Dal novembre scorso è in libreria il libro della bizantinista Silvia Ronchey Ipazia. Con una scrittura estremamente piana, non solo per gli addetti ai lavori ma di facile approccio per chiunque, con temi suddivisi in brevissimi capitoli e, di contro, una ricca documentazione bibliografica e scientifica che occupa circa due terzi del volume, la studiosa dimostra come si possa ben scrivere in modo partecipe pur non venendo meno all’acribia nella lettura delle fonti, doverosa per qualsivoglia storico; e ci offre -e ci restituisce- finalmente, nei limiti della possibilità della scarsa documentazione contemporanea o di poco posteriore agli avvenimenti, la figura della neoplatonica alessandrina che, «se nella storiografia è stata strumentalizzata, nella letteratura è stata trasfigurata e tradita» (p. 10).
Portata recentemente alla ribalta mediatica anche dal film “Agorà” diretto da A. Amenár e da troppe pubblicazioni del tutto romanzate o inspiegabilmente acritiche e prive di apparato documentario, ma da tempo e a lungo esaltata da filosofi, riformisti, illuministi, massoni risorgimentali, seguaci del sincretismo misticheggiante dell’inizio del XX secolo, femministe, assertori del libero pensiero e recentemente da certi luoghi comuni nell’ambito di un ateismo che sembra non conoscere in che cosa consistesse il neoplatonismo, Ipazia è infatti tanto famosa quanto, in realtà, sconosciuta, vuoi per programmata cassazione delle testimonianze da parte della chiesa, vuoi, assai meno probabilmente, per scomparsa accidentale di esse. Non sono infatti sufficienti l’esaltazione commossa di un Toland (Hypatia or the History of a most Beautiful, most Virtuous, most Learned and in Every Way Accomplished Lady…) o le caustiche notazioni di un Voltaire (Histoire de l’établissement du christianisme) o lo sdegno di un Gibbon (The History of the declin and fall of the Roman Empire), né tantomeno, Baronio in testa, le negazioni e confutazioni clericali, per permetterci di sapere su Ipazia qualcosa in più di quanto non ci tramandino le scarne fonti rimasteci, soprattutto Socrate Scolastico, Giovanni di Nikiu, Suida; queste la dicono figlia di Teone e maestra di Sinesio, ottima docente, forse filosofa, più probabilmente astronoma e matematica, donna di fascino e carattere deciso. Di sicuro abbiamo la totale perdita dei suoi eventuali scritti e la certezza del suo assassinio e dello scempio del suo cadavere avvenuti nel 415 ad opera di monaci «dallo spirito incandescente» (Socrate scolastico), «esseri abominevoli, vere bestie» (Suida), sorta d’invasata guardia pretoriana di Cirillo ed esponenti delle frange più intolleranti del cristianesimo egiziano dell’epoca, lo stesso cristianesimo protervo che, seguendo le disposizioni del patriarca Teofilo, con bestiale e ottusa furia di distruzione della cultura pagana, aveva saccheggiato e distrutto completamente il Serapeo. Di certo inoltre sappiamo che si distingueva per fanatismo e brutalità di metodi anche Cirillo, nipote di Teofilo, metropolita dal 412 e caro al papato romano perché, oltre che persecutore di pagani e ebrei, era acerrimo nemico del nestorianesimo, che confutò a proposito della tesi che, parlando di Christokos e non già di Theotokos, negava la maternità divina di Maria, tanto da esser poi, quale doctor incarnationis, onorato da Roma; senza la dovuta considerazione di quanto, in realtà, le speculazioni dell’arcivescovo alessandrino contenessero i germi del monofisimo, la più potente tra le eresie cristologiche, attribuente al figlio la sola natura divina.
Di certo, infine, sappiamo che l’efferrata uccisione di Ipazia, maturata in uno degli ambiti e dei momenti peggiori del fanatismo militante cristiano dei primi secoli, venne archiviata come opera di pochi esaltati per l’intervento di Aelia Pulcheria allora quindicenne ma potentissima sorella dell’imperatore bambino Teodosio II, cristiana devotissima e amica del vescovo Cirillo, il «terrible archevêque» (H. Duchesne, Histoire ancienne de l’Église), «homme tyrannique» (P. Evdokimov, Le Christ dans la pensée russe) e il più che probabile mandante (entrambi futuri santi sia per i cattolici che per gli ortodossi).
Da rilevare, nel lavoro della bizantinista, l’accento sulla possibilità di un carisma femminile, iniziatico e “sacerdotale”, strettamente correlato ad una sorta d’insegnamento misterico matematico, astronomico e filosofico d’Ipazia, «l’ultima aristocratica erede della dinastia intellettuale di un centro di potere come la scuola di Alessandria» (p. 166). Elemento interessante che andrebbe, penso, maggiormente inquadrato nel panorama dello gnosticismo neoplatonico, degli attacchi feroci, proprio nel IV secolo, ad esso rivolti dalla chiesa e della nascita coeva dello stereotipo infamante e dei topoi orgiastici e blasfemi che, ripetuti e strumentalizzati ad libitum, sarebbero stati nel tempo continuamente impiegati, per marchiare le dissidenze e le diversità, contro catari e valdesi, dolciniani e guglielmiti, fraticelli ed ebrei, lebbrosi e ghibellini, per deflagrare alla fine nell’esplosione antistregonica e di cui uno degli ultimi echi, meno peregrino di quanto possa apparire, è la definizione del comunista mangiator di bambini.
Infine, tra i pochi appunti che potrebbero esser mossi alla Ronchey, uno riguarda, a mio avviso, il forse troppo veloce accenno (pp. 105-110) all’eclatante creazione agiografica di Caterina d’Alessandria, patrona della Sorbona, di filosofi e sartine, dal culto diffusissimo nel medioevo, protagonista di novellette e canzoncine e probabile concretizzazione del simbolismo della sophia. Se si considera infatti che l’agiografia, non anteriore al VI secolo e completata nel IX, pone la vicenda cateriniana all’inizio del V, non appare affatto peregrina l’opinione, sostenuta anche da studiosi sacerdoti o credenti, che vuole la figura della improbabile santa modulata su quella d’Ipazia, e che portò nel 1969 alla cassazione di Caterina dal martirologio romano ad opera di Paolo VI; oggi invece abbiamo assistito, ad opera di Benedetto XVI, al ripristino della memoria liturgica.
Val la pena, comunque, di concludere con le parole della Ronchey, stavolta non originate dal metodo ma dall’emozione: «in ogni caso, ogni volta che nella storia si ripropone, e si ripropone spesso, il conflitto tra un Cirillo e un’Ipazia, una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia » (p. 193).
Marta Gianni Orioli
Maggio 2011