«Nessuno oserà affermare che si può sopportare tutto in questo mondo, nessuno oserà affidarsi soltanto alle proprie forze per rispondere; sono pochi gli esseri dotati di facoltà superiori che non siano stati colpiti più di una volta dalla disperazione, e la vita spesso non sembra altro che un lungo naufragio, i cui cocci sono l’amicizia, la gloria e l’amore» (p. 129). Eppure — ci dice Madame de Staël — la soluzione per mettere fine alle nostre sofferenze non può essere toglierci la vita. Chi prende questa estrema decisione lo fa mosso dal più cieco egoismo, concentrato com’è sulle sfumature delle proprie insoddisfazioni.
Questa celebre donna vissuta a cavallo tra Settecento e Ottocento, fondamentale per la storia della cultura universale per il suo impegno interamente dedito all’emancipazione umana — in particolare della donna — dai gioghi del potere e dell’ignoranza, affida i suoi intimi pensieri all’opera Riflessioni sul suicidio (1814), tradotta in italiano per la prima volta dalla casa editrice Bibliosofica. Scrive per gli infelici — forse presa anch’ella da “tristezza esistenziale” procuratale dai duri colpi della sorte — spronando loro ad aprire gli occhi sul significato autentico della vita. Fede cristiana (vissuta in modo personale, lontano da mediazione dei preti e rigidità calvinista) e libertà repubblicana sono gli ambiti in cui si delinea la visione della vita della scrittrice francese. Entrambe presuppongono una “dedizione” all’altro in grado di restituire all’essere umano la “dignità morale” per cui egli può definirsi propriamente umano.
Noi siamo gli unici esseri capaci di abdicare moralmente il nostro bene individuale a favore di quello della comunità, perseguendo così un fine più alto e nobile, slegato dall’istinto animale e dal desiderio fine a se stesso. In questo contesto il suicidio — che non sia figlio di un atto eroico per il bene di tutti — è bandito. Inoltre il dolore, nella concezione di Madame de Staël, “è uno degli elementi essenziali della facoltà di essere felici” (p. 121), poiché perfeziona l’anima riservandoci per dopo la vera felicità, una felicità maggiore di quella che stavamo cercando, perché figlia di un processo virtuoso in cui ci si scava dentro in profondità fino ad arrivare ai veri noi stessi: «uccidersi a causa dell’infelicità significa quindi sottrarsi alla virtù: sottrarsi ai godimenti che questa virtù ci avrebbe dato, se avessimo vinto le nostre pene attraverso il suo soccorso» (p. 122).
Ad arricchire il volume le Lettere sugli scritti e il carattere di Jean-Jacques Rousseau (1788), riproposte in Italia dopo una prima traduzione del 1817. Queste Lettere, scritte a soli dieci anni dalla morte del filosofo ginevrino, contribuirono ad orientare il giudizio dell’opinione pubblica in un momento in cui la figura di Rousseau non godeva di buona fama. Agli occhi di Madame de Staël, egli rappresenta invece il più eloquente degli scrittori in lingua francese, una penna dallo stile intriso di «armonia naturale, vero accento della passione» (p. 65).
Stefano Scrima
da L’Ateo n. 108