Mancava, nel panorama editoriale italiano, un testo agile e documentato che trattasse del controverso rapporto ideologico della religione cristiana con la guerra e la pace. Il volume di Fumagalli Beonio Brocchieri giunge ora a colmare questa lacuna, e l’ottima bibliografia inclusa alla fine consentirà comunque a chiunque di approfondire ulteriormente l’argomento. «Questo non è un libro sulla guerra» – premette l’autrice, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Milano – «ma sulle idee che, in un senso o nell’altro, hanno promosso e giustificato la guerra o favorito la pace in campo cristiano». Un testo utile anche per capire quale credibilità può vantare oggi la Santa Sede nel presentarsi come punto di riferimento dell’intero universo pacifista.
La trattazione comincia dalle Sacre Scritture, dove abbondano i passi che possono essere interpretati in un senso o nell’altro (con netta preponderanza “bellicista” nell’Antico Testamento e maggiore propensione pacifica nel Nuovo). Già con Paolo comincia a farsi strada un lessico religioso di ascendenza militare, che trova il suo massimo sviluppo con i parallelismi che infarciscono i racconti agiografici sui martiri. Con la presa del potere di Costantino, e la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato, si realizza una svolta repentina verso una sorta di “teologia della vittoria”: secondo l’autrice, «la rapida scelta dei cristiani a favore della guerra e l’adozione dello jus pagano per la sua giustificazione segnalano un forte e stridente contrasto con l’assioma dell’amore fraterno e universale predicato dal Vangelo: è una spinta di violenza che si adegua alla situazione di fatto e arriva fino a tempi molto vicini ai nostri».
La sistematizzazione dottrinale dei nuovi orientamenti, confusamente emersi dalle vicende politiche del IV secolo, è toccata anche in questo caso ad Agostino. Fa capolino un orizzonte pessimista e la concezione della guerra come male minore inevitabile. Le sue parole, specialmente negli ultimi anni di vita, tradiscono il netto mutamento di orizzonte: «un soldato che uccide un uomo per obbedire alla legittima autorità non deve temere la punizione perché non è colpevole di omicidio; anzi, se non lo facesse sarebbe colpevole di aver disertato il suo dovere e trasgredito un comando». E ancora: «Cosa c’è da biasimare nella guerra? L’uccidere uomini che un giorno dovranno morire?».
I secoli seguenti saranno caratterizzati da un’escalation. Gregorio Magno loderà l’ampliamento di territori perché in tal modo «il Regno di Cristo allarga i suoi confini»; papi come Leone IV, Giovanni VIII e Urbano II e santi come Bernardo di Chiaravalle loderanno il martirio del soldato immolatosi per la gloria della fede cristiana, non solo nelle crociate indette verso gli infedeli, ma anche verso altri cristiani. Nel Cinquecento Giulio II scenderà personalmente in battaglia, e Paolo IV non esiterà a muover guerra alla Spagna. La Riforma protestante non modificherà granché la situazione, e il lavorìo giuridico dei teologi controriformisti contribuirà a dare una base teologica al colonialismo. Durante la prima guerra mondiale la contrapposizione tra Stati cattolici e l’obbligata neutralità cattolica faranno scaricare le responsabilità del conflitto al «giusto giudizio di Dio dovuto alla apostasia della moderna società dalla società religiosa». Una posizione contingente, tant’è che Pio XI non esiterà a lodare la guerra d’Etiopia e a felicitarsi per la vittoria falangista in Spagna. La svolta conciliare non dissolverà del tutto queste “radici”, come hanno dimostrato i forti ondeggiamenti di Paolo VI e le controverse posizioni di Giovanni Paolo II che, pur dichiarandosi nettamente contro la guerra non ha esitato, inizialmente, ad appoggiare l’azione di Ronald Reagan (non dimenticando, peraltro, la sua intempestiva decisione di riconoscere lo Stato croato).
Il testo non dimentica affatto le spinte di segno contrario che si sono periodicamente manifestate durante la storia della Chiesa: dal movimento della pace di Dio intorno all’anno Mille all’eretico Wyclif, dallo scomunicato Marsilio da Padova a Erasmo da Rotterdam (comunque posto all’Indice), dal pacifismo cattolico degli anni Venti alle prese di posizione di don Milani sull’obiezione di coscienza. Ma, come si può agevolmente notare, tali spinte sono state sporadiche e, soprattutto, confinate in un ambito ereticale, o comunque molto vicino alla dissidenza organizzata.
In tale contesto, emerge con chiarezza che l’unica incondizionata azione a favore della pace promossa dalle gerarchie ecclesiastiche sia stata quella di Giovanni XXIII. Non è del resto un caso che questo pontefice sia passato alla storia come “il papa buono”, mentre nessun papa è passato alla storia come “il papa cattolico”. Tutti i papi sono stati cattolici: evidentemente non tutti i papi sono stati buoni…
Concludendo, l’autrice ritiene di non poter affermare che esiste una ragione unica alla base di concezioni così durature. La giustificazione delle guerra e una certa visione negativa dell’uomo sono, del resto, caratteristiche anche di altre culture: addirittura, citando Freud, si può concepire che siano parte integrante della natura umana. Ma questa constatazione non fa altro che rendere palese, a mio avviso, la “natura umana”, priva di spessore ultraterreno, della realtà solo ed esclusivamente storica della Chiesa cattolica.
Raffaele Carcano
Ottobre 2006