I due autori sono rispettivamente un’andinista e un messicanista. In questo volume ricostruiscono l’approccio che ebbero i primi spagnoli con i popoli nativi del continente americano. Uomini d’arme o religiosi, il loro atteggiamento si contraddistinse subito per la semplicistica contrapposizione: da una parte la religione vera, dall’altra la sua parodia, una religione pagana con i suoi templi, i suoi sacrifici, i suoi sacerdoti (e il demonio ad agire nell’ombra). Di qui la ricerca di somiglianze con i culti greci e romani, in età umanista; o, in seguito, la volontà di estirpare l’eresia da parte di una monarchia, quella spagnola, contemporaneamente impegnata a riaffermare la propria cattolicità nella lotta contro i protestanti. In poche parole, essi riversarono la propria cultura (e la propria formazione) nell’interpretazione dell’altra, incapaci di comprendere “il diverso”. Come dicono gli autori, «si vede ciò che ci si aspetta di vedere»: è proprio questa condizione che li attira e li spinge a documentare come l’evoluzione del pensiero degli studiosi dell’idolatria sia andata di pari passo con i cambiamenti che interessavano la coeva cultura occidentale.
Nel testo si dipanano i racconti di prima mano degli spagnoli. Soprattutto dei missionari, intenti a sfruttare l’occasione per costruire “l’uomo nuovo”, differente da quello europeo, giudicato già allora irrimediabilmente perso alla vera fede. La loro capacità di comprendere fu spesso modesta, l’ansia di conoscere inizialmente anche; a differenza di Cortes, che se ne servì nella conquista e fece da maestro ai futuri estirpatori, impegnati a conoscere l’idolatria per eliminarla meglio. Ogni tanto affiorano barlumi di razionalità, come quando il domenicano Las Casas scorge, nella genesi dei culti (tranne il suo, ovviamente), l’incapacità degli uomini di capire ciò che esce dall’ordinario.
Le esigenze di far rientrare l’Altro nei propri schemi, e soprattutto nella propria teologia, porta a risultati ridicoli, come l’identificazione dell’eroe mesoamericano Topiltzin con l’apostolo Tommaso: risolvendo così il problema della mancata predicazione del vangelo in una parte consistente delle terre emerse, e giustificando insieme la repressione nei confronti di popolazioni che non vollero accettare la buona novella. In età più tarda, di fronte al permanere di pratiche arcaiche sotto la patina del sincretismo, gli stessi evangelizzatori ricorsero a discutibili commistioni. Per ultimi vennero i gesuiti: tanto coraggiosi negli approcci quanto spregiudicati nei modi, dal subdolo utilizzo della carità all’assuefazione indotta nei nativi dal consumo dello Yerba mate.
Nell’ultima parte del libro, gli autori si soffermano sul significato che, al giorno d’oggi, hanno ancora le categorie della religione e dell’idolatria (ma anche quelle della magia e della superstizione). Rimane in piedi un paradosso, su cui poggerebbe l’antropologia religiosa: «Quello di aver abbandonato i postulati teologici e la maggior parte dei fondamenti concettuali che strutturavano la riflessione europea del XVI e XVII secolo, conservando però alo stesso tempo la suddivisione a cui essi avevano dato vita». Forse, suggeriscono gli autori, bisognerebbe cominciare a mettere in discussione proprio la categoria “religione”: «L’universalità della conoscenza innata di Dio va contro la prova dei fatti empirici», e quindi «il “religioso” è l’eredità di un pensiero occidentale, clericale e medievale, il solo da cui può trarre la propria coerenza».
Un testo stimolante, anche se non sempre facile.
Gennaio 2005