Ad Amartya Sen è stato conferito il premio Nobel per l’economia nel 1998. In tutte le sue opere, tuttavia, ha sempre cercato di andare oltre la semplice analisi economica, estendendo le sue ricerche ai temi della democrazia, dell’identità, dell’educazione, della laicità, della giustizia, dell’etica, della libertà.
Il libro in questione è quasi un compendio di tali suoi interessi. Tuttavia, «il centro d’interesse di questo lavoro è la tradizione argomentativa» indiana: «libri e racconti che hanno avuto un’enorme influenza sulla letteratura e il pensiero» nel subcontinente, e da lì nel mondo.
Ricordiamo in che modo la creazione del cosmo è commentata nel testo sacro Rgveda: «Chi sa realmente? Chi lo proclamerà qui? Da che fu prodotto? Da che questa creazione?… forse si è formata da sé, o forse no. Colui che la guarda dall’alto, dal sommo dei cieli, egli solo lo sa – o forse non sa». Rispetto alla più o meno coeva narrazione biblica, dove le pretese certezze dell’anonimo estensore cozzano con una descrizione estremamente confusa e contraddittoria, qui la mancanza di evidenze diventa quasi una rivendicazione di aperto scetticismo.
Su queste radici si innesta, e ciò è di particolare interesse per i navigatori del sito UAAR, una tradizione eterodossa che può essere fatta risalire alla prima metà del primo millennio a.e.v. con la scuola Lokāyata, e proseguita poi per millenni con la scuola Cārvāka, il “diadema gemmato della scuola ateistica”. Sen ricorda che «il sanscrito non solo ha la letteratura religiosa più ampia esistente in qualsiasi altra lingua classica, ma possiede anche il più cospicuo ammontare di scritti agnostici o ateistici»: ovviamente, purtroppo, non disponibili nella traduzione italiana.
Ancora oggi, secondo la World Christian Encyclopedia, i non credenti rappresentano circa l’1,5% della popolazione (circa 15 milioni di persone, dunque), e va considerato che le statistiche ufficiali non includono i non credenti di estrazione indù.
Ma è l’India quale enorme crogiuolo di concezioni del mondo, religiose e non, che emerge con forza da questo testo: concezioni che, quasi sempre, hanno assunto comportamenti estremamente tolleranti. Sen ricorda spesso le parole degli imperatori Ashoka (buddhista) e Akbar (musulmano), così come non bisogna dimenticare che anche «oggi l’India vanta un presidente musulmano, un primo ministro sikh e un capo del partito di maggioranza cristiano», e ciò in un paese induista al 75%.
La stessa costituzione indiana, del resto, afferma la laicità dello Stato addirittura nel suo preambolo (e va ricordato che quella italiana, benché entrata in vigore solo due anni prima, non cita mai espressamente il termine “laicità” o uno dei suoi derivati). Certo, l’autore constata come il laicismo indiano non sia identico a quello occidentale: «uno mette in primo piano la neutralità tra le diverse religioni, l’altro la proibizione di ogni associazione religiosa nell’attività dello Stato».
Come ricordato, il libro comprende anche interessanti capitoli dedicati ad altri argomenti, quali la cultura, i rapporti con la Cina, le classi, le donne, il riarmo nucleare. L’approccio di Sen, sempre razionalista, rende godibile ogni passaggio del testo: nonostante che, come l’autore correttamente premette nella prefazione, trattandosi di una raccolta di saggi le ripetizioni siano inevitabili.
Ottobre 2006