Un deliziosissimo pamphlet, irridente e corrosivo questo “Piccolo trattato di ateismo” che meritoriamente l’editrice “Il Melangolo” propone al lettore, e che per significativa coincidenza esce nel contesto emotivo del “Je suis Charlie” e del nostro interrogarci sui limiti della satira (discussione vanesia almeno quanto interpellarsi sul limite della licenza poetica rispetto alla sintassi). Sotto questo profilo il barone d’Holbach si rivela un illustre antesignano di Charb, Cabu, Honoré, Tignous e gli altri martiri laici del fanatismo religioso, e colpisce con dardi al fulmicotone codesto fanatismo con le armi affilatissime dell’ironia e dell’irriverenza mettendo a nudo privilegi del clero, sconclusionatezza dei dibattiti teologici, ipocrisia e viltà dei potenti di fronte alla religione.
Naturalmente questo scritto, che nel titolo originale reca con tono canzonatorio La théologie portative, un vero dizionarietto pronto-uso della religione cristiana, come facilmente intuibile, non ebbe vita facile, d’altronde nam nulli tacuisse nocet, nocet esse locutum, sosteneva Catone, e lui di censura se ne intendeva assai. Iniziò a circolare a Parigi nel 1767 e fu pubblicato clandestinamente solo un anno dopo, mentre fu “messo al rogo” il 16 febbraio del 1776 per blasfemia, nella Francia bigotta che già Voltaire aveva cominciato a sfidare, quella stessa Francia che aveva aperto la caccia alla streghe contro il De l’esprit, di Helvétius. D’Holbach fu traduttore, protettore e mecenate ed insieme all’amico Grimm ebbe il merito di far circolare un gran numero di libelli di stampo materialistico-antireligioso. Le sue vicende personali non furono meno burrascose, anche se meno esiziali rispetto all’amico Diderot che invece dovette scontare la prigione.
Le sue note amicizie aristocratiche gli consentirono le adeguate coperture ma anche l’uso in molte opere dello pseudonimo, in particolare quelle anticlericali, lo preservarono da rogne. Spirito eclettico come tutti i filosofi illuministi, contribuì alla stesura dell’Encyclopédie e manifestò una certa propensione alle opere scientifiche con particolare interesse per la chimica e la mineralogia. Non cesserà però, neanche nelle sue opere maggiori come il Sistema della natura, di offrire al lettore un’impostazione atea e materialistica della sua concezione del mondo contro ogni superstizione e ogni credenza con una vis polemica che sconfina i canoni del deismo, a cui pure molti philosophes rimasero ancorati.
In questo libro il bersaglio prediletto non può che essere la Chiesa Cattolica: ma d’Holbach, nella sua incontenibile ostilità verso qualsiasi metafisica, non lesina riferimenti alle altre fedi, dai Fenici, il cui dio Moloch esigeva l’immolazione dei bambini a quello dei messicani che si placava solo con migliaia di vittime, al dio dei Celti che sacrificava i prigionieri di guerra fino al dio di Maometto (tragico presagio) il quale “voleva che la sua religione venisse riconosciuta a costo di mettere a ferro e fuoco tutto ciò che lo circondava e di conseguenza pretendeva che gli fossero sacrificate intere nazioni”. L’autore poi retoricamente si chiede come mai quello che è ritenute crimine per le altre religioni viene ritenuto santo in quella del “dio vivente”. La risposta, ovviamente sarcastica, è che “non v’è nulla di più legittimo che fare perire il corpo per rendere felice l’anima”, in tal guisa si possono comprendere esili, persecuzioni, torture e roghi. E se il clero “spoglia le nazioni”, queste le siano grate perché lo fanno affinché si salvino. In fondo, si chiede d’Holbach, chi siamo noi per giudicare? Splendidamente caustico scrive: “Se, per esempio, un monaco lascia i sandali davanti all’uscio di una fanciulla (come capita in Spagna), il marito deve supporre che costui lavori per la salvezza della moglie”.
Nella parte relativa al dizionario delle voci ci sono delle vere chicche. Alla voce APPARIZIONI si legge: “Meravigliose visioni, dono di coloro a cui Dio fa la grazia speciale di avere il cervello tocco, crisi isteriche, cattiva digestione e sfrontatezza nel mentire”. Oppure in ASINI: “Animali dalle lunghe orecchie, pazienti e furbi, veri modelli dei cristiani che devono lasciarsi mettere il basto e portare croci”. E che dire di BENI ECCLESIASTICI: “Beni che appartengono alla Chiesa e quindi a Dio quindi a Dio che è suo marito. Costei l’ha sposato a patto che vi fosse comunione dei beni, in caso contrario non avrebbe acconsentito a prendersi un vecchio barbuto, per di più senza sopraddote”.
L’ipotesi agnostica diventa viltà di fronte al prorompere di questa apodosi satirica che disvela il gusto del divertissement come agone necessitato nel diuturno duello tra ragione e pregiudizio metafisico, una lezione diacronica dunque valida in ogni tempo. Con un inevitabile e necessario ricordo a Charlie Hebdo, eredi di questa nobile e coraggiosa tradizione.
Stefano Marullo
gennaio 2015