Dopo aver affrontato la storia della nascita del cristianesimo, facendone un conciso quanto scorrevole resoconto (L’invenzione del cristianesimo), che si presta bene per chi voglia avere un testo laico da cui partire, Leo Zen si dedica all’ebraismo. Chiaramente questa sua nuova analisi muove da un’impostazione che senza mezzi termini considera la Bibbia non un libro “rivelato”, ma un «libro solo e prettamente umano, scritto per esaltare tutte le istanze teologiche, storiche e sociali degli antichi israeliti», accostandolo e confrontandolo in maniera serrata (e impietosa) coi dati storici, filologici e archeologici esterni, al di fuori di qualsiasi cornice sovrannaturale.
L’opera di smitizzazione (che non è mai in toto demolizione) inizia in maniera coerente da Abramo, considerato il capostipite degli ebrei e il primo adoratore del “vero Dio”. L’autore, accettando la supposizione che egli possa essere esistito, lo identifica semplicemente con uno dei tanti anonimi capi-tribù del XX secolo a.C. circa della zona a cavallo tra Mesopotamia ed Egitto, influenzato da culture come quella sumerica e costretto a migrare: «tramutò l’idolatria in monolatria (o meglio, in monoteismo), il che non ha niente a che vedere col vero monoteismo. Abramo non nega l’esistenza degli altri dei, si impegna semplicemente a venerarne uno solo, tra i tanti» in cambio di “favori”. Alcuni secoli dopo entrano in scena gli hapiru, insieme eterogeneo di popolazioni semitiche nomadi (tutt’altro che un “popolo”, ancor meno “eletto”). Assieme ad altri, invaderanno verso il 1700 il nord dell’Egitto, fondando il regno degli hyksos. Sconfitti questi ultimi un paio di secoli dopo dai faraoni del sud, che penetrarono fino in Palestina, parte degli hapiru vennero ridotti in schiavitù e condotti in Egitto: è da questo spunto storico che nacque probabilmente il racconto – mitizzato e amplificato – della “cattività egiziana” degli ebrei.
A questo punto l’autore tratta una figura chiave del mondo ebraico: Mosè. Per farlo, spiega come in Egitto ci fosse una suddivisione culturale tra religione popolare (allegorica, politeistica, conclamato instrumentum regni per tenere a bada il popolo) e quella misterica degli iniziati, fondata sul concetto di Dio-Tutto, e rievoca il tentativo di «controreligione» monoteistica solare di Akhenaton. Mosè sarebbe quindi un esponente della nobiltà egizia, iniziato a questi misteri, che avrebbe poi guidato gruppuscoli di hapiru e di dissidenti in fuga dopo la reazione contro la riforma di Akhenaton, fornendo loro una religione unificante ma necessariamente “imbarbarita” e volgarizzata rispetto a quella «sublime» dei misteri, che dovette convivere con elementi idolatrici e politeistici. Leo Zen riprende chiaramente le idee esposte da Freud in L’uomo Mosè e la religione monoteistica, dandogli nuova luce in base a ulteriori contributi moderni, ma i dubbi comunque restano. Per un’analisi più approfondita e completa della “spinosa” questione, si consiglia il testo di Domi Belloni A sua immagine (scaricabile dal nostro sito), che critica l’impostazione freudiana e “mosaicocentrica”.
La conquista della terra di Canaan, riportata dalla Bibbia come una «guerra lampo» di sterminio, si rivela in realtà un lentissimo e faticoso susseguirsi di scaramucce e di migrazioni. Ci vorranno secoli prima che le divise tribù ebraiche riescano a ritagliarsi uno spazio precario nell’area e per elaborare un minimo di tradizioni culturali condivise, sempre caratterizzate da pesanti influenze di idolatria e politeismo. Anche la potenza e la ricchezza del regno unificato di David e Salomone mancano di riscontri esterni o interni, risultando sostanzialmente una creazione posteriore.
Il momento cruciale per la storia ebraica diventa la redazione della Bibbia, iniziata in maniera sistematica sotto gli auspici di re Giosia (VII secolo a.C.) e pensata come opera di revisionismo storico e ideologico, portata avanti per costruire in maniera distorta e artificiosa una coerente tradizione nazionale, un “filo rosso” monoteistico che partisse da Abramo passando per Mosè e una gloriosa ascesa politica: un modo per far diventare “eletto” da Dio un popolo sostanzialmente arretrato, povero, frammentato, senza storia e marginale. La Bibbia risulta quindi una «grande saga in parte mitica, in parte epica e in parte vagamente storica, fatta di leggende, memorie, tradizioni popolari, mistificazioni profetiche e propaganda teologica», una fusione disorganica e incoerente di varie fonti eterogenee, che mostra costantemente incongruenze e contraddizioni davanti a un’indagine serena e critica.
Sarà questo libro infatti che riuscirà a conservare l’unità degli ebrei durante i mille sconvolgimenti che li affliggeranno: in particolare, la deportazione a opera dei babilonesi nel VI secolo a.C., cui seguirà la liberazione a opera del «messia» persiano Ciro. Ma non dobbiamo pensare che il contatto col mondo orientale sia senza effetti: anzi, l’ebraismo verrà pesantemente influenzato da quelle culture – sostanzialmente “adattandosi” in maniera proteiforme, nonostante la volontà di garantire una certa “purezza” religiosa. Se dai babilonesi trarrà i miti della creazione, il calendario, la terminologia e l’alfabeto, dai persiani verrà l’aramaico, il concetto di «monoteismo universale», tipico degli imperi multietnici (in contrapposizione al nazionalismo ebraico), il messianismo. Ulteriori influenze verranno dal mondo ellenistico, sincretico e cosmopolita, nonostante esso venisse aspramente combattuto con le rivolte dei Maccabei. Con l’impero romano si avrà un ulteriore passaggio, che culminerà – come spiega appunto l’autore nel breve capitolo conclusivo – nell’«invenzione del cristianesimo», come elaborazione, adattamento e fusione di caratteri ebraici (a loro volta elaborazione di caratteri egizi, palestinesi, babilonesi, persiani) e greco-romani. Ma questa è appunto un’altra storia, abbondantemente trattata nell’altra opera già citata di Leo Zen.
Il senso del termine “involuzione”, usato dall’autore nel sottotitolo, sta proprio in questo processo di continuo adattamento, revisionismo, modifica dell’ebraismo di fronte ad altre religioni e culture, che è avanzato nei secoli sempre alla faccia delle “verità assolute” tanto conclamante (e riacconciate debitamente post eventum).
Questo è un libro che fa il punto su molti elementi dati per scontati e che risulta interessante e scorrevole; casomai, gli unici appunti reali che ci sentiamo di muovere a questo libro è che, forse, prende troppo per buono il resoconto biblico (seppure chiaramente da posizioni non religiose) e potrebbe risultare per certi palati un po’ troppo centrato su Mosè. Questo approccio risulta tanto più problematico quanto più si torna indietro nel tempo, in periodi in cui le fonti storiche ormai sono irrimediabilmente perdute o comunque scarseggiano (specie il caso di Abramo), e dove esiste di fatto solo la Bibbia – sulla cui attendibilità vengono avanzati concreti quanto giustificati dubbi. Ma ciò non toglie che Il falso Jahvé risulti un’opera utilissima nel fornire sinteticamente un aggiornato, attendibile, laico e critico quadro d’insieme della storia dell’ebraismo.
Valentino Salvatore,
Circolo UAAR di Roma,
marzo 2008