Il testo rappresenta un’interessante raccolta di riflessioni e di spunti sui meccanismi di costruzione del cristianesimo. L’opera parte da una prospettiva “evoluzionistica” e “materialistica”: i sistemi sociali si sviluppano accumulando complessità, ma devono confrontarsi con la «nostalgia dell’essere», che oggi spinge verso il tradizionalismo e genera «una crescente ondata fondamentalista, reazionaria e antiprogressista, che sta infestando il presente». Proprio la modernità ci permette però di comprendere molte dinamiche un tempo oscure, specie per quanto riguarda la formazione delle religioni, espressione ideologica ed «effetto meccanico immanente alla struttura del sistema».
Nell’interpretazione dell’autore, la religione si configura – sulla scorta di Nietzsche e Marx – come una «forma della politica che si esprime nei piani nobili dell’astrazione e dell’immaginario, e perciò in assenza del suo stesso oggetto, il quale, in ogni caso ha però “da venire”». Fondamentale nel cristianesimo è infatti l’attesa del “Grande Re”, «che prefigura un piano di dominio universale, ossia un salto di qualità della politica», che però comporta la scissione tra potere militare e dominio ideologico e l’assolutizzazione/astrazione di quest’ultimo. Il cristianesimo diventa quindi allegoria di un processo storico: il tentativo di adattamento tra sistema in crescita – quello dell’Impero romano – e un’ideologia che stia al passo con esso, fornendo prospettive di senso. Oggi possiamo comprendere quanto la religione sia in realtà politica in nuce: proprio per questo «tutto ciò che noi usiamo chiedere solitamente a questo essere supremo […] dovremo invece esigerlo con forza dalla società stessa, ossia da un sistema di relazioni sociali positivamente determinato, opportunamente organizzato e scientificamente evoluto», dato che «la felicità dello spirito è riconducibile alla felicità della materia, per quanto ogni felicità si misura come uno stato di benessere corporeo».
L’esperienza religiosa si configura come amplificazione e riempimento di sé, come volontà di potenza del soggetto espressa al massimo grado, manifestando in realtà «maggiore superbia» rispetto a chi è spinto da “bassi interessi materiali” (perché il credente «non può certo proclamare, costui, di disprezzare quella grandezza che gli animi avidi rincorrono, quando lui stesso si affanna a cercare qualcosa di ancora più grande», cioè Dio stesso).
La coscienza onirica diventa il luogo privilegiato della costruzione ideologica e quindi di quella mitico-religiosa, perché “razionalmente”, «conferisce un senso a tutto ciò che accade a noi stessi quando non siamo in grado di definire le cause […] si cura di rimuovere le stesse contraddizioni che sono implicite nella sua costruzione generando comunque delle sintesi». Quando il sistema non riesce più a produrre un’ideologia soddisfacente, vi è una generale crisi e caduta di senso, proprio come sarebbe accaduto con la formazione del cristianesimo.
La mescolanza di culti e mitologie del periodo imperiale ha ricevuto una «forma cristiana» (un “format religioso”), proprio dalla «struttura del sistema stesso, in quanto entità reale e vigente e unico soggetto sostanziale del processo storico». Il cristianesimo si sviluppa quindi grazie all’Impero, che permette la diffusione di quegli elementi che garantiscono competitività e fusione con altri, generando un’ideologia dotata, per esclusione e amplificazione, di una certa “coerenza” interna. In questo processo è importante il continuo languaging, per cui i cristiani «scrivono e ripetono, ripetono all’infinito la stessa verità che a sa volta diventa più vera proprio perché ripetuta, ma allo stesso tempo si muta perché a ogni ripetizione ciascun ripetitore aggiunge qualcosa».
Lo scenario ideologico in cui emerge il cristianesimo da una parte è quello dell’«orizzonte sofistico in cui si impaglia la scienza e nel quale si rivela l’effettivo limite del pensiero». Mentre i greci avevano l’intuizione che i miti fossero invenzioni letterarie, col cristianesimo le “testimonianze” scritte diventano la base fideistica. L’irruzione delle masse – più propense al fideismo – nel contesto dell’Impero, le infinite diatribe teologiche e l’affinamento delle capacità dialettiche e retoriche favoriscono lo sviluppo del cristianesimo. Nel clima scettico e insicuro della tarda classicità e dell’impero, il concetto di “verità” si lega al religioso e si pone in netta contrapposizione rispetto alla scienza: «l’ideologia afferente al cristianesimo si è così innestata naturalmente e con effetti straordinari sulla crisi strutturale della ragione classica penetrando in modo efficace all’interno della crisi del sapere. La soluzione religiosa risolve le antinomie del sapere attraverso una conciliazione mitologica tra l’infinito e il finito». Così la “verità” cristiana spinge a una coerenza etica che sfocia irrimediabilmente nel fanatismo, di per sé “prova”.
La sofistica – da Eraclito (giudicato enfaticamente «vero, remoto, fondatore del movimento cristiano») in poi –, vera e propria «debolezza epistemologica» coltivata dagli intellettuali classici, costituisce il cavallo di Troia col quale il cristianesimo penetra profondamente nell’Occidente. Il sistema delle massime cristiane (come quella dell’acqua “vera” o del “figliol prodigo”) si configura infatti come un insieme di paradossi logici, che danno «l’illusione di una rivoluzione etica», ma che in realtà sono «in sintonia con i valori propri della romanità e della classicità che possiamo già trovare in un quantità di scrittori, a partire da Platone», salvo per la «virulenta evoluzione enfatica».
La figura di Gesù è espressione del concetto di sovranità, del soggetto assolutizzato che finisce per svincolarsi dal concreto e la rappresentazione dell’imperatore dotato di poteri divini: «I cristiani venerano Cesare nella sua essenza interiore, che chiamano “Cristo”. Il cristianesimo pertanto santifica l’impero, ossia ne esprime la sostanza politica». La contrapposizione tra Gesù e Cesare è solo apparente, in quanto il regno “di Dio” è costruito a immagine e somiglianza dell’Impero stesso. La crisi dello Stato romano – che porterà all’accentramento imperiale – è parallela alla crisi delle religioni antiche: «Il cristianesimo sarebbe solo il risultato meccanico di questo mescolamento e confusione conseguente alla perdita di importanza delle antiche religioni e ideologie e delle relative caste sacerdotali». La “domanda ideologica” degli intellettuali di fronte alla crescita del sistema non viene più appagata dalle vecchie culture: il cristianesimo quindi diventa la religione «più evoluta, non perché più “vera” delle altre, ma perché è stata prodotta da un sistema più evoluto, vasto e organizzato, rispetto ai vari dispotismi orientali».
In sostanza, quest’opera – nonostante la complessità di alcuni punti, che necessitano un minimo di cognizione nel campo della filosofia – rappresenta un ulteriore contributo per impostare uno studio davvero critico e laico di quel complesso fenomeno “umano, troppo umano” che è il cristianesimo, non tanto nei caratteri storici particolari quanto soprattutto nei risvolti filosofici generali e nelle tendenze di sistema.
L’autore
Pier Giuseppe Milanesi è scrittore e autore di studi e saggi filosofici. Per Ibis ha pubblicato La tela di Penelope. Forma e dissoluzione della coscienza e ha tradotto Viaggio di un professore tedesco all’Eldorado di Ludwig Boltzmann.
Valentino Salvatore,
Circolo UAAR di Roma
ottobre 2007