Philippe Grollet
Laicità: utopia e necessità
L’Avvenire dei lavoratori, Svizzera 2008, pagine 190, euro 19
ISBN 978-3-908171-09-6
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L’insegnamento della morale laica dal 1955; programmi televisivi dedicati ai non credenti dal 1956; la prima casa della laicità fondata nel 1979 (ora ce ne sono oltre 80); e, dal 1991, anche l’assistenza morale nell’esercito. Sono solo alcune delle conquiste del laicismo belga, del quale sapevamo ben poco in Italia: a colmare la lacuna provvede ora il libro di Philippe Grollet, che dal 1988 al 2006 è stato presidente del Centre d’action laïque, l’organizzazione belga in cui sono federate le associazioni francofone impegnate nel campo della laicità e del pensiero non religioso.
La laicità, secondo l’autore, può essere di due tipi: politica,quando è riferita alle istituzioni, e filosofica, quando attiene alla sfera morale o alle singole persone. È un luogo comune considerare lo stato francese come un esempio di laicità estesamente applicata e di separazione netta (dal 1905) tra Stato e Chiese: tale modello non è certo l’unico e non è del resto privo di punti deboli. Grollet confronta il modello francese con quello belga, il cui stato (anzi, la cui Costituzione!) riconosce uguali diritti alle singole confessioni religiose e alle associazioni che si basano su concezioni filosofiche non confessionali.
L’originale fisionomia della laicità belga potrebbe non essere però tale, sostengono alcuni critici: si tratterebbe, alla prova dei fatti, di un comunitarismo sul tipo inglese semplicemente esteso alle associazioni dei non credenti. Grollet rifiuta recisamente questa interpretazione: certo, «il comunitarismo, antitesi della laicità politica, è il sistema di smembramento del sistema pubblico, per non dire dell’autorità pubblica, in tanti ‘pilastri’ comunitari, stati nello Stato, con loro regole proprie e sottoposti all’autorità dei loro capi religiosi o comunitari». Ma la realtà belga sarebbe ben diversa, sostiene: poiché «l’organizzazione, all’interno della società civile, di comunità diverse [religiose e non] è solo un normale meccanismo di funzionamento della democrazia», riconoscere l’esistenza di comunità liberamente organizzate non significa necessariamente precipitare nel comunitarismo, almeno «fintantoché lo spazio concesso all’elemento comunitario rimane modesto e accessorio».
Il rischio, ne è conscio, esiste, e per questo ribadisce che «a una visione ‘libanese’ del pluralismo – generatrice di tensioni quando non di scontri – la laicità oppone la difesa della scuola di tutti e dei servizi aperti a tutti». La scuola è dunque il principale discrimine con cui valutare l’effettiva laicità di un sistema politico. Un altro è lo spazio della discussione e della rappresentazione pubblica: in Belgio le autorità sono ‘costrette’ ad ascoltare anche gli atei e gli agnostici, mentre in Francia non accade, o accade per libera concessione (e quasi sempre sono esponenti massoni a essere invitati). Un altro ulteriore ambito è rappresentato dalle strutture obbliganti (carceri, esercito, ospedali): in Francia esistono ancora i cappellani religiosi remunerati dallo Stato; in Belgio sono loro affiancati, con i medesimi diritti e con il medesimo stipendio, centinaia di assistenti laici.
Che l’attenzione delle associazioni belghe sia comunque incentrata sull’individuo, anziché sulla propria comunità, è confermato dalla posizione tenuta sui riti civili: «non si sottolineerà mai abbastanza che il bisogno di ritualità è legittimo e non è il surrogato di una religione in senso tradizionale e dogmatico e che questo bisogno deve essere accolto se del caso, senza che sia un obbligo; infatti, numerose coppie ritengono – in modo altrettanto legittimo – che il loro progetto di vita comune attiene alla loro più stretta intimità e che non desiderano alcuna socializzazione o ritualizzazione dell’avvenimento».
Si ha una riprova dell’attenzione prioritaria riservata all’individuo nella posizione assunta sul velo: se si ritiene che la libertà di coscienza della donna vada tutelata a ogni costo, diventa allora indispensabile chiedere «un adeguamento della legge penale affinché siano perseguiti e condannati coloro che utilizzano pressioni fisiche o morali per imporre simboli di qualsiasi natura, religiosi o meno, in particolare quando i simboli in discussione abbiano una connotazione sessista». Posizione coraggiosa, perché inevitabile fonte di contrapposizioni con la comunità islamica. È forse per questo che, più recentemente, il CAL ha riorientato le proprie posizioni: per quanto sia la posizione indubbiamente più coerente, la traduzione pratica è inevitabilmente condizionata dalla disponibilità della autorità a ‘punire’ le famiglie.
Lo spazio dedicato alla laicità filosofica esamina, forse un po’ troppo velocemente, gli elementi essenziali che secondo l’autore costituirebbero «l’utopia di miscredenti»: spirito critico, universalità, relativismo, autonomia, libertà, responsabilità, conquista della cittadinanza, capacità di rivolta (nel senso dato alla parola da Camus), riabilitazione del piacere, uguaglianza, alterità, solidarietà ed esigenza di giustizia, una ricerca di senso che non necessariamente esclude forme di spiritualità (prive, ovviamente, di qualunque connotato sovrannaturale).
Arricchito da una prefazione di Mario Alighiero Manacorda, da una postilla di Vera Pegna e da una piccola bibliografia ragionata sulla laicità in Italia, Laicità: utopia e necessità è un testo che non dovrebbe mancare nella biblioteca degli attivisti laici, perché l’esperienza che racconta offre alla riflessione individuale e collettiva stimoli sempre molto interessanti.
Raffaele Carcano
novembre 2009