a ogni tentativo di persuadere gli individui, ritenendoli in grado di giungere da soli a darsi risposte sulle grandi questioni della vita. Per quanto paradossale, è anche questo l’approccio (quantomeno implicito) del libro di Aronson: un’elaborazione personale rivolta direttamente a ogni essere umano almeno potenzialmente scettico. Dio non c’è, o comunque non possiamo sapere che c’è, e il senso da dare alla vita è dunque quello che ognuno di noi gli vorrà dare: e cercare risposte che non siano tratte da morali preconfezionate è un modo particolarmente gratificante di darle significato.
L’autore ricorda come «vivere senza Dio, quindi, non significa semplicemente rifiutare Dio, ma porsi domande fondamentali sull’esistenza, tuttora centrali nelle attuali religioni, e trovare loro risposta». Un po’ ambiziosamente sostiene di averle trovate: «le mie risposte a tali domande mirano a una coerenza (alla stregua della quale meritano di essere giudicate) assente da gran parte dell’attuale pensiero e laico». Nonostante l’inserimento nell’edizione italiana di due sottotitoli ancora più ambiziosi (l’originale, più modestamente, si limitava a suggerire New directions for Atheists, Agnostics, Secularists and the Undecided), alla fine Aronson riconosce che il suo libro vuol essere soprattutto «cibo per la mente»: uno strumento per suscitare riflessioni. Anche perché i temi affrontati non sono certo banali: gratitudine, responsabilità, sapere, morte, speranza.
Obbiettivo raggiunto? Non completamente. Le risposte non appaiono sempre originali, né il suo è il primo tentativo di questo tipo. Il pregio di Vivere senza Dio risiede soprattutto nella capacità di mostrare quanto l’ateismo, ben lungi dal rendere la vita arida, la può invece far diventare più piena e degna di essere vissuta fino in fondo. Non è risultato da poco, in tempi in cui l’incapacità di trasmettere inerzialmente la fede spinge le confessioni religiose a chiedere a governi e società di accettare le loro dottrine morali. Ed è molto importante ribadirlo spesso, anche facendo proprie le parole di Albert Camus: «Amo questa vita con abbandono e desidero dirlo chiaro e tondo: mi rende fiero della mia condizione umana».
Raffaele Carcano
novembre 2009