Carlo Ginzburg, basandosi su documenti d’archivio, ci racconta la storia di Domenico Scandella detto Menocchio, un povero (ma non poverissimo) mugnaio friulano, nato nel 1532 e giustiziato dall’Inquisizione solo qualche mese dopo Giordano Bruno.
La visione del mondo di Menocchio non è per nulla incoerente, ed è solo in parte rintracciabile nei libri che possedette (tra i quali anche il Corano): da una parte si rifà a una cultura popolare tanto arcaica quanto oscura; dall’altra, invece, propone un’attualissima versione del cosiddetto “dio personale”. La religione di Menocchio era essenzialmente pratica, fatta di poche regole: non riconosceva i sacramenti e la divinità di Cristo, riteneva la comunione «un pezzo di pasta» e la Sacra Scrittura «aggiornata dalli homini». Sicuro che la morte rappresentasse la fine, non riusciva però a non raffigurarsi il paradiso. A queste originali credenze si affiancavano aspettative di giustizia terrena che non poteva essere soddisfatte dalla religione cattolica. «Tutto è de Chiesa et preti, et strussiano li poveri». Voleva che la Chiesa «non fusse tante pompe» e, come ci fa notare Ginzburg, particolarmente «assurda doveva sembrargli invece la pretesa dei chierici di mantenere il monopolio di una conoscenza che si poteva comprare per “doi soldi” sulle bancarelle dei librai di Venezia».
Un saggio di estrema importanza, quindi, citato a piene mani, soprattutto all’estero, nelle più importanti opere storiografiche sull’età moderna uscite negli ultimi decenni. Può attrarre chi cerca un testo sull’Inquisizione, chi si interessa dell’impatto della stampa sulla cultura dei ceti meno abbienti, come pure chi vuol trovare un esempio di religiosità popolare del Cinquecento. Nessuno resterà deluso, molti rimarranno sorpresi.
Marzo 2005